Martedì 16 luglio - mattina - Questioni editoriali

Interventi di Mia Lecomte, Julio Monteiro Martins, Anilda Ibrahimi, Amor Dekhis, Sonia Cherbino (traduttrice, Brasile), Eugenia Mazza (ricercatrice), Andrea Sirotti (traduttore, redattore della rivista Semicerchio)

Mia Lecomte - Varrebbe la pena di parlare delle possibilità editoriali aperte a questa nuova letteratura, delle riviste, delle piccole e grandi case editrici. Infatti, stranamente, il fenomeno è inizialmente è nato legato alle grosse case editrici, perché i primi libri pubblicati nel '90 erano di Garzanti, Einaudi. Poi la cosa è decaduta, perché non era un interesse autentico, per molti motivi che esamineremo insieme, anche se adesso le grandi case editrici hanno ricominciato in parte ad interessarsene, come la Bompiani che pubblica Tawfik, o la Feltrinelli Gangbo. In compenso c'è stato un interesse sempre maggiore delle piccole case editrici, la nascita di alcune riviste e più recentemente le pubblicazioni on-line, sia nelle riviste che nei siti sociali.

Amor Dekhis - Mentre finivo il romanzo intorno ai primi anni '90, chiedevo anche consigli agli addetti ai lavori. Ho inviato il mio lavoro a diverse case editrici, ma non ho avuto nessun riscontro, il pacco mandato alla Feltrinelli mi è tornato indietro senza essere stato nemmeno aperto.

Julio Monteiro Martins - Nella rivista Vibrisse, diretta da Giulio Mozzi, è stata pubblicata una lettera di un autore che affermava proprio quello che dicevi tu, ossia che la Feltrinelli gli aveva restituito il plico dicendo di non inviare più niente, perché non erano in grado di leggere quello che non era richiesto. Questo giovane autore diceva nella sua lettera che se questa era una tendenza dell'editoria italiana, era proprio un suicidio, perché se qualcuno avesse scritto un eventuale capolavoro, non poteva nemmeno essere letto.

Amor Dekhis - Sempre a proposito dell'editoria, spesso sentiamo dire che ogni italiano ha un romanzo nel cassetto e questo vuol dire che la concorrenza è micidiale, ma al contempo gli editori e i librai dicono che in Italia si legge pochissimo, l'unico paese che legge meno dell'Italia pare sia la Turchia. Penso che questa contraddizione non regga. Per scrivere un libro, bisogna per lo meno aver già letto tantissimo. Gli italiani hanno delle storie, il che non vuol dire saper scrivere un racconto o un romanzo. Devo dire, comunque, di aver collezionato abbastanza risposte negative, che è un classico degli scrittori sconosciuti, potrei facilmente riempirci una valigia! Ma addirittura la Mondadori ha espresso un giudizio positivo, o la Marsilio mi ha detto di apportare alcune migliorie e poi ripresentarlo. Ad un certo punto ho smesso di cercare editori ed ho partecipato a concorsi di racconti, continuando a lavorare sui vecchi testi. Ultimamente ho partecipato ad un concorso organizzato dall'Arci di Padova, e sono stato pubblicato Proprio lì ho conosciuto Giulio Mozzi. Anche lui ha una scuola di scrittura creativa, e da quest'anno dirige una collana di narrativa. Mi ha chiesto se poteva leggere qualcosa di mio. E' la prima volta che mi succede una cosa del genere, nonostante viva qui da tanti anni.

Anilda Ibrahimi - Non vedo concorrenza tra gli scrittori italiani e stranieri, se un romanzo è bello, è bello e basta. Anche tra gli stessi italiani esistono grandi problemi, sono sicura che ce ne sono tanti meglio di Pietro Taricone, il cui libro di battute è uscito per Feltrinelli! Penso che di questo sia gli scrittori italiani che stranieri si indignino.

Mia Lecomte - Nel mio piccolisssimo, lavorando appunto per la Loggia dei Lanzi, ho visto che non ci sono più direttori editoriali nelle case editrici. Oggi troviamo dei manager che lavorano per due anni in un'azienda che magari si occupa di tutt'altro, e poi capitano in una casa editrice. Non hanno nessuna conoscenza letteraria e hanno un'idea del mercato generica, per cui tendono a cercare esclusivamente il risultato economico, che spesso poi non raggiungono, perché in ambiti diversi i meccanismi non sono gli stessi.

Sonia Cherbino - Secondo voi non è proprio il mercato che regola il prodotto che si vende? Il lettore medio va a leggere un prodotto che è già convalidato, conosciuto, autori consacrati, e per di più legge poco, non rischia sullo sconosciuto, e così il mercato si adegua.

Julio Monteiro Martins - Prima di risponderti vorrei completare un ragionamento sulla questione della pubblicazione. Capisco che pubblicare sia difficile sia per uno scrittore cosiddetto migrante come per un italiano, ma non metterei entrambi nella stessa situazione. Per i giovani scrittori italiani anche se la strada è sempre più stretta, sono state create innumerevoli collane specifiche per loro, come la collana "Stilelibero" dell'Einaudi, oppure quella della Guanda. Non conosciamo il criterio di selezione, però per gli scrittori migranti non è mai stata dedicata una collana in nessuna casa editrice.

Mia Lecomte - Parlavo recentemente con una persona dello staff della Bompiani e mi diceva che secondo lei il problema riguarda la letteratura scritta in italiano in generale, di scrittori sia migranti che italiani. Siccome gli italiani sono sempre stati degli esterofili, quello che interessa al mercato è la letteratura straniera, e quindi si lavora soprattutto con i traduttori, traducendo i best-seller stranieri. E a me, che le proponevo certi autori migranti, chiedeva se piuttosto non avessero scritto niente nella loro lingua, perché era molto più semplice interessare la casa editrice a cose già pubblicate nel paese d'origine, piuttosto che a cose scritte qui, in italiano, che non interessano a nessuno.

Anilda Ibrahimi - Sono cose che penso anch'io di fare. Sto pensando seriamente di farmi pubblicare un mio romanzo nel mio paese, magari pagandomelo, perché lì funziona così, perché mi sono resa conto che per la scrittrice albanese Elvira Domez, che ha pubblicato Il sole bruciato per Feltrinelli, è andata così. Io l'ho letto prima in italiano e non mi era piaciuto per niente, allora pensando che fosse stata fatta una cattiva traduzione, mi sono fatta mandare l'originale in albanese da alcuni amici, e ho visto che anche in albanese era una schifezza. Però ha avuto un certo successo in quanto tratta un tema che da noi è tabù, ossia quello della prostituzione. Anche se sembra paradossale e la tv italiana parla di prostituzione albanese dalla mattina alla sera, da noi non esiste come fenomeno. Perché è nata negli anni Novanta, con la caduta del muro di Berlino e tutto quanto, ed esiste questa schiavitù in esclusiva soltanto in Italia. E di questo però non si parla, è una società molto chiusa e patriarcale la nostra, cinquecento anni di Impero Ottomano non si cancellano facilmente...
Comunque il romanzo tratta il problema della prostituzione in Italia descrivendo scene di violenza tremenda, con papponi, sangue e sesso, senza nessuna morale. Lei afferma che adora entrare nel dolore, ma alla fine, letterariamente parlando, l'opera non ha valore. Credo sia un'operazione abbastanza furba, lei vive nella Svizzera italiana, e capisco la sua logica.
Non so se sia stata testimone diretta, ma a me che seguo queste problematiche per il mio lavoro nelle Ong, questa violenza esacerbata non risulta.
Credo che questo romanzo raffiguri gli albanesi come una razza violenta, senza spiegare da dove venga tutta questa violenza, e voglia dare l'idea dell'albanese violento di natura, ovvero come gli italiani vogliono vederci. Così ha creato uno stereotipo, che combacia con l'idea che ne hanno gli italiani: papponi, mafiosi, violenti, che vendono le madri per i soldi. Ma questo non è vero, perchè la delinquenza non ha nazionalità.

Mia Lecomte - Questo è un discorso che è stato fatto anche al seminario di Roma. Carmine Gino Chiellino, uno scrittore di origine italiana, emigrato in Germania, che scrive in tedesco, sosteneva che in Germania era successo lo stesso. Al primo nucleo di scrittori che cominciavano a scrivere in tedesco, l'identità che il paese offriva loro, legata alla loro nazionalità, alla loro estraneità, era un'identità negativa: o tu rientravi nello stereotipo negativo, trattando i temi conseguenti, o altrimenti non avevi possibilità di configurarti come scrittore. Adesso è una fase superata. A questo proposito, in Germania c'è stata una successione di generi. Si è partiti con la poesia, una poesia di basso livello, di testimonianza e sfogo, di personaggi sempre sconfitti all'interno della società tedesca, e solo dopo che sono passati tanti anni, si è arrivati ad altri generi letterari, fino al romanzo poliziesco, al giallo. Ma c'è stato tutto un cammino da compiere.

Anilda Ibrahimi - Per concludere il mio discorso. Io, visto l'esempio della scrittrice albanese, ho pensato di farmi pubblicare un romanzo da un amico mio che ha una casa editrice in Albania e che lavora qui a Roma per l'Istituto Luce. Mi faccio fare una bella pubblicità in Albania e poi qui vendo più facilmente. Però ho capito che quello che scrivo io non può aver successo né in Albania né in Italia, perché non scrivo di sesso, scrivo cose normali, magari un po' tristi.

Mia Lecomte - Per certi paesi i cliché a cui bisogna attenersi sono dei cliché sociali, come appunto l'Albania, per altri paesi sono anche letterari, stilistici. Da uno scrittore sudamericano che scrive in italiano, ad esempio, ci si aspetta un certo tipo di scrittura, lo scrittore sudamericano che non scrive in quel modo, non interessa, si vogliono distinte le categorie.

Anilda Ibrahimi - Nel mio paese per esempio c'è uno scrittore Ismail Kadaré, che viene super pubblicato, ma anche lui mantiene la stessa linea, parla dell'Albania di cinquecento anni fa, con uno stile molto gotico. Parla ancora della verginità della sposa e del padre che ha il diritto di uccidere la figlia con una pallottola se non è vergine, come pure delle lenzuola bianche che la suocera deve stendere al mattino, cose di questo genere. Io adoro Kadaré ma gioca ancora su queste ballate e leggende della nostra tradizione. Quindi da noi ci sono due stereotipi, o l'esotismo di questa tradizione ai più sconosciuta, oppure la violenza.

Julio Monteiro Martins - Volevo fare due osservazioni. La prima riguarda la questione degli stereotipi. Per gli scrittori latinoamericani e brasiliani, si richiede loro una sorta di riproduzione di un certo immaginario europeo su quel mondo. Per quanto riguarda gli ispanoamericani si cerca una sorta di miracolo del quotidiano, di epifania magica alla Garcia Marquez, mentre nel caso degli scrittori brasiliani una sorta di sensualità, alla Jorge Amado, con la presenza del popolo, della forza e dell'energia del popolo povero che alla fine si redime, filone quest'ultimo sfruttato da un altro scrittore non a caso di Bahia, João Ubaldo Ribeiro, che ha scritto il romanzo Viva il popolo brasiliano edito da Frassinelli.
Quando mi è possibile cerco sempre di ricordare che in primo luogo il cosiddetto realismo magico non è mai stato presente nella tradizione brasiliana, anche perché è frutto di un certo contesto antropologico-culturale, fatto dalla cultura indiana come quella Maya, Azteca, che non esiste in Brasile, e anche in un contesto di paesi con una prevalente realtà rurale come il caso della Colombia, del Venezuela e del Messico. Nello stesso periodo in cui intorno agli anni '40 e '50 si cominciava a parlare di quella realtà contadina, in Brasile il romanzo era prevalentemente urbano e non rurale, c'erano i romanzi di Graciliano Ramos, Clarice Lispector, Dalton Trevisan, Lucio Cardoso, romanzi che ritraevano la vita e i problemi di persone che vivevano in città con uno, due, tre milioni di abitanti, già a quell'epoca. Questa letteratura brasiliana, che non riflette una realtà di evasione esistenziale, non è stata scritta in spagnolo e diffusa in Europa attraverso l'agenzia spagnola famosa in quegli anni, la Carmen Balcels, tra l'altro conosciuta a Rio de Janeiro perché voleva aprire una sua agenzia di rappresentanza lì, e che non sapeva una parola di portoghese e non era interessata alla letteratura brasiliana, e così autori del calibro di Guimarães Rosa o di Clarice Lispector, non sono entrati in Europa o negli Stati Uniti nel periodo del cosiddetto boom letterario latinoamaericano, tra l'altro a causa proprio della lingua portoghese e non spagnola, e tutto questo riflette ancora una enorme difficoltà.
In poche parole direi che la letteratura brasiliana o ispanoamericana che riflette tematiche contemporanee, legate alle grandi città, alla violenza urbana, alle difficoltà dell'esistenza, alla solitudine, alla malattia, non è capita, assorbita e accettata in Europa o negli Stati Uniti, proprio perché macchia e corrompe una certa immagine di "purezza tropicale" e di evasione che si vuole conservare intatta.
Alcuni anni fa ho ricevuto una cartolina da un amico che si era trasferito a São Paolo. La cartolina mostrava uno scorcio tipico della città, una sorta di mare di grattacieli grigi con all'orizzonte un tramonto anch'esso grigio. Così quando la mostravo agli amici italiani, stentavano a credere che quello fosse il Brasile! Questa reazione mi sembra simile a quella degli europei riguardo alla nostra narrativa brasiliana moderna e contemporanea.

Amor Dekhis - Ci sono scrittori stranieri che pubblicano in italiano, come Gangbo, congolese che vive a Bologna, che ha pubblicato per Feltrinelli Rometta e Giulieo, molto bravo ma semisconosciuto, in Internet non ho trovato quasi nulla su di lui, mentre su Tawfik si trovano tantissime notizie. Forse l'essere conosciuti dipende anche da quanto la casa editrice investe in pubblicità e da quanto gli scrittori vanno in televisione per fare pubblicità al proprio libro e indirettamente alla casa editrice.

Julio Monteiro Martins - Vorrei aggiungere che la maggioranza dei libri, anche nelle fiere o nei mercatini estivi, sono di autori di dominio pubblico, edizioni economiche diverse e non solo per non spendere in diritti d'autore, ma per evitare royalties ecc. Inoltre, purtroppo, non vedo un'autonomia del mercato, mi sembra piuttosto che il lettore sia teleguidato dalla pubblicità indiretta, ossia dalle pagine culturali delle maggiori testate. Certi scrittori sono ospiti fissi di queste rubriche o di programmi televisivi, oppure personaggi pubblici che dichiarano di stare leggendo quel tale libro. Tutto questo guida il mercato, le persone comuni comprano i libri di cui sentono parlare o di cui leggono le recensioni. Libri di Enzo Biagi, Indro Montanelli, Bruno Vespa, Emilio Fede ecc., giornalisti e autori profondamente immersi nel mondo editoriale e televisivo.

Mia Lecomte - Sì, si investe molto anche sui comici, con i quali le case editrici sperano di cavalcare il successo televisivo. Non c'è solo la politica.

Julio Monteiro Martins- In questo modo si viene a creare una concorrenza sleale, come può un bravo autore trovare il suo spazio in mezzo a tanti personaggi televisivi.

Mia Lecomte - Forse l'editoria on-line potrebbe risolvere questi problemi, perché esce da questi schemi, scavalcando tutti i pregiudizi.

Eugenia Mazza- Credo che la forza stia nel mettersi insieme, anche in una collana, per essere meglio conosciuti e pubblicizzati. Oggi quando si entra in una libreria, nemmeno il libraio ha idea se un romanzo sia stato tradotto o scritto direttamente in italiano da uno scrittore migrante. Bisognerebbe rompere questo isolamento.

Mia Lecomte - E' quello che sta facendo Armando Gnisci, con l'apertura della nuova collana Kuma per le edizioni Intercultura. Io ho provato a farlo, un paio di anni fa con un piccolo editore. I quaderni che avevamo realizzato sono finiti in una manifestazione a Milano e Carlo Feltrinelli, presente a questo evento, mi ha cercata, dicendomi che era interessato alla collana. Con Francesco Stella, direttore di Semicerchio, abbiamo pensato a una formula che potesse andare bene alla Feltrinelli, inserendo questi autori in una collana che già si occupasse di intercultura. Le cose sembravano fatte, sono stati selezionati degli autori, ma ad un certo punto la trattativa si è interrotta. Alla fine mi è stato spiegato che il progetto era proprio di far rientrare la nostra collana in un grosso contenitore, insieme ad altre iniziative legate alla letteratura della migrazione, ma poichè la pubblicazione del primo numero della rivista del Parlamento Internazionale degli Scrittori Autodafé non aveva funzionato la casa editrice non se la sentiva di investire in un settore così a rischio.

Sonia Cherbino- Forse gli scrittori migranti occupano una sorta di nicchia esotica nel mercato, altrimenti cosa accomuna uno scrittore brasiliano e uno scrittore algerino?

Mia Lecomte - Sono tutti scrittori "impuri", contaminati, è la contaminazione tra il paese di provenienza e quello di accoglienza, l'ibridazione culturale e linguistica che li accomuna, chiaramente secondo alchimie diverse, e questo andava spiegato. In un contesto monoculturale come quello italiano, gli scrittori migranti rientrano certamente in una categoria a parte. Rispetto a un Zanzotto che nasce a Pieve di Soligo , vive tutta la sua vita lì e scrive in dialetto, c'è una grossa differenza, insomma.

Julio Monteiro Martins - Io ho una visione un po' diversa del fenomeno. Non vedo questi scrittori né come scrittori migranti né come nuovi autori italiani. Vedo che il fenomeno della globalizzazione del mercato si può estendere anche alla vita culturale e alla soggettività dei popoli. All'inizio del XXI secolo nasce una letteratura mondiale, gli scrittori, per la prima volta nella storia, cominciano ad assumere un'identità transnazionale. Il caso di Michael Ondaatje mi sembra emblematico. Figlio di genitore olandese, nato in Sri Lanka, la prima lingua era quella della madre olandese, la seconda il cingalese, poi è andato a studiare nel Canada inglese, quindi in età adulta ha cominciato a scrivere in inglese. Lui ha seguito un percorso che mi sembra sempre più frequente tra gli scrittori. Tutto il mondo va in questa direzione, c'è uno spostamento di idee e libertà ma anche uno spostamento fisico delle persone.
Riguardo alla difficoltà di entrare in libreria e sapere se un libro è stato tradotto o meno, di cui parlava Eugenia Mazza, è stata una delle ragioni per cui ho dato il titolo di Racconti italiani al mio primo libro pubblicato in Italia, anche se volevo seguire una certa tradizione dell'Ottocento.

Amor Dekhis- Volevo aggiungere che per effetto della globalizzazione, anche l'italiano dovrà diventare una lingua che, una volta acquisita, può essere cambiata, innovata come è accaduto con il francese e l'inglese.
Ho conosciuto recentemente due scrittori algerini, uno durante la presentazione del suo libro, tradotto, Estetica da macellaio, alla libreria Edison di Firenze. Mentre parlava ha detto che non si sentiva francofono, insegnava letteratura araba nelle scuole superiori, però scriveva in francese perché era la lingua più facile per arrivare al pubblico. Lo stesso accade con un altro scrittore algerino, che usa il nome della moglie come pseudonimo, anche lui arabofano che scrive in francese.
Bisogna forzare un po' la lingua italiana ad uscire da questo suo guscio un po' provinciale.

Mia Lecomte - Sul discorso della lingua, al convegno che si è tenuto a Roma si sono evidenziate due posizioni: da una parte coloro che la scelgono semplicemente come uno strumento sonoro, e quindi la lingua diventa funzionale a quello che si vuole esprimere. Questo è un percorso che raccontava Barbara Serdakowsky: nata in Polonia dove ha vissuto fino a due anni, trasferitasi in Marocco dove ha imparato il francese, poi in Canada, con l'inglese, suo marito è venezuelano per cui parla anche lo spagnolo... E scrive poesie dove queste lingue spesso coesistono, si intersecano, si alternano proprio come se si trattasse di uno spartito musicale.
Diverso è il caso della poetessa eritrea Ribka Sibhatu, che ha alle spalle una emigrazione meno "di lusso", un'emigrazione forzata, dove la lingua è stata in qualche modo imposta, e quindi il condizionamento psicologico che c'è dietro ne ha comportato un uso diverso, e ha condizionato anche il rapporto con la lingua madre.

Amor Dekhis - Penso che anch'io forse potrei usare il francese, che conosco come l'italiano, e tuttavia penso che quando ci sono diversi algerini che scrivono o in francese o in spagnolo o in italiano, sia una grande ricchezza.

Andrea Sirotti - Questa seconda tendenza di chi sceglie una lingua che gli viene imposta, che rapporto ha con essa, ne nascono conflitti?

Mia Lecomte - Ci sono molti autori che vivono in Italia e rimangono fedeli alla propria madrelingua, come Amara Lakous, che scrive in arabo. Se c'è un percorso esistenziale di un certo genere, c'è una nostalgia continua della lingua madre, una volontà di rimanerle fedele. E' un tema dibattuto anche tra "i grandi esuli": Wole Soyinka, ad esempio, sostiene la necessità di rimanere fedeli alla propria lingua, alla propria tradizione. Ma è anche una posizione culturale. Quella di Soynka è infatti una visione molto "africana", per i motivi storici che tutti conosciamo.

Andrea Sirotti - Conosco abbastanza bene la realtà britannica, certi scrittori che vivono là, a seconda della provenienza, decidono di intervenire eversivamente nei confronti della lingua inglese, che usano ma che vedono un po' come nemica, un esempio sono molti dei poeti caraibici. Qualcuno parla di fare un attentato alla lingua della regina. Viceversa altri cercano di essere il più rispettosi possibile, sintatticamente e grammaticalmente, come è il caso degli indiani, proprio per dimostrare di fare anche qualche passo avanti, di essere più realistici del re. Queste due posizioni mi hanno sempre interessato, non so se poi dipenda dalla dicotomia di cui parlavi tu, prima: una lingua adottata per amore o una lingua imposta e sentita come opprimente e oppressiva.

Mia Lecomte - Non è solo questo, certamente. All'origine delle scelte linguistiche ci sono molte motivazioni, legate alla storia del proprio paese, alla sua cultura, come alla storia personale, negli infiniti risvolti. Sempre Chiellino, a Roma raccontava di essersi inizialmente sentito estraneo alla lingua tedesca, perché i tedeschi sostanzialmente non lo accettavano. Allora, per inserirsi all'interno della lingua tedesca, si era dovuto reinventare il tedesco, che in tal modo era finalmente riuscito a possedere pienamente. Ma la scelta del tedesco aveva avuto anche un'altra motivazione: a un certo punto della sua vita gli era diventato impossibile esprimere se stesso, raccontare certe cose, in italiano. Quando si esprimeva in italiano era troppo doloroso, l'italiano era legato ad una serie di fasi della sua vita che non riusciva più ad esprimere nella madrelingua, perché la ferita era troppo acuta. Così ha avuto la necessità di un distacco, di mettere qualcosa in mezzo, il filtro di un'altra lingua. Però per appropriarsi di una lingua non sua, l'ha dovuta reinventare.

Amor Dekhis - Poco tempo fa ho letto su Repubblica un articolo che riguardava i quarantanni dell'indipendenza dell'Algeria, di Bernardo Valli. Raccontava questo giornalista che il giorno dell'indipendenza si trovava con uno scrittore algerino, il padre della letteratura francofona del Magreb. Questo scrittore, durante l'occupazione aveva avuto tendenze indipendentiste, aveva criticato la Francia, il colonialismo, e così via, e dopo l'indipendenza era molto critico verso il potere. Così gli hanno chiesto come mai scrivesse in francese visto che criticava tanto la Francia, e lui ha risposto che ce l'aveva con gli occupanti e che, del resto, il francese era stato il bottino di guerra.

Anilda Ibrahimi - Se tu vuoi integrarti bene forse viene anche più facile usare la lingua di accoglienza. Comunque gli africani hanno sempre un rapporto conflittuale e politico con la lingua. La loro letteratura è quasi un inno di guerra contro l'Occidente, rivendicano la loro storia. Anche al convegno a Roma gli africani ospiti parlavano in continuazione degli italiani in Eritrea o in Somalia.
Poi ci sono degli scrittori che dicono che una sola lingua a loro non basta, tipo Barbara Serdakowsky. Però ho letto dei suoi racconti che erano scritti in tre lingue, li trovo spettacolari ma non mi piace leggere in questo modo, sembrano manuali trilingue. Poeta o scrittore si rimane, non c'è bisogno di tre mezzi per esprimersi, personalmente non mi piace leggere prima in italiano, poi in inglese e poi in francese, mi sembra solo una cosa ad effetto.
Non mi ci vedo scrivere un romanzo dove entro ed esco dall'italiano e dall'albanese. Forse voi non sapete che l'italiano è lingua ufficiale in Albania, quello che non è riuscito a fare Mussolini nel 1939 lo ha fatto il governo Berlusconi e quei cretini che hanno firmato la legge. Noi non siamo un paese colonizzato, perché dobbiamo accettare una cosa del genere? Forse sono un po' arrabbiata anche per questo...
Adesso che le scuole sono bilingui, persino l'Università, io potrei tornare in Albania e scrivere in italiano, ma so che non sarebbe una mia vera esigenza, ma solo una trovata pubblicitaria, un fatto spettacolare, come dicevo.

Amor Dekhis - La lingua si sceglie anche pensando al pubblico che ci legge. Perché dovrei scrivere nella lingua del mio paese per gente che non legge mai?

Mia Lecomte - Comunque quando scegli una lingua che non è la tua lingua madre ti rivolgi ad un pubblico che non è il tuo pubblico. Al convegno Chiellino parlava della necessità di una sorta di tradimento, e diceva che proprio perché questo tipo di contaminazioni siano messe in atto, e ci sia una crescita per un certo tipo di letteratura, sono necessari i traditori.
E che un'opera letteraria che ha valore, funziona nelle due lingue, e per difinire questo lui ha coniato il termine di "autenticità interculturale".

Julio Monteiro Martins - Il concetto di tradimento è interessante. Ci ho riflettuto spesso anch'io. In Brasile avevo creato un determinato gruppo di lettori che accompagnavano la mia opera e che oggi non possono più farlo. Non userei però la parola tradimento. Ci sono diversi livelli di lealtà. Lealtà a cosa? Viviamo in un mondo globalizzato dove i problemi più dei vantaggi, sono globalizzati. Allora lo scrittore deve essere lo specchio di questa condizione umana globalizzata, mondiale, del suo tempo o di tutti i tempi, se ne sarà capace. Inoltre c'è un'altra lealtà ancora più importante che è quella con la letteratura stessa. Molte volte ho letto espressioni come "la mia patria è la letteratura".
Io vedo la letteratura come unico antidoto possibile alla pubblicità. L'unico linguaggio alternativo al linguagggio pubblicitario, ufficiale, del mercato. L'unico uso del linguaggio che per principio sfugge a tutte le manipolazioni e interessi ai quali il linguaggio è sottomesso. Per questi motivi e perché è un'inchiesta profonda sull'animo umano, io vedo che in un momento di caduta delle ideologie e della religione, la letteratura rimane l'unico, l'ultimo sacerdozio rimasto. Sacerdozio non significa dedicarsi ad una fede, in modo totale, disinteressato e duraturo? Questo è quello che ho deciso di fare io trent'anni fa, e non alla letteratura brasiliana o italiana, ma alla letteratura punto e basta. Una fede nella capacità della letteratura di creare un'alternativa di interpretazione del mondo e di sé stessi. Allora se c'è questa fedeltà, sacerdozio e lealtà a questi principi, non può esistere il tradimento.

Anilda Ibrahimi - Condivido la fedeltà alla letteratura. Ho letto le poesie del padre di Mia sia in italiano che in francese e sono bellissime entrambe.

Mia Lecomte - Mio padre le scriveva in francese, le traduceva in italiano e le riguardavamo insieme. Ma non è così facile ricreare la poesia in un'altra lingua, non è immediato, va trovato un codice. E' un lavoro che ho fatto con mio padre per tantissimi anni, la musicalità della lingua poetica non è facile da raggiungere, ricreare.
Per ritornare al discorso delle case editrici, il problema è che non c'è quasi nessuno abbastanza competente da svolgere il lavoro di editor. Soprattutto per quanto riguarda questa letteratura.

Anilda Ibrahimi - Per concludere il discorso, volevo dire che poi ognuno dice la sua, essendo un fenomeno nuovo, e fa teorie sull'uso della lingua e classificazioni che non esistono. Scrivere poesia è utilizzare un certo codice, se poi lo si deve decifrare entrando e uscendo da diverse lingue mi sembra assurdo.

Mia Lecomte - Barbara diceva che soprattutto nella prima fase, quella iniziale, di uno scrittore migrante, è difficile per un italiano giudicare. Perché quando trasporti l'immaginario di una lingua all'interno di un'altra lingua, spesso si creano dei contrasti che all'occhio di un pubblico che non sa l'altra lingua sembrano delle cose geniali, e invece magari sono delle metafore banalissime della lingua madre. Diceva giustamente che lo scrittore vero deve riuscire ad entrare nell'immaginario e nelle metafore della lingua seconda, ed essere originale al loro interno, ma questo avviene più tardi, dopo diversi anni.

Julio Monteiro Martins - Una questione legata a questo, ancora più pittoresca, é quello che, per sbaglio, credendo nelle stessa radice latina delle parole spagnole o portoghesi, si pensa che basta cambiare il suffisso per parlare o scrivere in italiano. E allora si crede che lo scrittore abbia inventato un neologismo nella lingua di arrivo, e magari la critica lo elogia, mentre invece si tratta di un banalissimo errore.

Mia Lecomte - C'è un esempio di un autore messicano, di cui mi ha parlato Armando Gnisci, che all'inizio di un suo testo aveva scritto "ubriaco frasico". Questo "frasico" è molto bello, dà proprio l'idea della parlantina degli ubriachi, ma molto probabilmente in realtà lui voleva scrivere semplicemente "frascico", in romanesco, perchè infatti vive a Roma, ed il suo "neologismo era semplicemente dovuto alla difficoltà di rendere graficamente in italiano il suono "sc". Quindi bisogna anche stare attenti a non farci forviare dalle nostre aspettative linguistiche.

Julio Monteiro Martins - È stato molto discusso l'anno scorso il caso di una scrittrice argentina che aveva creato il neologismo "perdurabile migranza". "Perdurare" esiste in spagnolo, e lei al posto del suffisso "vel" ha messo "bile".

Anilda Ibrahimi - Ma questa è poesia in sé. Perché ricordo che traducendo una mia poesia insieme a Mia, abbiamo creato un neologismo tipo "imbruniti". Ma faccio lo stesso in albanese, creo le parole che non esistono, questo è anche il potere che ti dà la poesia. Tutti i poeti del mondo creano parole nuove.

Mia Lecomte - C'è uno scrittore bosniaco, Bozidar Stanisic, che nei suoi versi inserisce degli interessanti neologismi, "latteodorati", "suinoumbriferi", con degli efficacissimi risultati poetici.

Amor Dekhis - Se uno scrittore scrive nella sua lingua in un paese in cui viene minacciato o cacciato via, e allora inizia a scrivere in un'altra lingua in un altro paese, bisogna chiedersi se questo sia un tradimento oppure no. La letteratura può essere la nostra patria, perché gli integralisti nel mio paese non accettato certi scrittori o pittori.

Julio Monteiro Martins - Amor mi raccontava ieri che il gruppo della Gia, Gruppo Islamico Armato, non ammette una rappresentazione iconografica, per cui ci sono state varie stragi in Algeria di pittori, designer. Da loro esiste questo tipo di realtà, anche se è difficile da capire.

Mia Lecomte - Negli Stati Uniti e in Inghilterra il fenomeno della letteratura della migrazione è percepito come fenomeno letterario ed è studiato. Però in Francia e in Germania questo avviene molto meno. In Francia, in particolare, non c'è stata una fase di passaggio, iniziale, non si è creata una materia di studi al riguardo, con relative definizioni, e mi chiedo perchè.

Julio Monteiro Martins - La Francia ha una mentalità e un sistema di valori legati a un'area intellettuale molto più antica e cosmopolita di altri paesi. Spesso intellettuali che subiscono censure o persecuzioni politiche sono ospitati dalla Francia. Pensiamo all'ultimo Premio Nobel della letteratura, che è cinese, Gao Shingjian, e ha potuto continuare a svolgere il suo mestiere perché è andato a vivere a Parigi.

Andrea Sirotti - In Inghilterra però l'interesse è solo sui paesi dell'ex Commonwealth... ho conosciuto una scrittrice iraniana che scrive in inglese. Non era catalogata, forse fortuna sua, i suoi inizi letterari sono stati molto difficili perché non era considerata né come scrittrice britannica né come scrittrice dell'ex Commonwealth, quindi non riceveva premi e giuste attenzioni ecc.

 

Nella foto: Mia Lecomte