Mercoledì, 17 luglio - mattina - Lingua e identità

Interventi di Julio Monteiro Martins, Anilda Ibrahimi, Amor Dekhis, Eugenia Mazza, Sonia Cherbino, Cristiana Sassetti (traduttrice)

Julio Monteiro Martins- Due giorni fa è uscito il numero otto della rivista Sagarana, dove per la prima volta organizziamo noi stessi della redazione la sessione Ibridazioni, con riflessioni sulla condizione del migrante da parte di alcuni scrittori migranti, alcuni testi in lingua italiana scritti da scrittori non italiani, sia in prosa che poesia. Inoltre ci sono due studi su questa realtà, quello di Eugenia Mazza e di Davide Bregola, che sarà nostro ospite domani.
Leggiamolo quindi insieme e poi possiamo commentarlo.


SCRITTORI "STRANIERI" DI LETTERATURA ITALIANA:
RIFLESSIONI ED EMOZIONI INTORNO ALL'USO DELLA LINGUA

Eugenia Mazza

Quando parliamo della lingua e dei nuovi scrittori "stranieri" di letteratura italiana, ci addentriamo in un territorio accidentato, dove la "parola" confonde, classifica e ingabbia una realtà ancora in divenire. La tentazione sarebbe quella di affrontare una problematica così complessa con argomentazioni ben definite, rischiando di causare l'insorgere di un senso di disagio da parte di chi si trovi ad essere oggetto di studio. Cautamente ci disponiamo a procedere, mantenendoci in equilibrio mentre percorriamo il filo delle nostre e delle loro parole.
Un tempo le lingue viaggiavano a bordo dei velieri sul mare, sulle gobbe dei cammelli nel deserto, a piedi attraverso foreste e città. Oggi spesso accade che confini, frontiere e fili spinati permettano che le lingue si diffondano ancora prima dell'arrivo degli uomini stessi, viaggiando sulle onde della TV, internet e fili del telefono.
Coloro che arrivando da diverse parti del pianeta abitano, lavorano, amano e scrivono in Italia, sono accomunati da un simile destino: fare i conti con le proprie origini.
Se consideriamo la lingua nel suo sdoppiarsi tra un luogo in cui si nasce e uno in cui si abita, allora per i nuovi scrittori italiani provenienti da paesi diversi, la sfida è senza precedenti e la questione linguistica risulta non priva di contraddizioni.
Sandra Ammendola autrice italo-argentina, nei suoi versi ritiene che emigrare sia come: "[…] far passare un'anima da un corpo all'altro ma , l'identità, la cultura, la libertà, l'assenza, con che mezzi si possono contenere […]". (1)
Al di là dei tentativi di conciliazione alcuni scrittori lasciano trasparire un senso di perdita nella loro condizione in mezzo due o più culture. Se consideriamo la lingua un tutt'uno con l'identità e la cultura, allora anch'essa subisce un travaso da un contenitore ad un altro, lasciandone uno "vuoto". Esiste dunque in questo travaso un pericolo di perdita della propria originaria cultura, lingua e quindi identità? Il quesito non può trovare una risposta definitiva che esprima il sentimento unisono dei nuovi scrittori
Attingendo direttamente alle parole dell'autore algerino Tahar Lamri:
" […] un progetto letterario in una lingua neutra è sempre un progetto emotivo […]".(2) Suscita interesse l'accostamento del termine "neutro" ad "emotivo". Trovo stimolante il contrasto terminologico e ritengo di condividere il ruolo importante che l'emotività ha all'interno di un tale progetto di scrittura . Tahar Lamri sceglie di scrivere in Italiano piuttosto che in francese perché : "[…]scrivere in italiano significa, per chi scrive, anche se ciò non corrisponde al vero, scriversi[…]". (3)
L'autore pone l'accento sull'elemento intimo della sua scrittura, l'italiano attraverso cui cerca di realizzare il suo progetto letterario è una lingua che non si rivolge ad un ampio pubblico, al medesimo tempo questa affermazione "non corrisponde al vero", in quanto l'autore coltiva in questo progetto i semi della speranza dell' aprirsi e diffondersi della sua scrittura.
Per Gezim Hajdari, poeta albanese, il sentimento di nostalgia e perdita si fa struggente e nei suoi versi scaturisce l'impossibilità di ricostruirsi una memoria lontano dalla propria terra. Il poeta scrive in due lingue, e questa modalità per lui rappresenta il riproporsi del viaggio simbolico da una lingua ad un'altra. Nelle sue antologie poetiche i suoi versi, scritti in lingua madre si accompagnano a quelli in italiano, forse a testimoniare che il distacco dalla propria lingua e cultura non può e non deve avvenire e che infine la scrittura unisce nonostante tutto.
Alcuni tra i nuovi scrittori italiani sembrano considerare il passaggio da una lingua ad un'altra non come una perdita, al contrario un interscambio tra contenitori comunicanti che si mescolano dando vita ad esempi di ibridismo linguistico e culturale.
Secondo lo scrittore iracheno Younis Tawfik, la lingua italiana è un ponte tra le culture.
"[…] Il mio italiano è una lingua a distanza, che uso come chiave per riappropriarmi della mia cultura, per ritornare con occhi più attenti nella mia terra di origine. Ma è anche l'opportunità di uno sguardo plurimo e ibrido, non locale, non tutto italiano, che può forse meglio illuminare le zone d'ombra che vorremmo rimuovere, ma che non conosciamo bene, e non possiamo capire. E' un aiutare a capire. In più, a livello personale, è lo stimolo ad un continuo confronto interiore: questo bilinguismo con cui convivo è lo spazio della mia crescita, dove reagiscono culture e mondi diversi […]" (4)
Lo spazio linguistico nella citazione di Tawfik, diventa teatro della conciliazione e dell'arricchimento delle culture. L'italiano sembra essere una lingua a "distanza" dunque non propria, questa estraneità è un valore e fonte di arricchimento che ha il potere di conferire una prospettiva distaccata con cui vedere se stessi e gli altri.
Tra coloro che dichiarano di non vivere il rapporto tra "prima lingua" e "lingua di adozione" su piani diversi, vi è lo scrittore brasiliano Julio Monteiro Martinis. Secondo lui esiste solo
"una lingua viva, che ti ferisce e ti guarisce, ti colpisce, ti lenisce e ti fa sognare tutti i giorni. E' quella la tua lingua. La lingua che hai, in cui la tua vita interna ed esterna si svolge. Se si deve proprio numerare gerarchicamente le lingue di un uomo, allora quella sarebbe senz'altro la "prima". […] Io scrivo nella mia lingua, quella che ho." (5)
La lingua italiana o di "adozione" è la sua lingua perché è quella del suo presente, e appartiene alla realtà psicologica del momento in cui vive. In Monteiro sembra prevalere il desiderio di essere considerato uno scrittore che ha già fatto i conti con la propria memoria. La prima lingua non è per lui un concetto astratto ma rappresenta il canale su cui è sintonizzata la sua vita interna ed esterna.
Da questo breve viaggio sui pensieri e le opinioni di una piccola rappresentanza dei nuovi scrittori, mi sembra di poter azzardare l'ipotesi che lo spazio linguistico sia legato al sentimento psicologico che accompagna l'inserimento di uno scrittore straniero all'interno della cultura di adozione. Quanto più il processo di adattamento può dirsi riuscito, tanto più non troveremo scissione tra realtà interna ed esterna e tra lingua "prima" e di adozione.
A conclusione di questi spunti di riflessione si potrebbe dire che la questione linguistica in quanto così legata alla realtà emotiva, esistenziale e psicologica dei nuovi scrittori "stranieri" di letteratura italiana, sia una realtà in divenire aperta al cambiamento E' sul piano della scrittura che avviene a mio parere l'unione linguistica, quando fortificata dalle differenze e arricchita dalle contraddizioni, la lingua diviene semplicemente un codice che traduce l'anima

Note
(1) Clementina Sandra Ammendola, "Per Fare Teoria", Mosaici d'Inchiostro, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 1996. 30-31)
(2) Tahar Lamri dal saggio "E della mia presenza; solo il mio silenzio. Una riflessione lunga cinque antologie." Parole oltre i Confini, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 1999, 22-28.
(3) idem
(4) Da un articolo di Eller Franca "Il debito di Tawfik con Dante, Intervista allo scrittore iracheno che scrive in italiano. Bilinguismo come spazio dove convivono più mondi", L'Adige, http//www.provincia.tn.it/immigrazione/notizie/ladige
(5) Julio Monteiro Martins da un e-mail del 23/05/2002

 

Sonia Cherbino- Trovo questo testo molto veritiero. Vivo anch'io in questi due universi linguistici, l'italiano e il portoghese, che è la mia madrelingua. Sono assolutamente d'accordo sul fatto che una persona più si adatta alla nuova realtà che è anche culturale e fisica, ma è anche una realtà emotiva, psicologica, implica un continuo andare e venire tra due vasi comunicanti, più la madrelingua diventa un universo del passato, della memoria emotiva, tant'è che quando mi metto a parlare con miei connazionali, è come si collegasse un'altra persona, si aprisse un cassetto che di solito rimane chiuso. Non so bene come definirla perché ha molto a che vedere con la mia emotività, ma è come avere dentro di se vari scompartimenti. Per me è un po' conflittuale, una doppia identità, ma chiaramente può essere più attenuato, una volta che vivo molto di più in Italia che in Brasile.

Julio Monteiro Martins- Quando una persona parla poco la sua lingua d'origine, come nel mio caso, ed incontra una persona della madrelingua, un parente, un amico, o un turista, quella prima mezz'ora è molto imbarazzante, è come avere un freno, non sai come giustificare il perché parli così male la tua lingua d'origine. Presumi che l'altro capisca questo imbarazzo, perchè le parole non ti vengono o vengono ancora insistentemente nella lingua nuova. Quando l'altro è anche lui un migrante e vive la tua stessa condizione, l'imbarazzo è ridotto perché si vivono entrambi le stesse difficoltà.
Con mio fratello è successo proprio questo quando sono tornato in Brasile dopo tre anni, mi guardava in modo così strano, e poi non sapeva se dirmelo e poi mi ha detto che non sapevo più parlare il portoghese, con un certo risentimento.

Eugenia Mazza- Può darsi che sia soltanto il fatto che tu passi da un codice ad un altro. Come scrittore senti il bisogno di utilizzare anche la tua linguamadre per esprimere qualcosa che in italiano non riesci ad esprimere?

Julio Monteiro Martins- In realtà non credo ci sia un cambiamento di sostanza, è solo un cambiamento della forma, è una difficoltà neurofisiologica proprio, le parole all'inizio rimangono dentro un ingorgo fino a che il traffico torna a fluire normalmente.

Sonia Cherbino- Certe frasi o parole dette da un madrelingua portoghese, mi vanno a pescare dei ricordi che avevo completamente dimenticato. Ho l'impressione che certi spazi della mia memoria siano legati proprio alla lingua. Certe parole mi evocano odori, paesaggi, momenti, che erano rimasti sospesi da qualche parte. La mia memoria emotiva è nell'universo del portoghese, perché ci ho vissuto per trent'anni, anche se oggi parlo, sogno e scrivo in italiano.

Amor Dekhis- Siamo un po' divisi in due nella mente. Basta poco per riportarci immediatamente nel nostro paese d'origine anche se la lingua italiana rimane costante. A tutt'oggi non riesco a dire perché abbia scelto di scrivere in italiano.
Quando vado in Algeria, dopo qualche minuto mi sembra di non essermi mai spostato, anche se poi in famiglia spesso faccio esclamazioni in italiano, parolacce, ecc.!
Mi è piaciuto molto il testo di Eugenia Mazza, volevo chiederle come vede il fututo di questi scrittori.

Eugenia Mazza- Ho iniziato solo recentemente a occuparmi di questo argomento. Ho letto i testi degli autori e in Internet mi sono cercata alcune notizie, letto interviste, e mi sono fatta una certa opinione, senza grossi studi di base.
La cosa che ho capito è che il discorso sulla lingua è ancora molto difficile, non si può solo dire che perchè si vive in Italia bisogna scrivere in italiano, perché l'aspetto emotivo e psicologico legato alla lingua è forte, per alcuni si tratta semplicemente di passare da un codice all'altro, mentre per altri questo è ancora un problema. Questa contraddizione alla base della questione linguistica, secondo me, rimarrà ancora per diverso tempo tra gli immigrati. Non è neanche giusto dire cosa bisogna o non bisogna fare, ognuno reagisce in modo diverso nei confronti della lingua, dipende da cosa vedono loro nella lingua, la vedono come uno strumento, rivendicazione, un modo di esprimere l'anima, non so ci sono diversi significati che uno attribuisce alla lingua.

Julio Monteiro Martins- Anche tu hai un'esperienza curiosa riguardo alla lingua. In Sicilia, parlando di questo argomento con tuo marito, che è messicano, mi raccontava che parlando tu l'italiano e lui lo spagnolo e vivendo entrambi negli Stati Uniti, il vostro inglese è molto contaminato dalle vostre rispettive lingue, mentre quando siete in Italia parlate un italiano molto contaminato dall'inglese.

Eugenia Mazza- Sì, è proprio così. L'inglese lo utilizzo perchè per me rappresenta la mia libertà, mi piace molto parlarlo, potrei anche non utilizzarlo visto che lavoro e studio in italiano.

Anilda Ibrahimi- Bello! Forse allora alcuni scrittori migranti utilizzano l'italiano perché per loro rappresenta la libertà.

Eugenia Mazza- Sicuramente per alcuni di loro sì, ma è anche tante altre cose.

Julio Monteiro Martins- È bello quello che dici perché significa che ogni lingua rappresenta anche una sorta di simbolo interno affettivo: l'infanzia, l'oppressione, la libertà, o la sensualità. Quando ero bambino, le mie zie quando volevano parlare in casa di cose che non volevano che i bambini capissero, parlavano in francese. Inoltre c'erano a quel tempo le canzoni francesi, con Jane Birkin, "Je t'aime, je t'aime, moi non plus..." , e allora per me il francese é diventato la lingua sensuale per eccellenza.
Ci sono anche degli studi di Jacques Lacan sulla teoria secondo cui l'inconscio si struttura nella forma del linguaggio. Noi non usiamo un linguaggio come strumento, noi siamo fatti di linguaggio, è il mattone della nostra struttura inconscia. Forse è per questo che c'è una forte relazione tra la parola e il mondo simbolico, l'affettività.

Anilda Ibrahimi- Ciascuno nella sua memoria ha dei luoghi del passato che non riesce a raggiungere perchè troppo dolorosi. Anche l'infanzia è una vita precedente, e anche tutti gli scrittori hanno un archivio che non riescono ad aprire e superare lasciandolo chiuso. Per gli scrittori migranti, usare una lingua diversa può essere un aiuto in più per riuscire ad esplorare il dolore, a rimuoverlo.
Io dico che la mia memoria storica è il movimento, perchè è stato un movimento continuo di fatti, luoghi, colori, suoni, lingue e culture, persone e affetti.

Julio Monteiro Martins- Hai citato un aspetto importante che è quello della rimozione affettiva della lingua madre. Ho avuto una domestica brasiliana, che viveva da solo due anni in Italia e non capiva più il portoghese, voleva che le parlassi in italiano: non ho mai visto un blocco psicologico così forte.

Sonia Cherbino- Anche i bambini che subiscono traumi e vengono adottati in Italia, dimenticano rapidamente la lingua madre e non la vogliono più parlare e ricordare.

Julio Monteiro Martins-Forse tanti scrittori migranti che hanno deciso di adottare la lingua d'arrrivo, non avevano mai avuto, in verità, altra scelta, è stata l'unica lingua in cui loro potevano esprimersi anche se non la conoscevano così bene. Ricordo una frase del generale Lafayette che diceva: "In verità non esiste ritorno dai campi di battaglia".
A seconda di come viene vissuta l'emigrazione, non esiste via di ritorno, e forse nemmeno esiste una via di ritorno letteraria. Non è più possibile scrivere nella lingua d'origine e questo in gran parte è il mio caso, perché oggi ho un'immensa difficoltà a scrivere in portoghese.

Sonia Cherbino- Però c'è un gran vantaggio che è quello di poter leggere in portoghese. Magari non riesci a comunicare bene o a scrivere un bel testo o una poesia, ma se vai a rileggere le poesie brasiliane è un bellissimo piacere.

Amor Dekhis- Quando una persona legge nella sua lingua madre, è come dicevo prima, torna immediatamente nel suo paese e pensa di non esseresi mai spostato. Però per la scrittura occorre scrivere con una lingua viva. La lingua viva è quella del bar, della strada, con la gente comune.
Tornando al discorso sui simboli della lingua, volevo parlare del francese, che fa un po' parte della mia identità. Per Julio il francese è una lingua sensuale, mentre per noi algerini ha diversi aspetti culturali, di lavoro, oppure una lingua coloniale ecc., negli ambienti culturali si parla normalmente francese come se ci si trovasse a Parigi. Anche esponenti della cultura si possono dire sia arabofoni che francofoni: in privato prevale spesso il francese, proprio quello con la erre moscia, mentre in manifestazione pubbliche magari un politico comincia a usare la erre all'algerina, e diventa un francese molto duro, quasi da immigrato...Credo che questo venga naturale, non lo facciamo apposta.

Anilda Ibrahimi- Anch'io ho un aneddoto, anche se non ha niente a che vedere con la letteratura. Nella mia lingua le donne non possono dire parolacce, e io infatti non le dico e non le ho mai pronunciate, però in italiano le so e le dico tutte. Con le amiche parliamo sempre in albanese, però quando dobbiamo insultare lo facciamo in italiano!

Amor Dekhis- Penso che in italiano non ci siano diversi modi di esprimesi a seconda se si è in famiglia o per strada, come succede da noi. In Algeria, e forse anche in Albania, ci sono vari linguaggi, quello tra coetanei, in famiglia o con persone che non si conoscono. Certo che un algerino che dice una parolaccia in algerino è terribile, però detta in italiano, niente, è una cosa normale...

Anilda Ibrahimi- Ho un'amica toscana che vive da sempre a Londra. Quando viene a Roma parliamo in italiano, e lei quando mi sente dice che parlo come una camionista!
Ed io glielo dico: "Corinne, non me ne accorgo, non le sento le parolacce!".

Julio Monteiro Martins- Ci sono tanti immigrati clandestini che si rifiutano di imparare la nuova lingua, soprattutto le donne e le nonne che rimangono in famiglia. Quando tu impari una lingua nuova e la fai tua, con il sogno o le parolacce, c'è un senso di appartenenza a quella cultura e a quel paese, ti senti già un cittadino. Il fatto che quel paese non ti adotti, crea una spaccatura interna, perchè la nuova identità creata in quattro o cinque anni non è accettata. E allora chi sei? Non puoi dire che sei quello della lingua precedente perché è sparita tanto tempo fa, e non sei nessuno nella lingua nuova perché non c'è un riconoscimento sociale.

Anilda Ibrahimi- Quando vivevo in Svizzera ho conosciuto un poeta albanese del Kossovo, uno dei poeti viventi più bravi, che vive da trent'anni nella Svizzera francese, ma scrive in albanese. Lì c'è una dispora albanese, hanno persino una loro rivista, e lui non ha nessun bisogno né voglia di comunicare con gli svizzeri, negli uffici manda i figli, che ormai sono ventenni. Un grande intellettuale che rifiuta di comunicare.
In Italia mi sono resa conto che se non parlavo subito in italiano, ero finita, mi schiacciavano, perchè in Italia non funziona niente, mentre in Svizzera gli albanesi non hanno bisogno di fare niente perché è già tutto organizzato.
La stessa cosa l'ho notata nella comunità italiana in Germania. Due anni fa sono andata a trovare un'amica di Bari, che è emigrata a Monaco e fa la cantante, e mi ha presentata ad un gruppo di amici italiani che vivevano lì da vent'anni, nessuno dei quali sapeva il tedesco. Siamo andati tutti insieme in un ristorante italiano, ma con camerieri tedeschi, e nessuno sapeva ordinare in tedesco!
In Italia avviene un inserimento da singoli, perché non c'è nessun appoggio, tu sei da solo e devi per forza imparare l'italiano.

Julio Monteiro Martins- Sulla questione della lingua come fatto emozionale, mi è venuto in mente che un anno fa quando ho cambiato casa, sono andato in un condominio piuttosto borghese, ma nessuno dei condomini ha fatto nessuna osservazione sul fatto che fossi straniero. Dopo circa una settimana, suona il citofono e sento dal ricevitore: "Monteiro?", dico: "Sì?", "Abadabudubudu, abededubu badada". Dopo mezz'ora risuona il campanello e sento "È Monteiro?", "Sì?", "Abudu, abada, bududu", così ho aspettato un momento, poi ho sceso le scale in silenzio ed ho visto alla porta due adolescenti di dodici anni, e ho detto loro: "Volevate Monteiro?", con un bel vocione, e questi che sono scappati gridando dallo spavento.
Questa cosa del "bududu, badada" mi ha fatto venire in mente che non era una lingua era una balbuzie, che è esattamente l'etimologia della parola "barbaro", che in greco vuol dire balbuziente. In fondo in quella sana cattiveria da adolescenti, il messaggio era: "Tu non sei un essere umano, sei un incivile, un barbaro".

Amor Dekhis- Ragionare sulla lingua parlata e scritta per me è un modo anche di femminilizzare un po' gli uomini. Per femminilizzare intendo dire, ragionare, avvicinarsi comprendersi l'un l'altro. La cultura e soprattutto la lettura sono una maniera di sensibilizzare la persona.
Mi sembra che i miei compaesani che leggono di più, sono più comprensivi, sensibili.

Cristiana Sassetti- Vivendo tutti in Italia da anni, come vi sentite in rapporto al vostro paese, ne accompagnate le vicissitudini anche politiche, economiche? Credete di poter ancora attuare nel vostro paese d'origine?

Amor Dekhis- A volte mi interessano solo i fatti italiani, mi appassiono per qualche causa dipende dal momento. Poi, in certi periodi, seguo anche le vicende politiche del mio paese, attraverso Internet. Il mio paese è presente tanto quanto l'Italia.

Cristiana Sassetti- Vi sembra di partecipare, dall'Italia, al futuro del vostro paese?

Julio Monteiro Martins- Io credo che ci sia un momento critico che è quello delle elezioni nel paese d'origine, soprattutto in Brasile, dove le elezioni del Presidente della Repubblica definiscono tutto. Vedo che si avvicina un'altra volta la campagna presidenziale di Lula, candidato per la terza volta dal Partito dei Lavoratori, che equivale a Rifondazione Comunista, e sembra che questa volta abbia più possibilità di essere eletto, anche se sto già aspettando che la Rede Globo, la nostra Mediaset, gli prepari qualche trappola, come ha già fatto, per cambiare il pronostico.
Comunque, il fatto di non poter votare, è una frustrazione grande, e razionalmente non dovrebbe più essere perché uno dovrebbe fregarsene, almento nel mio animo. Credo di essere uno dei pochissimi brasiliani convinti di non tornare più nel suo paese, quasi tutti i brasiliani alimentano sempre questa illusione di ritornare, magari risparmiando un po' di soldi, ma in realtà pochissimi ritornano.
Io sono consapevole che non torno più, magari emigro in un altro paese, ma non certo in Brasile.
Quando arrivano le elezioni, questo problema, che in fondo è sempre presente in noi, si acutizza un po' di più. Anche per la Coppa del Mondo, si provano grandi emozioni.
Ricordo tutti i mondiali vinti dal Brasile, e quest'anno era la prima volta che non ero lì, che non ho visto le celebrazioni popolari della vittoria della Coppa del Mondo, nemmeno il Carnevale è tanto Carnevale quanto un mondiale di calcio.
Sulla prospettiva di intervenire sul presente e futuro della patria d'origine, volevo dire che insieme a questa frustrazione c'è la convinzione, non so se sia una illusione o realtà, che noi stiamo intervenendo nella storia del paese d'origine anche dall'estero. L'ultimo numero della rivista Sagarana è dedicato a Clarice Lispector, una grandissima scrittice brasiliana poco conosciuta al pubblico italiano. Questo è un modo di intervenire nella realtà brasiliana, proponendo all'estero alcuni dei suoi migliori valori e protagonisti. Magari è un intervento solo nella realtà italiana, e non in quella brasiliana, può darsi che sia un'illusione mia.

Sonia Cherbino- Non credo che sia un'illusione, stai diffondendo la tua cultura.

Cristiana Sassetti- Queste giornate insieme mi hanno suscitato certe impressioni sugli scrittori migranti. Vi vedo una sorta di figli ribelli, che la madre patria ha rifiutato, e così a volte ho avvertito un senso di amore e odio per il vostro paese. Vedevo ognuno di voi seduto su una gigantesca altalena che oscillava tra l'Oceano e il Mediterraneo, tra l'amore della madre e il desiderio di compiere un percorso personale.

Sonia Cherbino- Bisogna ricordare che nostra madre è una madre povera. Gran parte delle persone che vengono in Europa, vengono a cercare qualcosa di meglio, sia a livello economico che cultrurale.

Julio Monteiro Martins- E' vero, vorrei solo ricordare che oggi c'è un numero grandissimo di italiani che sono andati a fare le vancanze in Brasile e poi sono rimasti lì, non per ragioni economiche, ma forse perché gli è piaciuto quello stile di vita.
Quando hai detto che il Brasile è una madre povera, ho pensato che è anche stupida, perché ha mandato fuori casa le persone migliori, tanti sono andati all'estero perché scavalcati da altri che avevano protezioni politiche o amicizie molto forti. Giovani medici, o avvocati o ricercatori che non trovano posto, come acccade anche qui in Italia e se ne vadano. È vero che il Brasile è povero, ma poi si scopre un giro di tangenti come è successo per il caso di Paulo Cesar Farias, braccio destro del presidente Collor, sul cui conto estero sono stati trovati venti miliardi di dollari! Questo vuol dire che se uno riesce a rubare miliardi di dollari è perché ci sono miliardi di dollari da qualche parte da rubare. Un paese così, che ha speso tanto nell'educazione, perché le università migliori sono pubbliche, pagate dai contributi dei brasiliani, quando i suoi laureati vanno a lavorare all'estero, perde tutti i soldi che aveva investito nella formazione.
Rispondendo a Cristiana, per quanto mi riguarda, non ho mai considerato il Brasile una madre, al contrario, l'ho visto come un figlio adolescente e drogato. Lo amo perché è mio figlio, e non riesco a non amarlo, ma mi ha dato tante delusioni, tanti mal di testa e guai, che quasi preferisco non sapere che cosa faccia. Personalmente mi sento molto più maturo io del paese che mi ha dato le origini. Che futuro ha mio figlio, che lascia milioni di bambini per le strade?

Amor Dekhis- Penso che il nostro paese sia presente in noi e anche noi siamo presenti nel nostro paese. Per me il mio paese forse è una fase, gli anni settanta. Negli anni settanta c'erano molti progetti, c'era molta speranza e c'era una grande aspettativa verso il futuro, eravamo tutti inseriti in questi fermenti. Continuo a conservare queste immagini dell'Algeria, quella fase, conservando anche la speranza che prima o poi arriverà più democrazia. Anch'io critico molto il mio paese, perché dico sempre che dopo gli anni settanta ha prevalso la mediocrità. Noi siamo molto bravi ad essere mediocri, a prendere certe decisioni, e i mediocri, poi, occupano sempre i primi posti.

Julio Monteiro Martins- Capisco bene come la patria di una persona possa essere un periodo storico. In Brasile succede lo stesso, tanti brasiliani si riconoscono nel Brasile dei cosiddetti "anos dourados", gli anni d'oro dal '55 al '62, l'epoca di Jucelino Kubichek, un paese vincente e creativo, quando è nata la Bossa Nova, il Cinema Novo, la nazionale brasiliana vinceva tutti i mondiali, avevamo costruito Brasilia. Tutto il resto, pensano loro, è stato un'usurpazione.

Sonia Cherbino- Anche il miracolo economico brasiliano degli anni settanta non si è più ripetuto.

Anilda Ibrahimi- Anch'io, rispondendo a Cristiana, volevo dire che anche l'Italia non offre lavoro, specialmente agli intellettuali. Conosco tante persone che sono emigrate in Messico, Africa, Inghilterra perché qui non trovavano posto, tutti laureati.

Eugenia Mazza- Arrivano i cervelli da fuori e se ne vanno via quelli che vivevano qui, è un ricambio e una ricchezza.

Cristiana Sassetti- Ho letto gli atti di un convegno organizzato a Firenze il maggio scorso da varie associazioni non governative, e dall'Arci, proprio sull'alta qualifica degli immigrati in Italia, dove si diceva che il quaranta per cento degli immigrati, in special modo africani e sudamericani, sono tutti laureati e in Italia fanno gli operai. Quindi esiste in questo paese anche un impoverimento intellettuale oltre che economico, perché ingegneri, medici, ricercatori, tecnici, se ne vanno tutti, specialmente dall'Africa.
Questo scarto tra la preparazione, l'esperianza acquisita nei propri paesi d'origine e il lavoro che svolgono nel paese d'accoglienza, non giova a nessuno dei due, perché anche l'Italia perde dei potenziali bravi professionisti.

Amor Dekhis- Io so che negli ultimi anni, tanti cervelli se ne sono andati, circa quarantacinquemila nel Canada francese e in Francia. Non dico che stiano bene, ma sono sicuramente ben inseriti. Penso che l'Italia non investa nei suoi cervelli, a me dispiace che accada anche in Italia.

Julio Monteiro Martins- Gli spostamenti avvengono anche perché ognuno ha il diritto alla speranza, cioè di utilizzare la fantasia per progettare un ipotetico futuro, più interessante e positivo del presente, che potrà avverarsi oppure no. Questa è una tendenza fortissima negli esseri umani, e se non si riesce a realizzarla nel paese dove si vive, subentra una tendenza naturale a progettarla nell'altrove, in un paese distante. Si emigra per trovare il vero se stesso, che crediamo di trovare altrove.
Tra gli scrittori questa sensazione mi sembra particolarmente intensa, perché già di natura hanno una fantasia e una creatività forte ed hanno scelto un mestiere che difficilmente trova riconoscimento pubblico. Gli scrittori, gli artisti in generale più di qualsiasi altra categoria, sentono un varco tra quello che credono di se stessi e quello che la realtà offre loro. Il grado di speranza e la spinta a migrare è molto forte, per questo penso che la tendenza sarà a spostarsi in tutto il mondo, non solo dal Terzo Mondo, perché un artista annoiato e frustrato lo può essere benissimo in Belgio, in Svezia o in Danimarca e andare a vivere nella Repubblica Domenicana o nello Zimbawe per sviluppare una vita o una pittura diversa. La strada non è unilaterale, e questo aiuterà la formazione di una prima letteratura o arte mondiale, i cui primi vagiti si vedono già.

Eugenia Mazza- Quando poi le aspettative vengono deluse, come gestiscono gli scrittori questa frustrazione di vivere altrove, e come si riversa nella letteratura? Forse è anche un caso abbastanza frequente. Riuscite ad avere lo stesso senso critico che avete nei riguardi dei vostri paesi, per l'Italia?

Julio Monteiro Martins- Parlo per me stesso, ma credo di rappresentare anche gli altri. Il nostro rapporto con il paese d'arrivo è meno critico di una persona nativa, questo perché noi veniamo alimentati da questa speranza che, almeno all'inizio, ci fa costruire una bella cornice intorno a tutte le cose.
Ma ancora più importante è il fatto che certe cose positive vostre, che voi date per scontato, per noi sono un gran lusso e un gran valore.
Quando è nato mio figlio, ha avuto un'ottima assistenza pediatrica, il parto è stato fatto in un bell'ospedale, dopo cinque giorni erano tutti a casa e il conto che mi è stato presentato era esattamente di zero lire! Per me è stata una cosa straordinaria. Ho vissuto negli Stati Uniti, ma non esisteva nemmeno questo!
Capisco che siamo a Lucca, in Toscana, e forse non è così nel resto d'Italia, e magari è un privilegio che presto perderemo, ma nonostante tutto per gli italiani lo stato non fa altro che il suo dovere, mentre per me è una cosa che mi ha lasciato a bocca aperta, veramente impensabile.

Anilda Ibrahimi- Ciascuno di noi ha aspettative diverse riguardo al paese d'accoglienza. Io, per esempio, ho molte aspettative legate a mia figlia, e non alla mia carriera di scrittrice.

Eugenia Mazza- Sicuramente il processo di integrazione deriva anche dalla vita affettiva. Ho fatto una ricerca legata alla malattia e alla migrazione. Questo malessere è presente anche nella loro letteratura. Ho notato, comunque, che quelli che stanno bene sono riusciti a crearsi un loro equilibrio dal punto di vista psicologico e affettivo.

Julio Monteiro Martins- Direi che tutto è proporzionale al "tipo di inferno" che si viveva nel proprio paese d'origine, secondo che cosa vivi è difficile rimanere delusi in Italia.

Amor Dekhis- Vivo in Italia da circa vent'anni ed ho osservato una crescita della ricchezza. Mi dispiace solo che siano gli immigrati a definire la politica italiana, perché non è il vero problema, tutto questo è fomentato molto dai giornali e dalla televisione.

Julio Monteiro Martins- Anch'io provo una certa amarezza nel vedere certi valori e sicurezze sociali sparire, frutto di conquiste secolari, a favore di un modello, quello americano, molto più arretrato.

Sonia Cherbino- Da quale momento, secondo voi, un immigrato da semplice spettatore passa ad interessarsi a quello che accade in Italia, a commentarne gli eventi principali.

Julio Monteiro Martins- Certi eventi della vita italiana ci convocano tutti, come per esempio i fatti del G8 a Genova, che ha provocato una spaccatura civile nell'Italia. Nel mio caso, essendo uno scrittore, ho scritto un racconto, L'irruzione, pubblicato nel libro Non siamo in vendita, uscito con L'Unità, dove si parla di un uomo che ha avuto un figlio violentato e torturato, e uno zio che poteva aiutarlo, e non l'ha fatto. Quindi ho parlato di una spaccatura all'interno di una famiglia, perchè era un'allegoria della spaccatura che vedevo nascere in quel momento nella realtà italiana.
Nei momenti di convocazione di una posizione ferma sul futuro di un paese, non c'è distinzione tra stranieri e italiani.