Mercoledì 2 Luglio – mattina

Incontro con la poetessa Brenda Porster e Andrea Sirotti

Julio Monteiro Martins: Andrea Sirotti è un grande amico, una figura umana unanimamente apprezzata, esperto di letterature post-coloniali di lingua inglese, soprattutto di poetesse, scrittrici pakistane, indiane, dello Sri Lanka, del mondo caraibico. In vista di allargare questo seminario anche ad argomenti paralleli legati alla letteratura e alla migrazione, gli ho chiesto di parlarci della produzione attuale e leggerci alcune poesie da lui selezionate.

In seguito interverrrà la poetessa americana Brenda Porster, la quale ci illuminerà sulla poesia americana cosiddetta "anti-Bush", ossia un tipo di poesia nata in questi ultimi due anni e che critica ferocemente questo nuovo imperialismo militare statunitense.

Recentemente un poeta americano della Beat Generation, Jack Hirschman, contemporaneo e amico di Ferlinghetti e Ginsberg,  ha letto le sue poesie in un incontro tenutosi a Pistoia, e in questa occasione gli ho chiesto il permesso di poter leggere qui queste bellissime poesie con la traduzione italiana.

Andrea Sirotti: Ringrazio Julio per la lusinghiera presentazione che non credo di meritare, soprattutto il titolo di esperto di letteratura postcoloniale, in quanto non essendo un accademico, non ho studiato per lunghi anni questi problemi, ma, semplicemente da traduttore militante, li ho un pochino affrontati traducendo soprattutto testi poetici in lingua inglese. Comunque, nella prima parte del mio intervento non mi sottrarrò certo ad un piccolo inquadramento di quelle che sono le problematiche legate a questa letteratura. La letteratura postcoloniale è anche, in senso stretto, quella in altre lingue europee, ovviamente, però per semplicità, d'ora in avanti userò questo riferimento per parlare delle letterature di espressione inglese. Diciamo che Post Colonial Literatures è già un termine molto criticato e un po' in disuso. E' stata un'etichetta messa per convenienza negli anni Settanta, a definire in realtà un mondo letterario molto vario e complesso, con delle differenze interne radicali fortissime, però è anche un'etichetta di comodo, che funziona come tutte le etichette con il "Post" davanti, pensate alla parola postmoderno! Questo funziona perché questo “post” è allo stesso tempo un termine di tipo temporale - dopo il colonialismo - anche se le date ovviamente variano a seconda dei paesi, però è anche un “post” di superamento, un andare oltre e superare una certa visione imperialista e colonialista. Quindi è un termine utile, che serve, nonostante adesso sia un po' in disuso e si parli per l'aspetto linguistico delle lingue di “espressione inglese", che può essere l'inglese africano, quello pakistano o indiano ecc.

In tutte queste letterature sono riconoscibili dei punti in comune che cercherò di sviluppare nel mio intervento, letterature dell'ex Commonwealth - altro termine che veniva utilizzato negli anni Sessanta - si chiamavano proprio Commonwealth Literatures, e questo andava ancora meno bene di letterature postcoloniali, perchè aveva implicita l'idea di una ricchezza comune, di comuni interessi economici e culturale che, in realtà, non c'erano. Gli inglesi sono ancora oggi legati a questi termini, tanto è vero che esite ancora oggi un prestigioso premio letterario il Commonwealth Prize, assegnato nel 2001 ad Amitav Ghosh e da quest'ultimo rifiutato adducendo che questo termine era patronizing, paternalistico e un po' ipocrita, non lo accettava, per cui aveva anche rifiutato la borsa in denaro ed è stata una notizia riportata su tutti i giornali. Anche molto prima, Salman Rushdie in un famoso saggio che si intitolava "Commonwealth Literature does not exist", criticava questo punto di vista e questa definizione, partendo da una esperienza diretta di una conferenza in Svezia tra cui partecipavano eminenti scrittori delle ex colonie, notando proprio l'approccio diverso di ognuno di loro, sia come poetica che come rapporto con la lingua inglese letteraria. Rimane il titolo di una bellissima antologia uscita nel 1998, pubblicata dalla Oxford University Press, dal titolo molto bello An Uncommon Wealth, giocondo sul doppio significato di common e wealth, e nella quale figuravano nomi come Walcott, Sujata Bhatt, Kamala Das, ecc., poeti di grandissimo spessore, ed era proprio l'idea di una ricchezza non comune, straordinaria.

Le caratteristiche comuni a queste letterature postcoloniali sono il rapporto con la lingua inglese in primo luogo, vengono escluse tutta una serie di posizioni estreme di rifiuto della lingua dei colonizzatori come, per citare solo un esempio, Ngugi wa Thiong’o,  grande scritttore keniota che aveva iniziato a scrivere in inglese e poi sceglie di abbandonarlo a vantaggio della propria lingua madre il kikuiu . Negli altri casi invece l'inglese viene adottato in misura più o meno stravolta, un inglese ricolonizzato, espressione usata sempre da Rushdie che mutuando il titolo della serie di Star Wars, scrive The Empire Writes Back, ovvero l'impero reagisce scrivendo. Rushdie, quindi difendendo la propria scelta della lingua inglese, soprattutto nei confronti dei detrattori interni, ovvero i suoi connazionali, diceva che era un attto politico, di forte carica eversiva, prendere l'inglese e ricolonizzarlo, crearne qualcosa di diverso, di nuovo e assimilarlo come la diciassettesima lingua dell'India, come lui diceva, e non renderlo semplicemente una lingua comunicativa per eccellenza, semplificata e arida, ma arricchirla e fare un passo avanti, apportando contributi nel lessico, anche perchè la lingua inglese è più portata di altre lingue a questa commistione di nuove parole ed espressioni.

Oltre al discorso sulla lingua ci sono altre caratteristiche comuni alla letteratura postcoloniale. Esse figurano sempre di più nelle antologie per le scuole superiori, antologie di lingua e letteratura inglese. Chi insegna lo sa, fino a pochi anni fa si arrivava al quinto anno facendo al massimo T.S.Eliot e Joyce. Oggi invece queste nuove antologie contengono un abbondante capitolo di letterature postcoloniali in cui compaiono Naipul, Soyinka, Margaret Atwood, Coetzee, Walcott ecc.

In una nuova antologia di storia letteraria pubblicata l'anno scorso per la Nuova Italia The World Wide Reader, allo studioso di letterature postcoloniali Shaul Bassi, dell'Università di Venezia viene dato l'incarico di stilare l'introduzione per gli studenti, ed egli proprio in questa introduzione focalizza quali sono i punti centrali della discussione sulle letterature in lingua inglese. Mette come primo punto il fatto che questa letteratura si occupa della condizione dell'uomo nella società decolonizzata in termini di critica anche accesa nei confronti dell'ideologia colonialista, imperialista e dei valori ad essa connessi. Quindi una carica fortemente politica.

Il secondo punto è che la letteratura postcoloniale è in rapporto dialettico con la tradizione inglese e con la storia della sua letteratura. Questo rapporto dialettico si imposta allo scopo di ritagliare una rilettura positiva, che sia completamente scevra da pregiudizi, da elementi razzisti, da elementi colonialisti. Lo scrittore postcoloniale non può fare a meno di considerare in un modo o nell'altro la letteratura tradizionale britannica o statunitense, lo può fare per contrapporsi ad essa, però lo fa generalmente conoscendola profondamente e in alcuni casi amandola anche profondamente. Direi che straordinario è il caso di Derek Walcott, il quale nelle sue poesie parla sempre del 'suo' John Donne, del 'suo' Shakespeare, e anche della sua tradizione Greco-latina, nel suo essere un sangue misto rielabora certe tradizioni trovandone le cariche positive forti, mi vengono in menti i versi della sua poesia A Far Cry from Africa dove conclude come posso decidere tra l'Africa così ferita ed ingiuriata dai colonizzatori e dalla quale proviene e la lingua inglese che ama così tanto. Quindi c'è un rapporto forte, ambiguo e ambivalente tra la realtà di questi autori, la loro condizione, la storia più recente e una tradizione più antica e letteraria.

Terzo punto in comune è la lotta contro gli stereotipi, poichè la letteratura coloniale ha portato avanti tanti stereotipi, ed anche la tradizione letteraria, vi è quindi il tentativo di ridefinire un'identità al di là dello stereotipo, quindi una soggettività dell'individuo postcoloniale.

L'ultimo punto che cito è quello che a me è più caro, quello della migranza, della diaspora. La letteratura postcoloniale è quella che si scrive nei paesi decolonizzati, ma è anche quella che si fa nei paesi dovi questi scrittori, invece, sono emigrati. Scrittori quindi caraibici o indiani e africani che scrivono in Europa o negli Stati Uniti, portando avanti la voce di gruppi etnici minoritari o come si dice displaced, sradicati, quindi scrittori migranti, i quali devono ricreare una propria identità culturale in un contesto diverso esattamente come quelli di cui si occupano i seminari organizzati da Julio Monteiro Martins.

In questo quadro gli scrittori della seconda generazione stannno dando in Gran Bretagna dei frutti straordinari, farei solo due nomi Hanif Kureishi e Zadie Smith con romanzi di grande successo e qualità soprattutto.

Volevo concludere con una riflessione sulla lingua inglese. Molto spesso, salvo gli scrittori della diaspora per cui l'accettazione della lingua del paese di arrivo ha altre problematiche, l'adottare la lingua inglese nel subcontinente indiano o africano non è certo esente da critiche e contrasti. In genere l'accusa che si muove nei confronti dei romanzieri è quella di cercare di vendere ed accattivarsi il pubblico occidentale, di non essere solo anglofoni ma anche anglofili, in un certo senso tradendo la propria comunità di origine e la tradizione letteraria autoctona. Ora, però, questa posizione di critica estrema piano piano viene abbandonata, in special modo in India, e questo l'ho osservato parlando con le poetesse indiane che ho tradotto quando due anni fa sono venute in Italia. Adesso la possibilità di poter scrivere in inglese o in un'altra lingua, oppure come nel caso di Sujata Bhatt essere bilingue negli stessi componimenti poetici, non è visto più come un limite, ma come una ricchezza per l'autore, sempre più ci si sofferma sul valore letterario delle opere.

C'è un'osservazione molto bella che faceva Sujata Bhatt, poetessa nata in India nel Gujarat, ma che adesso vive a Brema, in Germania. Parlando insieme mi faceva osservare che lei non avrebbe mai potuto usare una parola gujarati per definire il cielo di Brema, in quanto se chiama il cielo akash, parola gujarati, pensa a cieli azzurri senza nuvole percorsi da voli di corvi, mentre se usa l'equivalente inglese sky, immagina cieli grevi di nuvole e magari cieli anche invernali carichi di neve (lei anche se vive ain Germania scrive in inglese).

Volevo citare due autori indiani sempre sulla possibilità di piegare al proprio servizio la lingua inglese, strumento assai duttile.

Un poeta indiano che scrive in inglese Jayanta Mahapatra usa termini di confronto tipicamente indiani per descrivere la flessibilità e la ricchezza della lingua inglese. Questa citazione l'ho tratta da un articolo di Shaul Bassi che si intitola Postcolonial poetry in India: Weather Reports, che si trova nel volume Roots of the Roots: Geography and Literature in the English Speaking Countries a cura di Isabella Maria Zoppi, edito da Bulzoni nel 1998. Mahapatra scrive: 'amavo le parole che usavo così come amo la lingua inglese, perchè le parole acquistano il suono a volte dei richiami del rigogolo, a volte del cupo rombo del primo vento monsonico, a volte ricordano il lamento di un bimbo affamato che cerca nei canali di scarico vicini alle mense della mia città, per trovare dei grani di riso. Insomma ho usato quella lingua perchè la amo.'

Viceversa, un'altra citazione sicuramente meno idilliaca e poetica è quella di Arundhati Roy, la quale paragona l'India anglofona ad 'una donna che è stata stuprata e i cui figli nati dalla violenza portano con sè sangue alieno però sangue ineludibile.'

Secondo me queste due citazioni estreme meglio di qualsiasi parola esplicativa mostrano il forte contrasto e la problematica della scelta linguistica.

La seconda parte della mia introduzione è una riflessione in progress, in divenire, sulla necessità di avere una lettura cross-culturale dei testi letterari in genere e poetici in particolare. La lettura cross- culturale la fa sicuramente un lettore standard, la fa un insegnante, un traduttore e anche un critico. Il lettore cross-culturale per avvicinarsi ad un testo di uno scrittore migrante o di uno postcoloniale tradotto deve fare tutta una serie di operazioni, anche pratiche che il lettore standard o il traduttore standard non fa.

E' importante superare quelle che sono delle barriere culturali proprie e partire dal punto di vista che l'occhio di uno scrittore migrante, della diaspora è sempre un'ottica molto particolare, che ti può aiutare anche a capire il suo punto di vista, ma ti può anche aiutare tantissimo a capire noi stessi. Molto spesso da un'analisi cross-culturale di un testo letterario, di una poesia, costruiamo un terzo luogo, che è il luogo dei nostri significati, e delle nostre risposte, un luogo che emerge dalla dialettica tra la C1 e C2 (la cultura uno e la cultura due), ma anche nel caso degli scrittori migranti, una dialettica tripartita, una dialettica già presente nel testo, più la tua, come italiano che leggi, traduci o spieghi ai ragazzi.

Per leggere questi testi bisogna partire da quello che ti colpisce di più, che normalmente è un "culturema", ovvero un'unità minima di significato culturale. Per uscire dalla astrattezza che potrebbero suscitare le mie parole, volevo proporre la lettura di una brevissima poesia di un autore sicuramente non migrante, si tratta di Roger McGough, è un poeta inglese della Liverpool School of Poetry, che una volta scrisse una bellissima poesia intitolata 'Aceto', volendo definire cos'è secondo lui la solitudine:

VINEGAR

Sometimes

I feel like a priest

in a fish and chip queue

quietly thinking

as the vinegar runs through

how nice it would be

to buy supper for two

ACETO

A volte mi sento

come un prete che fa la fila

per il "Fish and Chips"

e pensa quieto

mentre scorre l'aceto

come sarebbe bello

comprare una cena per due

Andrea Sirotti: Questa semplicissima poesia contiene diversi culturemi. Intanto in Italia non abbiamo i negozi di fish and chips, poi essere un prete cattolico in Gran Bretagna è molto diverso da esserlo in Italia, terzo fatto, apparentemente meno significativo, ma in realtà lo diventa dal momento che la poesia si intitola Aceto, capire che l'aceto in Gran Bretagna è un aceto diverso, tratto dal malto e non dall'uva. 

Comunicate queste tre cose, un esercizio interessante potrebbe essere capire quale immagine potrebbe dare l'idea di solitudine in un contesto italiano. Non so, magari un Iman in una pizzeria o qualcosa del genere.

L'immagine di un prete cattolico solo, in una fila di un fish and chips, è un'immagine bellissima ed efficacissima. La poesia è molto semplice, ma certamente dà molti spunti di riflessione cross-culturale, in questo caso della connotazione della solitudine.

Arrivando per gradi, volevo leggervi in traduzione una poesia di un poeta irlandese dell'Ovest, del Donegal, un'area molto brulla e desolata ma tipicamente irlandese, molto rurale. Il poeta è Francis Harvey, poeta molto interessante, che ha superato la settantina.

La poesia si intitola "A little thing", Una piccola cosa.

A LITTLE THING

She married late: an islandman who reeked

of fish and turf smoke; the sea was on his

lips and in his kisses. She liked that and

in bed at night she liked listening to the way

the Gaelic suddenly came spurting out of

him the same time as his seed. A little

thing she missed: the trees of home, evenings of

splintered light, a net of shadows tangling

and untangling on the grass. He said that

she was mad, that others had tried and failed,

but she went on and now she has this stump

of hawthorn and a stunted sycamore

too low to ever tangle with the light.

Nothing will coax an inch more out of them.

She hates her sickly look. He laughs.

I told you so. A tree will never grow out here.

And kisses her to sweeten what he says.

She tastes the bitterness of salt.

UNA PICCOLA COSA.

Si sposò tardi: un isolano che odorava

di pesce e fumo di torba; il mare era

sulle sue labbra e nei suoi baci. Le piaceva

e la notte nel letto amava ascoltare

come il Gaelico gli usciva a strattoni

col seme. C’era una piccola cosa

che rimpiangeva: gli alberi di casa,

le sere di luce rifratta, rete di ombre che si impigliano

e si districano nell’erba. Lui diceva

che era matta, che altri avevano provato e fallito,

ma lei continuò ed ora possiede questo ceppo di

biancospino e un sicamoro rachitico,

troppo modesto per arrivare ad intrecciarsi alla luce.

Non se ne caverà un centimetro di più.

Lei odia quel loro aspetto malato. Lui ride.

Te lo dicevo, non crescono alberi qui.

E la bacia per addolcire le parole.

Lei assapora l’amaro del sale.

Andrea Sirotti: Anche qui credo ci troviamo di fronte ad un testo straordinario dal punto di vista dell'oggettivizzazione dell'elemento culturale, in questo caso l'albero, non si sa da dove viene ma sicuramente lei è legata al concetto dell'albero. Malgrado fosse attratta da questo esotismo occidentale, i baci alla fine le lasciano un gusto amaro di sale. Si trova uno straordinario senso di nostalgia e struggimento per qualcosa che si è lasciato e non si può recuperare se non in una forma quasi di simulacro, con quell'alberello rachitico.

Julio Monteiro Martins: Questa poesia mi ha fatto venire in mente Primo Levi, quando voleva descrivere il bambino protagonista del libro La tregua, nato e morto in un lager, ha scritto semplicemente "Hurbinek,che non ha mai visto un albero".

Brenda Porster: C’è un altro bellissimo romanzo che si intitola “Trigles in bookland”, romanzo che parla dell’emigrazione italiana degli anni ’20 negli Stati Uniti d’America, l’ho letto da ragazza, ma ricordo che una donna reclamava il fatto che non c’era vegetazione nei bassifondi, dove era andata a vivere.

Andrea Sirotti: Mi piace molto presentare questi testi e vedere le reazioni sempre interessanti che suscitano nel pubblico e nella classe del liceo dove insegno.

La terza poesia di Sujata Bhatt di cui vi ho parlato …

JUST WHITE CHIPS

These seashells aren’t even beautiful.

Just white chips

the colour of angry work day breakfasts

full of the news and no one to talk to.

Just sharp pieces

with the sound of exasperated eggshells

from bored hens.

These seashells aren’t even beautiful.

And yet I hold them

as if to comfort them,

loving them only because

I found them between spinach gumboed seaweed

and giant lychee jellyfish

while I ran between thunderstorms

along the Baltic Sea, wanting them only

because of a certain day at a certain place.

SOLO FRAMMENTI BIANCHI

Queste conchiglie non sono neppure belle.

Solo frammenti bianchi

del colore delle colazioni nei giorni di lavoro

piene di notizie e nessuno con cui parlare.

Solo pezzetti aguzzi

col rumore di gusci d’uovo esasperati

di galline annoiate.

Queste conchiglie non sono neppure belle.

Tuttavia le prendo in mano

come per confortarle,

amandole solo perché

le ho trovate fra alghe-spinaci come gombi

e meduse giganti come litchi

mentre correvo tra i temporali

lungo il mar baltico, desiderandole solo

a causa di un certo giorno in un certo luogo.

Andrea Sirotti: Anche qui ricorre l’oggettivazione del frammento.

Davide Bregola: Metricamente sono in versi liberi o seguono uno schema particolare?

Andrea Sirotti: Questa in particolare ha un verso libero, però ha un ritmo interno molto forte, che asseconda l’immagine della risacca e delle onde, in questa memoria di altri luoghi e altri tempi, in cui le conchiglie erano le stesse, ma le alghe e le meduse evocano qualcosa di lontano, altri luoghi. La prima parte del valore evocativo della conchiglia, secondo me, è straordinaria.

Vi leggo un estratto di un’altra poesia di Sujata Bhatt, in italiano, traduzione che mi hanno accettato come epigrafe all’editoriale di una nuova rivista on-line di letteratura migrante che si chiama El Ghibli, appena uscita a Bologna.

Go to Ahmedabad

Go walk the streets of Baroda,

go to Ahmedabad,

go breathe the dust

until you choke and get sick

with a fever no doctor’s heard of.

Don’t ask me

for I will tell you nothing

about hunger and suffering.

(...)

And suffering is

When I walk around Ahmedabad

for this is the place

I always loved

this is the place

I always hated

for this is the place

I can never be at home in

this is the place

I will always be at home in.

Suffering is

When I’m in Ahmedabad

after ten years

and I learn for the first time

I will never choose

to live here. Suffering is

living in America

and not being able

to write a damn thing

about it. (...)

Va’ ad Ahmedabad

Va’ lungo le strade di Baroda,

va’ ad Ahmedabad,

va’ a respirare la polvere

finché non soffochi e stai male

di una febbre che nessun dottore ha mai sentito.

Non me lo chiedere

perché non ti dirò niente

sulla fame e sul dolore.

(...)

E il dolore è

quando cammino per Ahmedabad

perché questo è il luogo

che ho sempre amato

questo è il luogo

che ho sempre odiato

perché questo è il luogo

dove non mi sento mai a casa

questo è il luogo

dove mi sento sempre a casa.

Il dolore è

quando torno ad Ahmedabad

dopo dieci anni

e capisco per la prima volta

che non sceglierei mai

di viverci. Il dolore è

vivere in America

e non essere capaci

di scrivere neanche una cosa

sull’America. (...)

Andrea Sirotti: Mi sembra un messaggio estremamente efficace. Il ritornare nel luogo delle proprie origini, capire che non è il posto dove si vivrebbe, soffrire di questa consapevolezza, ma anche capire che è la molla che scatena la propria scrittura. Questa poesia è tratta dalla prima raccolta Brunizem del 1988 e la poetessa viveva negli Stati Uniti.

Julio Monteiro Martins: Quello che hai letto potrebbe essere il motto di ciascun scrittore migrante. Ricordo ancora un commento della Kristeva sul fatto di scrivere nella lingua madre o in quella di adozione. Lei dice: alla fine la lingua dello scrittore migrante non è né la lingua madre, né la lingua di adozione, c’è solo una lingua possibile. È il silenzio assoluto.

Andrea Sirotti: Sì, le poesie di Sujata Bhatt sono spesso scavate nel silenzio. È uno dei tanti modi di utilizzare l’inglese: un modo scarno, prosciugato, quasi come se lo reimparasse da adulta e capisse bene la pregnanza e l’importanza di ogni singola parola. Una scelta sicuramente alle antipodi rispetto a scelte più rutilanti e inventive di molto inglese post-coloniale.

Cambiando continente, volevo proporre questa poesia di Grace Nichols, poetessa della Guyana, vive da molti anni in Gran Bretagna dove tiene corsi di scrittura poetica. In una sua bellissima raccolta uscita nei primi anni Novanta, il cui titolo se non sbaglio è qualcosa come Happiness is a fat black woman (La felicità è una grassa donna negra), la protagonista centrale è appunto una donna di colore, orgogliosa di esserlo in un ambiente tuttavia ostile. Una poesia che mi ha impressionato molto, malgrado certe difficoltà di traduzione, ho provato a renderla al meglio, tra l’altro una scelta delle poesie di Grace Nichols sono appena uscite sull’ultimo numero della rivista “Pagine”.

Because she Has Come

Because she has come

with geometrical designs

upon her breasts.

Because she has borne five children

and her belly is criss-crossed

with little tongues of fire.

Because she has braided her hair

in the cornrow, twisting it upwards

to show her high inner status.

Because she has tucked

a bright wrap

about her Nubian brownness.

Because she has stained her toes

with the juice of the henna

to attract any number of arrant males.

Because she has the good sense

to wear a scarab

to protect her heart.

Because she has a pearl

in the middle

of her lower delta.

Give her honour

Give her honour, you fools

Give her honour.

PERCHE' LEI E' VENUTA

Perché lei è venuta

con disegni geometrici

sui seni.

Perché lei ha partorito cinque figli

e il suo ventre è attraversato

da piccole lingue di fuoco.

Perché lei ha intrecciato i capelli

a forma di spiga, girandoli all’insù

a mostrare il suo alto status interiore.

Perché lei ha avvolto

un telo sgargiante

intorno al suo marrone nubiano.

Perché lei si è tinta i diti dei piedi

col succo dell’henné

per attrarre un gran numero di veri maschi.

Perché lei ha il buonsenso

di portare uno scarabeo

a proteggerle il cuore.

Perché lei ha una perla

in mezzo

al suo basso delta.

Rendetele onore

Rendetele onore, imbecilli

Rendetele onore.

C’è ancora tempo per un paio di testi: un testo di una poetessa indiana che vive nel Texas, si chiama Chitra Divakaruni, è anche una narratrice importante, ha scritto tre romanzi pubblicati da Einaudi.

A me piace tantissimo proprio come poetessa transculturale, nelle sue poesie è ben presente questo contrasto.

Ho scelto una poesia che ho tradotto di recente e non figura neanche nella mia antologia, ve la leggo in inglese e poi in italiano. È una poesia molto narrativa. Si intitola “Film indiano New Jersey”:

INDIAN MOVIE NEY JERSEY

Not like the white filmstars, all rib

and gaunt cheekbone, the Indian sex-goddess

smiles plumply from behind a flowery branch.

Below her brief red skirt, her thighs

are solid and redeeming

as tree trunks. She swings her hips

and the men viewers whistle. The lover-hero

dances in to a song, his lip sync

a little off, but no matter, we

know the words already and sing along.

It is safe here, the day

golden and cool so no one sweats,

roses on every bush and the Dal Lake

clean again.

            The sex-goddess switches

to thickened English to emphasize

a joke. We laugh and clap. Here

we need not be embarrassed

by mispronounced phrases

dropping like hot lead into foreign ears.

The flickering movie light

wipes from our faces years of America,

sons who want mohawks and refuse

to run the family store, daughters who date

on the sly.

            When at the end the hero

dies for his friend who also

loves the sex-goddess and now can marry her,

we weep, understanding. Even the men

clear their throats to say, “What qurbani!

What dosti!” After, we mill around,

unwilling to leave, exchange greetings

and good news: a new gold chain, a trip

to India. We do not speak

of motel raids, cancelled permits, stones

thrown through glass windows, daughters and sons

raped by Dotbusters.

            In this dim foyer

we can pull around us the faint comforting smell

of incense and pakoras, can arrange

our children’s marriages with hometown boys and girls,

open a franchise, win a million

in the mail. We can retire in India,

a yellow two storied house

with wrought-iron gates, our own

Ambassador car. Or at least

move to a rich white suburb, Summerfield

or Fort Lee, with neighbors that will

talk to us. Here while the film songs still echo

in the corridors and restrooms, we can trust

in movie truths: sacrifice, success, love and luck,

the America that was supposed to be.

FILM INDIANO, NEW JERSEY

Non è come le dive bianche, tutte costole

e zigomi scarni. La dea del sesso indiana

sorride paffuta da dietro a un ramo fiorito.

Sotto la minigonna rossa, le sue cosce

sono solide e rigeneranti

come tronchi d’albero. Dimena i fianchi

e il pubblico maschio approva fischiando. L’amante-eroe

danza al suono di una canzone, le sue labbra sono

un po’ fuori sincrono, ma non importa, sappiamo

già le parole e le cantiamo in coro.

Stiamo bene qua dentro, il giorno è

dorato e fresco e nessuno suda,

le rose in ogni cespuglio e il lago Dal

di nuovo pulito.

            La dea del sesso usa

un grossolano inglese per sottolineare

una burla. Ridiamo e battiamo le mani. Qui

non ci sentiamo imbarazzati

se frasi malpronunciate

cadono come piombo bollente nelle orecchie dei forestieri.

La tremula luce del film

cancella dai nostri volti anni di America,

figli che vogliono capelli alla moicana e rifiutano

di lavorare nel negozio di famiglia, figlie che vedono i ragazzi

in segreto.

            Quando alla fine l’eroe

muore per il suo amico che ama, anche lui,

la dea del sesso e che adesso può sposare,

piangiamo, comprensivi. Persino gli uomini

si schiariscono la voce per dire, “che qurbani!

Che dosti!” Dopo ciondoliamo,

senza voglia di andar via, scambiamo saluti

e buone notizie: un nuovo monile, un viaggio

in India. Non parliamo

dei raid negli alberghi, dei permessi cancellati, delle pietre

scagliate dalle finestre, di figlie e figli

stuprati dai Dotbusters.

            In questo atrio male illuminato

possiamo avvolgerci nel tenue confortante odore

d’incenso e pakoras, possiamo predisporre

le nozze dei nostri figli con sposi e spose di casa nostra,

aprire un negosio in franchising, vincere un milione

per posta. Possiamo andare in pensione in India,

una casa gialla a due piani

con cancelli in ferro battuto, la nostra

macchina Ambassador. O almeno

trasferirci in un ricco quartiere bianco, Summerfield

o Fort Lee, con vicini che vorranno

parlarci. Qui mentre le canzoni del film echeggiano ancora

nei corridoi e nelle toilette, crediamo

nelle verità dei film: sacrificio, successo, amore e fortuna,

l’America come pensavamo che fosse.

Andrea Sirotti: Mi piace moltissimo soprattutto la parte delle frasi mal pronunciate che cadono come piombo bollente. Si fa finta di credere che l’America sia veramente quella del sogno americano.

Brenda Poster: Vi è una sorta di ribaltamento, perché è nella casa di un indiano che trovano l’America del sogno.

Julio Monteiro Martins: Perché il territorio dell’America del sogno è proprio il territorio “altro”, straniero, non esiste l’America del sogno in America, per questo è necessario crearsi un ambiente artificiale, in questo caso il cinema nel New Jersey, per poter rivisitare quel sogno, che in fondo, secondo me, è diventato un retrogusto amaro, penso che tra le righe del testo si capisca.

Andrea Sirotti: La realtà è una realtà diversa, di sopraffazione, difficilissima anche economicamente. C’è un po’ di tutto nel testo, forse è bella anche per questo, il gap generazionale fa parte dei capisaldi della letteratura della diaspora indiana. Lo si vede anche in tanti film di successo. Vi è anche questo aspetto psicologico ulteriore.

Julio Monteiro Martins: C’è l’Italia dei sogni anche in Albania, nel Nordafrica e la parola Berlusconi, che in Italia o è pronunciata negativamente oppure è più o meno taciuta, dai servizi all’estero provenienti da questi paesi si grida il nome dell’Italia e di Berlusconi con grande vivacità, come se fosse un’icona di felicità, di terra promessa, Berlusconi significa soldi, denaro. Questa immagine esiste solo fuori dall’Italia perché nessuno qua è fautore di questo tipo di immagine.

Andrea Sirotti: Sì, è tutto un film italiano, per rimanere nella metafora della poesia.

Amor Dehkis: Sì, è diversa questa Italia, rispetto ai film del Neorealismo. Nel mio paese non c’è questa visione idillica dell’Italia, perché non è un paese molto conosciuto.Questo si nota anche dal numero ristretto dei miei connazionali che vivono qui, sono solo 13.000. Non è tanto in un paese di trenta milioni di abitanti e dove c’è una guerra civile in atto. La maggioranza va verso la Francia, si fugge in quel paese che offre più tranquillità.

Andrea Sirotti: La poesia successiva che vi volevo leggere è scritta da un giovane poeta filippino Joel Tan, sicuramente questo poeta incarna il massimo del meticciato: la madre è filippina e il padre cinese, nato nelle filippine, vive da molti anni nella zona di Los Angeles. Questa poesia si intitola “Angeleno” e mi sembra rappresenti un bel modo per superare gli stereotipi. La poesia è ricca di “Avrei voluto tanto essere un …” (un wasp, un cinese, ecc.) con delle osservazioni per cui vorrebbe essere uno di questi diversi gruppi etnici che hanno molto di interiorizzato e di vissuto, al di là dello stereotipo, molto picaresco. Il picaro moderno probabilmente è uno scrittore migrante che osserva certi aspetti della realtà sicuramente marginali, dei gruppi etnici, ma di grande interesse.

Angeleno

i wished for the longest that i was Jewish

so that i could live up in the hills,

& drive a brand new convertible

then my dad would be alex trebec

like this chick Nikki, who i had in

Geometry

i wished for the longest that i was Black

like my best friend Tre-dog

who had a mean temper & keloids

'cept i wouldn't keep a jheri-curl

cause it looked like it would fuck up all

my collars

i wished for the longest that i was Messikan

cause i likeded the way tres flores pomada

smelled in my friend Sleepy's hair.

wished i could crease my khakis razor sharp

& grow a goatee before any of the other kids did

i wished for the longest that i was a WASP

so i can hang out at the Sherman Oaks Galleria

& contemplate between Harvard or Brown

in front of corn-dog-on-a-stick

i wished for the longest that i was Japanese

so that i wouldn't have to cheat in Algebra

& so that i could hang out with

girls named Satomi & Miyumi

who ate seaweed for lunch

& folded paper, cool-like

origami

i wished for the longest that

i was Castillian like my god brother Ricardo

who has red hair & green eyes

so i can brag about summers in Madrid

& complain about

how dreary & provincial Manila can be

i wished for the longest that i was all-Chinese

so i could eat mooncakes

get red envelopes stuffed with

money    make plans to own Manila someday

 maybe then Papa would be proud of me

i wished for the longest that i was all-Pilipino

so i could make fun of the Chinese

eat barbecued goat hooves & have a

real ethnic last name like Kabongbong or Alvarez

maybe then Mama would feel avenged.

Angeleno

avrei voluto tanto essere ebreo

così avrei vissuto in collina,

e avrei guidato una decappottabile nuova

e mio papà sarebbe stato alex trebec[1]

come quella ragazza di nome Nikki, che era con me

a geometria

avrei voluto tanto essere nero

come il mio migliore amico Tre-dog

che aveva un brutto carattere e tante cicatrici,

solo non mi sarei fatto i ricci lunghi col gel

perché mi avrebbe rovinato i colletti

delle camicie

avrei voluto tanto essere messicano

perché mi piaceva il profumo della pomata tres flores

sui capelli del mio amico Sleepy.

avrei tenuto alla piega perfetta dei pantaloni khaki

& mi sarebbe cresciuto il pizzetto prima che agli altri ragazzi

avrei voluto tanto essere un WASP[2]

così potevo ciondolare per la Galleria Sherman Oaks

meditando se è meglio andare a Harvard o a Brown

davanti a un corn-dog-on-a-stick[3]

avrei voluto tanto essere giapponese

così non avrei dovuto copiare i compiti di Algebra

& sarei andato in giro con

ragazze di nome Satomi & Miyumi

che a pranzo mangiano alghe

& piegano i tovagliolini come fossero

origami

avrei voluto tanto essere spagnolo

come Ricardo figlio del mio padrino

che aveva i capelli rossi e gli occhi verdi

così avrei potuto vantarmi delle estati a Madrid

& lamentarmi di come

può essere squallida e provinciale Manila

avrei voluto tanto essere tutto cinese

così avrei mangiato i mooncakes

e avuto buste rosse imbottite di denaro

e avrei progettato di comprarmi tutta Manila un giorno

forse così papà sarebbe stato fiero di me

avrei voluto tanto essere tutto filippino

così avrei potuto prendere in giro i cinesi

mangiare zampetti di capra alla brace & avere

un cognome davvero etnico come Kabongbong o Alvarez

forse così la mamma avrebbe avuto la sua rivalsa.

Andrea Sirotti: Suheir Hammad è una giovane poetessa palestinese che vive a New York ed ha scritto una poesia dal titolo “Esotica”

exotic

don't wanna be your exotic
some delicate fragile colorful bird
imprisoned caged
in a land foreign to the stretch of her wings

don't wanna be your exotic
women everywhere are just like me
some taller darker nicer than me
but like me but just the same
women everywhere carry my nose on their faces
my name on their spirits

don't wanna
don't seduce yourself with
my otherness my hair
wasn't put on top of my head to entice
you into some mysterious black vodou
the beat of my lashes against each other
ain't some dark desert beat
it's just a blink
get over it

don't wanna be your exotic
your lovin of my beauty ain't more than
funky fornication plain pink perversion
in fact nasty necrophilia
cause my beauty is dead to you
I am dead to you

not your
harem girl geisha doll banana picker
pom pom girl pum pum shorts coffee maker
town whore belly dancer private dancer
la malinche venus hottentot laundry girl
your immaculate vessel emasculating princess

don't wanna be
your erotic
not your exotic

esotica

non sarò la tua esotica

una sorta di delicato fragile uccello multicolore

imprigionato nella gabbia

di una terra straniera all’ampiezza delle sue ali

non sarò la tua esotica

dovunque ci sono donne come me

alcune più alte più scure più belle

ma proprio come me proprio le stesse

donne dovunque portano in viso un naso come il mio

il mio nome nelle loro anime

non voglio,

non farti sedurre

dalla mia differenza i capelli

non mi furono messi in cima alla testa per ammaliarti

con qualche misterioso rito nero vudù

lo sbattere delle ciglia l’una con l’altra

non è lo scuro palpito del deserto

ma un semplice battito

lascialo perdere

non sarò la tua esotica

l’amore che porti alla mia bellezza non è altro

che una buffa libidinosa perversione rosata

nient’altro che cattiva necrofilia

perché la mia bellezza per te è morta

sono morta per te

né sarò la tua

concubina d’harem la bambola geisha che coglie banane

la ragazza pon pon la coniglietta la barista in shorts

puttana di città danzatrice del ventre ballerina personale

malinconica venere ottentotta lavandaia

principessa che castra il tuo vessillo immacolato

non sarò

la tua erotica

né l’esotica

Andrea Sirotti: Sempre sul tema dell’esotismo concludo con una poesia di Sujata Bhatt:

“What is exotic”.

What is Exotic?

Sweden is exotic–
and so is all of Finland.

Whortleberries certainly are.

Estonia is exotic–
and so is the Estonian word
for lizard: sisalik.

But the lizard herself
is my sister– those hot afternoons
when she comes indoors

to hide–

Cos’è esotico?

La Svezia è esotica –
e così tutta la Finlandia.

Lo sono certamente i mirtilli.

L’Estonia è esotica –
e anche la parola estone
per lucertola: sisalik.

Ma quella lucertola
è mia sorella – nei pomeriggi caldi
quando viene dentro

a nascondersi –

Julio Monteiro Martins: Volevo fare un’osservazione sulla poesia “Angeleno”. Questa mi sembra l’esempio meglio riuscito sulla differenza tra una società multiculturale e una società transculturale. La situazione che narra il protagonista è il risultato, anche voluto, di una società multiculturale come quella degli Stati Uniti, mentre, in altri paesi come Cuba e il Brasile, che hanno un progetto di mescolanza raziale totale, in cui tutte le caratteristiche di origine nazionale o etnica si perdono in una o due generazioni al massimo, per creare una nuova identità totalmente ibrida e transculturale, questi problemi non ci sono più. Mi sembra curioso anche che nella poesia lui parli dei cognomi e appunto, il Brasile credo sia l’unico posto al mondo dove spontaneamente si è abolito l’uso del cognome e a vantaggio esclusivamente del nome. Voglio dire, se una persona va a farsi visitare all’ospedale da un dottore o da un primario, anche in quel caso ha l’appuntamento con il Dott. Alberto. Questo credo sia una spinta forte ad una formazione di una società transculturale poiché abolisce tutti i riferimenti emblematici alle origini etniche e nazionali.

Cristiana Sassetti: In Brasile, inoltre, non esiste un portoghese parlato dai neri ed un’altro parlato dai bianchi come avviene invece negli Stati Uniti con il “black English”, per cui al telefono o alla radio brasiliana non riconosceresti mai se l’interlocutore è nero o bianco, per esempio.

Julio Monteiro Martins: In Gran Bretagna questo mi sembra ancora più forte che negli Stati Uniti, per cui l’accento con cui ti esprimi è una specie di stigmate, un segno indelebile dell’origine di classe, quasi irrinunciabile, per cui si crea un modello di società aristocratica di caste, a partire dalla pronuncia della lingua inglese.

Brenda Poster: A questo proposito, molte delle tematiche sull’identità e del suo conflitto, le ambivalenze e lacerazioni interiori, si trovano anche in Gran Bretagna proprio sul discorso di classe, di trasmigrazione da una classe sociale all’altra, come Tony Harrison che ha letto ultimamente a Pistoia, e tutta la scuola di Liverpool.

Cristiana Sassetti: Le poesie che hai letto mi hanno colpito per due aspetti: da un lato la riflessione sull’identità, sulla solitudine, sull’isolamento che a me sembra evocare una sorta di collasso culturale più ampio e complesso, dall’altro si avverte una presenza del mito molto forte, in alcune poesie in particolare la voce poetica sembra alla continua ricerca di un altrove, è come un Adamo pieno di nostalgia per quel paradiso che ha irrimediabilmente perduto.

Andrea Sirotti: Sembra anche a me che ci sia molta nostalgia per un Eden perduto irrecuperabile, lo si capisce bene nella poesia di Suheir Hammad o “Film indiano New Jersey” quando nel momento in cui lo si ritrova si capisce che in realtà non lo è mai stato. Lo sradicamento è totale e procura questa forte malinconia e sofferenza che trapela dalle poesie. La patria vera in molti casi, come Sujata Bhatt è la scrittura, la letteratura. Grazie ad essa, alle sue metafore e al ripensamento della lingua poetica c’è la possibilità di sopravvivenza. Giustamente fanno eccezione i testi più politici e femministi, ma anche questi rientrano nella poesia della migrazione più impegnata politicamente e polemicamente, come suggeriva Shaul Bassi.

Helene Paraskeva: Volevo ritornare all’inizio del tuo intervento, quando hai parlato delle nuove antologie di letteratura inglese che circolano in Italia, con paragrafi dedicati alla nuova letteratura postcoloniale. Vorrei augurarmi che questo avvenisse al più presto anche nelle antologie di letteratura italiana dove figurino testi di scrittori migranti che scrivono in italiano. Anch’io da insegnante di inglese come te, vedo che molto dipende dagli insegnanti stessi che partendo magari dal Bewolf non arrivano mai a Jhumpa Lahiri. Anch’io ho curato una piccola antologia di scrittori angloindiani, ma gli insegnanti di lingua inglese in Italia tra la tradizione e l’innovazione preferiscono forse la prima in quanto si sentono più sicuri. E non vorrei che questo avvenisse poi anche per gli insegnanti di lingua italiana. Quello che dovrebbe accadere è un lavoro a tappeto nelle scuole e presentare la letteratura della diaspora, la letteratura della migrazione, che è una nuova ondata. Cosa ne dici, ne dite?

Andrea Sirotti: Diciamo che mi inviti a nozze!! Sono anni che svolgo questo tipo di lavoro, anche insieme a Brenda. Anni fa abbiamo fatto un corso di aggiornamento sulle letterature postcoloniali per gli insegnanti al C.I.D.I. di Firenze. Sicuramente queste iniziative editoriali possono cadere nel vuoto. Addirittura nella bozza di riforma Bocca, c’erano dei punti di riferimento precisi in cui si auspicava l’inserimento di un insegnamento multiculturale, interculturale, e non c’erano ancora le antologie. Poi sono uscite, addirittura curate da due professori postcolonialisti di formazione che insegnano letteratura postcoloniale, e sono membri dell’A.I.S.L.I.. un’associazione di categoria accademica molto importante per lo studio delle letterature in lingua inglese. L’associazione terrà il suo terzo convegno in ottobre a Roma,  in cui si discute sull’aspetto della didattica non solo a livello accademico ma anche nelle scuole. Sicuramente ci sarà ancora da lavorare, soprattutto nella mentalità, però qualcosa si sta muovendo. Tra l’altro c’è anche un progetto di un’antologia degli scrittori migranti italiani per una grossa casa editrice scolastica. Anche se certe iniziative potranno cadere più o meno nel vuoto, è bene che ci sia questo movimento.

Davide Bregola: So per certo che alcune professoresse stanno lavorando ad un’antologia scolastica per le scuole medie, per la SEI, casa editrice di Brescia, e vi è una parte cospicua sulla letteratura degli stranieri che scrivono in italiano, quindi anche le scuole dell’obbligo si stanno interessando alla cosa. Volevo sapere il titolo dell’antologia per la Nuova Italia in cui si parla della letteratura postcoloniale.

Andrea Sirotti: The Worldwide Reader.

Julio Monteiro Martins: A questo punto volevo salutare la poetessa Brenda Porster e chiedere ad Andrea Sirotti se vuole introdurla brevemente.

Andrea Sirotti: Brenda prima di tutto è una carissima amica, che ho avuto anche l'onore di tradurre per la rivista Sagarana, i suoi testi sono ancora disponibili nel sito. E' una donna impegnata sia in campo letterario che nel sociale, ultimamente, in occasione della guerra in Iraq ha fatto parte di un comitato dell'associazione degli americani contro la guerra. È anche una critica letteraria, studiosa di letteratura ed insegnante e docente universitaria.

Brenda Poster: Vorrei ringraziare Andrea per il suo intervento molto bello. Ovviamente lo conosco da tanto tempo e collaboriamo anche spesso insieme, l’ ho sentito parlare spesso ma, comunque, c’è sempre qualcosa di nuovo che lui riesce ad apportare sia nei testi che nelle riflessioni.

Fino all’ultimo minuto per impegni accademici che sembravano inderogabili, ho creduto di non poter partecipare al seminario, solo ieri ho avuto il permesso, quindi, quello che vi ho portato oggi è un pochino frastagliato, più che un discorso critico ed organico, ho scelto una serie di testi sulla poesia sull’ultima guerra in Iraq, come mi era stato detto di fare. Naturalmente essendo io americana, l’argomento mi ha preoccupata tantissimo, sia politicamente che anche come riflessione culturale, su cosa voglia dire in questo momento in tutto il pianeta essere cittadino americano. Ho raccolto un insieme di testi che rappresentano diversi punti di vista. Mi sono riproposta soltanto un assaggino poiché il materiale è vastissimo. In particolare la risposta immediata e spontanea a questa guerra è stata la produzione enorme di antologie e così, molto velocemente, poiché ero in dubbio sulla mia presenza, ho cercato di raccogliere informazioni e materiale.

In rete c’è un sito www.poetsagainstthewar.org che ha realizzato più di una antologia, una ve la faccio vedere, sono circa cinquanta pagine ed è gratis, si può scaricare direttamente proprio per essere condivisa e scambiata. Nell’introduzione scrivono che hanno chiesto un contributo di poesie il venti gennaio e il ventisette avevano già ricevuto più di cento componimenti. Dicono che sia stata l’antologia più veloce del mondo sulla rabbia e l’indignazione. Un’altra antologia di Poets Against the War, che promette di essere molto bella raccoglie tredicimila poesie provenienti da tutto il mondo, è pubblicata da Nation Books, si può ordinare direttamente in libreria o su Amazon. Io l’ho ordinata ma non mi è ancora arrivata perché era già esaurita la prima edizione.

Le proteste civili negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed in Australia sono state tantissime. C’è anche un altro sito di poeti australiani contro la guerra. Vi faccio vedere questa foto tratta dal sito che ho citato, con la data 5 marzo, in cui i poeti contro la guerra hanno depositato davanti 10, Downing Street a Londra, residenza del Primo Ministro Tony Blair, 10.000 poesie in dieci scatole.

Se visitate il sito vedrete che vendono oltre alle antologie anche le magliette Poets against the war con i cui proventi finanziano varie iniziative. Questo solo per dirvi che c’è tantissima tristezza in giro oltre alla rabbia e all’indignazione contro l’amministrazione Bush e gli alleati più stretti.

Julio Monteiro Martins: Mi sembra che questa ultima guerra abbia prodotto molta più poesia rispetto, ad esempio, a quella del Vietnam in cui erano prevalse le canzoni.

Brenda Poster: Quello che mi ricordo sulla guerra del Vietnam furono delle poesie molto belle scritte dai soldati tornati dalla guerra. Per adesso, qui abbiamo voci di cittadini americani che si sentono chiamati in causa senza essere di leva. Bisogna anche ricordare che nel caso del Vietnam l’esercito americano era formato da soldati di leva e non da volontari come adesso. Sono stati proprio i problemi dei giovani negli anni Sessanta che non volevano partecipare alla guerra perché non belligeranti o perché semplicemente non volevano essere costretti ad affrontare una realtà così radicale e drammatica, una delle molle che ha fatto nascere il movimento studentesco contro la guerra. Chi non studiava o smetteva di studiare od era appena laureato veniva reclutato, come è accaduto a mio cugino. Da presa di coscienza esistenziale si è arrivati alla presa di coscienza politica. Adesso questo meccanismo è stato corretto perché l’esercito è formato solo da volontari, e bisognerà vedere che cosa potrà venir fuori in seguito.

Julio Monteiro Martins: Ho letto un bell’articolo di Kurt Vonnegut che pubblicherò sulla rivista Sagarana, il quale racconta che l’esercito di volontari in Iraq è costituito dagli esclusi dalla società, con livello di studi basso, cioè una nazione che ha inviato a rischiare la vita solo i  figli delle famiglie povere.

Brenda Poster: Le possibilità di studiare e far carriera avvengono tramite l’arruolamento nell’esercito perché ti offrono borse di studio, e chiaramente questa possibilità attira la persona che ne ha bisogno o non ha facilmente alternative di vita. E’ un esercito composto in maggioranza da neri e da altre minoranze etniche e sociali e dai gruppi più diseredati.

Amor Dehkis: E’ proprio un paradosso una nazione che arruola poveri e minoranze etniche per andare a combattere altri poveri e minoranze etniche. C’è davvero di che riflettere. Anche i ragazzi americani mi sembrano un po’ disgraziati.

Julio Monteiro Martins: Ricordo l’immagine di quella ragazza nera, grassa, della periferia degli Stati Uniti catturata dagli iraqueni mentre terrorizzata rispondeva alle domande dei soldati. Mi dà proprio l’impressione che coloro che comandano tutto questo stanno totalmente al di fuori, come se assistessero dal palcoscenico ad un teatro di poveri.

Brenda Porster: Proprio a questo punto è interessante il primo testo che ho scelto del poeta Jack Hirschman Youknowomsayin. E’ un poeta che ho incontrato per la prima volta recentemente ad una manifestazione a Pistoia. Nato a New York, vive tra San Francisco e lo Yorkshire nel nord dell’Inghilterra. Da quello che ho capito viene spesso in Italia. La sua poesia è linguisticamente molto consapevole, ci sono molti doppi sensi, gioca molto sulle pronunce, gli accenti e i dialettismi, le rime interne, ci vorrebbe veramente lui qui, a leggerle perché lo fa splendidamente.

La traduzione è di Raffaella Marzano ed il testo è pubblicato da Multimedia Edizioni/Casa della Poesia di Salerno.

YOUKNOWOMSAYIN

How many sons and daughters

of all the hundreds of men and women in Congress

are fighting in Iraq? Two.

Well, it’s a volunteer army

and the men and women in Congress, what with

deals and private investments,

are pretty much all of them millionaires. Youknowomsayin.

Their kids don’t have to take

a military wash because they’re dirtied up

with racist slurs, riddled with fear of jail,

hounded by poverty, like the 20 per cent

of African-Americans in the armed forces

(African-Americans represent only

12 per cent of the population),

or the heavy per cent of Latinos

and poor whites as well, taking orders,

doing a job on a country half of whose people

are children 15 years old and younger.

Youknowomsayin.

And I’m supposed to feel patriotic

and embrace this push for planetary comination

on the part of that junta of deaths-heads

that daily floats its moral abominations

on the channels of our despair?

Nuclear fear’s brought God back from the dead,

and Holy Wars look each other in their lies,

while children here and children there

are ravaged to the roots of their still possibly

innocent smiles.

In their little heads, in their doorways and beds,

they wish they may, they wish they might

yury you, you killer squirt,

for all the children that you’ve hurt,

and they’ll throw happy dirt on your corpse,

Mr. President. Youknowomsayin!

SAIDICHESTOPARLANDO

Quanti figli e figlie

Di tutte le centinaia di uomini e donne del Congresso

Stanno combattendo in Iraq? Due.

Bene, si tratta di un esercito volontario

E gli uomini e le donne del Congresso, malgrado i loro

Impegni e i loro investimenti privati,

sono per la maggior parte milionari. Saidichestoparlando

I loro figli non hanno bisogno

Di un lavaggio militare perché sono stati sporcati

Da calunnie razziste, crivellati dalla paura della galera,

perseguitati dalla povertà, come il 20 per cento

degli Afro-Americani nelle forze armate

(gli Afro-Americani rappresentano solo

il 12 per cento della popolazione),

o come la forte percentuale di Latini

e bianchi poveri, che prendono ordini,

lavorando in un paese la cui metà della popolazione

sono bambini di 15 anni o più piccoli.

Saidichestoparlando

Ed io dovrei sentirmi patriottico

Ed abbracciare questa spinta verso la minaccia planetaria

Dalla parte di quella giunta militare di teste-morte

Che quotidianamente fanno galleggiare le sue infamie morali

Sui canali della nostra disperazione?

La paura nucleare ha riportato indietro Dio dalla morte,

e le Guerre Sante si guardano l’un l’altra nelle loro bugie,

mentre i bambini qui e i bambini là

sono devastati fino alle radici dei loro ancora possibili

sorrisi innocenti.

Nelle loro piccole teste, nelle loro entrate e letti,

si augurano di potere, si augurano che potranno

seppellirti, tu nullità assassino,

per tutti i bambini che hai ferito,

e getteranno sporcizia felice sul tuo cadavere

Mr. President. Saidichestoparlando!

Brenda Porster: È una poesia di forte impatto politico e sociale, con un linguaggio al contempo molto poetico. Sapete che il Congresso è il Parlamento americano e io sapevo che in guerra era andato solo un figlio di un deputato. È un discorso di classe, i bambini iraqueni e bambini americani sono quelli che hanno da perdere di più. Il dato sociale immediato è il taglio dei fondi per tutti i programmi sociali, ma anche per l’istruzione, la salute, un taglio selvaggio dei fondi pubblici, con risultati preoccupanti. I miei amici e parenti mi scrivono molto preoccupati di perdere il posto.

La maggioranza degli americani non hanno un buon livello di istruzione nelle scuole pubbliche ed i media sono talmente sotto controllo, molto peggio che in Italia, per cui l’americano medio non ha accesso nemmeno ad una analisi chiara del processo.

Quando nel testo troviamo “look each other in their lies”, ovvero tutti quelli che si guardano nelle loro bugie, invece che negli occhi, traspare un umorismo feroce, perché denuncia le deliberate bugie praticate dai nostri governanti.

“Childrens here and childrens there” significa, come ha scritto il New York Times, governi contro popoli di tutto il mondo per interessi meramente economici.

Andando un po’ in ordine sparso adesso leggerei delle mie cose, che non sono poesie in questo caso. A Firenze c’è un gruppo che si chiama Comitato Iraq-Usa contro la guerra, della cui componente americana faccio parte, finita la guerra stiamo cercando di rinominarci cercando di mettere qualcosa di “Pro” invece che “Contro”. Per adesso ci siamo chiamati “Americani contro la guerra” ed operiamo insieme ai nostri amici iraqueni che vivono a Firenze già dall’epoca della prima guerra nel Golfo, in quel periodo ricordo che andavamo in giro a coppie, un iraqueno e un americano, per parlare insieme contro la guerra.

La pagina di Firenze dell’Unità ci aveva chiesto se potevamo scrivere un contributo quotidiano come comitato e questo lo abbiamo fatto prima che scoppiasse la guerra, poi una volta scoppiata hanno smesso di pubblicare questa rubrica. Questi testi sono stati ripubblicati, però, dall’Assessorato alle migrazioni del Comune di Firenze, su un piccolo pamphlet intitolato Lettere per Bagdad nel quale si alterna un diario di una donna iraquena che vive qua, a altri testi. Iproventi vanno al Comitato aiuti per l’Iraq.

Avevo scritto, quindi due pezzi che rappresentano un binomio. Il primo si intitola Not in our name e l’altro In nome di chi?. Le leggerei nel senso contrario in quanto il primo ha un impatto emotivo molto più forte, è il primo che mi è sgorgato dentro spontaneamente, mentre il secondo è una riflessione più razionale. Sono scritti direttamente in italiano e si trovano appunto in questo libretto.

In epigrafe ho messo addirittura Robert Burns, grande poeta scozzese pre-romantico della fine del Settecento. Ha scritto bellissime poesie sull’amicizia, l’amore erotico, ma è anche un poeta fortemente influenzato dalle correnti illuministe per cui ha scritto anche satire socio-politiche bellissime. Ho citato le ultime due strofe di un lungo monologo drammatico intitolato La preghiera di Willie il bigotto, Holly Willie in lingua originale, alla lettera Willie il Santo, ma “santo” in inglese perché le sette protestanti si auto-proclamavano “I Santi”, si credevano gli eletti. La traduzione dell’epigrafe l’ho fatta io.

………….

‘Lord, in thy day of vengeance try him!

 Lord visit him wha did employ him!

 And pass not in the mercy by them,

 Nor hear their pray’r.

 But for thy people’s sake detroy them,

 An dinna spare!

 But, Lord, remember me and mine

 Wi’ Mercies temporal and divine,

 That I for grace an’ gear may shine,

 Excelled by none;

 And a’ the glory shall be Thine!

 Amen, Amen!’

                              Robert Burns, from ‘La preghiera di Willie il Bigotto’

‘Signore, nel giorno della tua vendetta, condannalo,

 E punisci tutti quelli che lo aiutano,

                  Senza pietà 

 Sii sordo alla loro preghiera;

 E per il bene del tuo popolo, distruggili

                  Senza carità.

 Ma, Signore, di me e dei miei, ricordati,

 Donaci grazie, temporali e divine,

 Fammi diventare ricco, in beni ed in fede

                 Da nessuno superato,

 E tutta la gloria sarà la tua,

                  Amen, Amen!

Così finisce la satira scritta dal poeta illuminista scozzese, Robert Burns. Con la sua solita fine ironia Burns, già nel 18.imo secolo, riesce a cogliere quel temibile misto di bieca arroganza, spirito di vendetta, avidità e religiosità bigotta che nei nostri giorni vediamo personificato da Bush e dalla sua squadra di consiglieri provenienti dalla destra fondamentalista americana. In nome di una missione propagandata alla nazione come benedetta dal Signore, questi signori della guerra garantiscono gli interessi, non del popolo americano nel suo insieme (che al contrario sta soffrendo le conseguenze della crisi economica e dei tagli del bilancio pubblico), né tanto meno di quello iracheno, ma invece di certi gruppi economici, interessati (in tutti i sensi)  nel controllo delle risorse petrolifere e nel banchetto di profitti che sarà offerto dalla ricostruzione. È già pronta la lista delle ditte che avranno i contratti per il ‘dopo-guerra’ e – guarda caso – tra queste ci si trovano diverse compagnie che hanno legami diretti con Bush ed i suoi.

Queste cose qualcuno va dicendo anche negli Stati Uniti: più di recente, il regista americano Michael Moore, vincitore di un Oscar per il suo Bowling at Columbine. Pure il vecchio Senatore George McGovern, candidato alla Presidenza nel 1972, ha detto in un recente discorso:

“L’invasione dell’Iraq e altre guerre costose che fanno parte dei progetti segreti stanno ingrassando quel complesso militare-industriale di cui ci ammonì Presidente Eisenhower nel suo grande discorso di congedo. I profitti di guerra godono di una vertiginosa crescita ora, come in ogni guerra. Mentre i giovani americani muoiono, i profitti vanno in su. Ma la nostra economia non cresce. I nostri salari e i nostri redditi non crescono. Mentre fa una guerra contro Iraq, l’amministrazione Bush fa un’altra guerra contro il benessere dell’America.”

Questa guerra non è in NOSTRO nome, ma in nome di quei pochi, sì.

Brenda Porster: Il testo che vi leggo ora è quello scritto per primo:

Not in our name

Il mio nome è Brenda Porster. Mio padre, Abraham, negli anni 30 era attivo nell’organizzazione della sezione sindacale locale della CIO (Congress of Industrial Organizations), una confederazione nuova, collocata più a sinistra rispetto alla vecchia AFL (American Federation of Labor). Suo padre, mio nonno, era venuto in America per fuggire dai pogrom in Russia, che si intensificarono dopo l’insurrezione di 1905, nella quale lui, ancora ragazzo, aveva fatto parte. Mio nonno morì all’età di 28 anni lasciando una vedova con cinque figli. Mio padre, di conseguenza, ha dovuto cominciare a vendere giornali per la strada all’età di cinque anni. Questa guerra in Iraq NON E’ IN LORO NOME.

L’altro mio nonno arrivò, da solo a 13 anni, in terza classe di una nave che era salpata da Odessa. Si mise subito a lavorare in una sottoscala nel ‘garment district’ di New York. Fatto il primo mese, quando il padrone gli disse che non gli avrebbe pagato quel mese, ha avuto lo spirito di dimettersi. Questa guerra NON E’ IN SUO NOME. 

Mio fratello è redattore di un sito Web che trasmette informazioni e analisi contro la guerra in tutto il mondo tutti i giorni. La mia più cara amica lavora per lo Stato di Georgia da 20 anni: è contro la guerra, ma non osa manifestare perché terrorizzata dalla possibilità di perdere il lavoro (l’amministrazione della Georgia sta tagliando i posti in modo selvaggio, perché, come tutti i governi locali negli Stati Uniti, risente dei forti tagli dei fondi che provengono dal governo federale). Ad una mia vecchia compagna di università che lavora per il New York Times non è permessa di esprimersi pubblicamente riguardo a qualunque questione politica, pena la perdita del posto. Questa guerra NON E’ IN LORO NOME.              

Mia madre, 82enne, è confusa: non capisce perché si debba fare questa guerra. E’ confortata solo dal fatto che, come le raccontano i notiziari, nei bombardamenti non vengono presi di mira obiettivi civili. Questa guerra NON E’ IN SUO NOME.

Il mio nome è Brenda Porster. Questa guerra non è in mio nome.

Brenda Porster: Ho voluto suggerire in rete che tutti scrivessero chi sono e raccontassero la loro storia e proseguissero il mio testo, perché i nostri nomi diventassero da propri a collettivi, per recuperare anche la nostra storia collettiva, poiché l’ignoranza su quella che è stata la nostra storia è uno delle cause principali dei conflitti. La gente è molto vulnerabile e facilmente ingannata.

Nel 1905 c’è stato in Russia un primo tentativo di rivoluzione fallito che ha spinto molte persone a lasciare quel paese ed andare proprio negli Stati Uniti, vorrei sapere quante persone lo sanno. Tanti hanno avuto nonni e bisnonne che hanno fatto parte di una storia che nessuno sa o ricorda. La storia del sindacalismo americano tra la fine dell’Ottocento ed inizi del Novecento, è una storia imbevuta di sangue e di martiri. Queste storie stanno per essere dimenticate. C’era una milizia privata che sparava sulla folla dei lavoratori che manifestavano.

Trovo che sia importante recuperare la storia tramite anche le nostre piccole storie personali.

Julio Monteiro Martins: Forse una delle cause di questa dimenticanza della storia è il desiderio degli americani di cancellare la storia precedente e ricominciare tutto da capo, lì. Cancellare non solo il loro passato, ma tutto il resto del mondo che si teme e di cui si diffida. Ho il sospetto che quell’attacco contro le Torri Gemelle, di cui ancora non si conoscono precisamente le origini e le motivazioni, abbiano rinforzato ancor più questa ostilità che esisteva già prima, contro questa entità chiamata  “il resto del mondo”. Mi sembra che anche i notiziari diano attenzione ed enfasi solo a quelle notizie nel mondo che in modo più o meno diretto li riguardano.

Brenda Porster: L’orizzonte è molto ristretto indubbiamente, quasi da sempre, a volte è difficile avere anche notizie nazionali perché, molto spesso i titoli sono locali e quasi sempre di episodi di violenza locale. Quello che avviene fuori dagli Stati Uniti interessa poco. Questo disinteresse è alimentato anche da come è strutturato i media.

Sì, un dato di differenza fra la vecchia emigrazione e quella nuova forse è il fatto che una volta lasciato alle spalle il vecchio mondo si voleva dimenticarlo. Salvo poche famiglie che hanno voluto tener viva la memoria delle proprie radici, la maggioranza credo abbia pensato di ricominciare da capo e lasciare dietro gli eventi spiacevoli.

Mia nonna è stata testimone oculare del pogrom in Russia e non se ne parlava, e nemmeno si parlava il russo nella mia famiglia, come se si nascesse di nuovo. Adesso, alla terza o quarta generazione c’è un tentativo di recupero, anche gli italoamericani cercano di tornare, gli ebrei americani che ricercano le radici nell’Est Europeo. Forse i ricordi degli italiani erano meno drammatici, per cui il legame con la madrepatria è sempre rimasto forte, c’era tanta nostalgia, ma non lo so, in verità. In casa mia non c’era nessuna nostalgia, le cose che so di mio nonno di Odessa sono pochissimi frammenti di ricordo che mi sono stati trasmessi.

C’è forse adesso una illusione al contrario. Gli italoamericani che tornano in Italia cosa stanno cercando? Non la realtà, ma l’idea sognata da un’Italia di più di cento anni fa, che magari non è mai esistita. Sarebbe anche interessante il discorso per i discendenti italiani in America Latina.

Gli americani di origine italiana mediamente sono di destra, di un patriottismo esasperato e direi quasi reazionari, per cui vedono di buon occhio il governo di destra in Italia, forse perché hanno un’idea nostalgica e fasulla di ciò che è stata l’Italia.

Julio Monteiro Martins: Ho avvertito un fatto curioso, non so se tu hai avuto la stessa impressione. Siccome gli Stati Uniti per gli americani è il mondo, allora in questo mondo devono esistere tutte le nazioni, uno è grecoamericano, l’altro italoamericano, un altro ancora dopo tre generazioni è ancora ispanoamericano ecc, che vanno a creare un surrogato del paese d’origine, e questo non è difficile visto che vi sono discendenti dei tutti gli altri paesi del mondo. Tutte le etnie però parlano inglese, come se fosse un mondo addomesticato, una sorta di Disneyworld delle etnie.

Brenda Poster: Ma, insomma, i matrimoni misti sono numerosi, per cui queste divisioni tendono ad appianarsi, però le vecchie generazioni vogliono conservare le differenze.

Julio Monteiro Martins: Forse tra le nuove generazioni c’è anche un nuovo orgoglio di appartenenza, come se il fatto di essere di origine italiana gli aggiungesse e non gli sottraesse qualcosa.

Brenda Poster: Le nuove generazioni sono assediate dalla paranoia, dalla paura di essere assediati, che dopo le Torri Gemelle è cresciuto enormemente. Secondo l’accusa avanzata da Michael Moore nel suo film, questo stato di paura irrazionale continua sia nei confronti degli altri paesi del mondo sia internamente per la paura della popolazione nera, del maschio nero sembra che sia abbastanza deliberatamente stimolata. Ho visto en passant la copertina di Newsweek della scorsa settimana tutta sul rischio terrorismo in America. Anche il gruppo degli americani contro la guerra mi dicono che nella maggior parte dei notiziari, non della costa occidentale però, dopo più di un anno, tutti i giorni si parla delle Torri Gemelle.

Amor Dekhis: Forse mantengono questo stato di tensione per deviare l’attenzione da altri scandali o problemi economici o sociali e di disoccupazione. Questo è tipico dei regimi.

Brenda Poster: Concluderei con una poesia, molto arrabbiata e antiamericana di Harold Pinter, la traduzione fatta un po’ velocemente è la mia.

GOD BLESS AMERICA January, 2003

Here they go again,

The Yanks in their armoured parade

Chanting their ballads of joy

As they gallop across the big world

Praising America’s God.

The gutters are clogged with the dead

The ones who couldn’t join in

The others refusing to sing

The ones who are losing their voice

The ones who’ve forgotten the tune.

The riders had whips which cut.

Your head rolls onto the sand

Your head is a pool in the dirt

Your head is a stain in the dust

Your eyes have gone out and your nose

Sniffs only the pong of the dead

And all the dead air is alive

With the smell of America’s God.

DIO BENEDICA L’AMERICA Gennaio, 2003

Eccoli di nuovo, gli Yankee

con la loro parata corazzata,

che intonano ballate di gioia

mentre galoppano sopra il gran mondo

lodando il Dio d’America.

Le fogne sono intasate dai morti

quelli che non potevano esserci

gli altri che rifiutano di cantare

quelli che stanno perdendo la voce

quelli che si sono scordati la musica.

I cavalieri  hanno fruste che tagliano.

La tua testa rotola sulla sabbia

la tua testa è una pozza nel fango

la tua testa è una macchia nella polvere

si sono spenti i tuoi occhi e il tuo naso

sente solo la puzza dei morti

e tutta l’aria morta è viva

coll’odore del Dio d’America.

Brenda Porster: Vi leggo altri testi senza commentarli: uno è della grande poetessa afroamericana June Jordan, era stata invitata l’anno scorso a Firenze per fare un reading di poesia e purtroppo è morta la settimana prima di arrivare, nel giugno 2002.

Questa poesia “Bosnia Bosnia” è stata tradotta da Elisa Biagini.

BOSNIA BOSNIA
 
Too bad
there is no oil
between her legs

that 4-year-old Muslim girl and
her 5-year-old sister
and the 16- year-old babysitter
and the 20-year -old mother of that 4-year-old/that
Muslim child gangf raped
from dawn to dark to time become damnation

Too bad
there is no oil
between her legs

Too bad there is no oil
between Sbrenica and Sarajevo
and in-between the standing of a life
and genocide

Too bad
ther is no oil

Too bad
there in no oil
between her legs

the woman in Somalia
who weighs 45 pounds and
who has buried village elders and
who has buried village children

who weighed even less
than she weighs after so many days
of hunger gaping open
to the flies

Too bad
there is no oil
in South Central L.A.
and in between the beaten men and beatup woman
and in between the African and the Asian throwaways
and in between the Spanish and the English speaking
homeless
and in between the dealers and the drugged
and in between the people and criminal police
too bad
there is no oil

Too bad
there is no oil
between her legs
that four-year-old Muslim girl

Too bad
there is no oil
between her legs


BOSNIA BOSNIA

Che peccato
che non ci sia petrolio
tra le gambe di lei

quella bambina mussulmana di 4 anni e
la sua sorella di 5
e la babysitter di 16 anni
e la madre di 20 anni di quella bambina di 4/quella
bimba mussulmana violentata in gruppo
dall'alba alla sera al tempo divenuto dannazione

Che peccato
che non ci sia petrolio
tra le gambe di lei

Che peccato che non ci sia petrolio
tra Sbrenica e Sarajevo
e tra il valore di una vita
e il genocidio

Che peccato
che non ci sia petrolio

Che peccato
che non ci sia petrolio
tra le gambe di lei

la donna in Somalia
che pesa 20 chili e
che ha sepolto i vecchi del villaggio e
che ha sepolto i bambini del villaggio

che pesavano anche meno
di quanto pesa lei dopo così tanti giorni
di fame a bocca aperta
con le mosche

Che peccato
che non ci sia petrolio
a South Central L.A.
e fra gli uomini piegati e le donne battute
e fra i derelitti africani e asiatici
e fra i barboni di lingua spagnola e inglese
e fra gli spacciatori e i drogati
e fra la gente e la polizia criminale
che peccato
che non ci sia petrolio

Che peccato
che non ci sia petrolio
tra le gambe di lei
di quella bambina mussulmana di 4 anni

Che peccato
che non ci sia petrolio
tra le gambe di lei

June Jordan da Kissing God Goodbye, 1997

Brenda Poster: L’ultima che vi leggo l’ ho trovata in internet My mother sends a flag di Gwendolyn  Albert, indiana del Nord America, di cui non conosco niente.

Con questa poesia mi identifico moltissimo, anche se proviene da una voce del tutto sconosciuta. È come trovare una sorella.

 

MY MOTHER SENDS A FLAG

a black sunflower
blooms on manila
against the bulletin board
of my childhood
war is not healthy
for children and other
living things
wry comment
turned trite
by arching birdie
graphic and logo

*

from the gold-tipped dowel
hangs the flag
above the chalk tray
next to the classroom phone
we stand and syllabize
hands on hearts
some parents tell their kids
not to under God
not part of their plan
it is 1972
in Oakland, California,
United States of America

*

the Symbionese Liberation Army
shoots Dr. Foster
Superintendent of
the Oakland Public Schools
I am a tiny child
on a bench in the Oakland
Auditorium my mother
is sobbing beside me
another childhood moment
I didn't understand:
Nixon resigning
the flag like folds of curtain
beside him
Dad plays a 45
of the men on the moon
their flag flat as metal
in the solar wind

*

television brings us
many burning flags
some burned by Americans
in camouflage and wheelchairs
some by men in night-gowns
who seem very excited
does not compute
familiar background image
all 35 years of my life

*

the tragedy
takes the nickname
of the number we dial
for emergencies
some months later
my mother sends a flag
I live in Europe now
and later on the phone
she says she felt defensive
putting it in the envelope
it arrives with a crease

*

sometimes our flag
has a golden fringe
around it
bright orange-yellow fringe
like a Number 2 pencil

*

a friend teaches grade school
I give her the flag
for her European classroom
one flag among many
their primary colors
their black
and white

*

I felt defensive too
opening that envelope
holding the stars and stripes
America far away
from the hope
of that girl
with her hand
on her heart
liberty and justice
for all
on her lips
for all
for all
for all

MIA MADRE MANDA UNA BANDIERA

un girasole nero

fiorisce su carta da pacchi

attaccata alla bacheca

della mia infanzia

la guerra non fa bene

ai bambini e ad altre

cose viventi

battuta ironica

resa banale

dal grafico del logo d’uccellino

in volo arcuato

*

dal perno orlato d’oro

pende la bandiera

sopra il poggia gesso

accanto al telefono di classe

siamo in piede per scandire

mani al cuore

certi genitori dicono ai figli

di non pronunciare “sotto Dio”

non fa parte del loro progetto

siamo nel 1972

a Oakland, California,

Stati Uniti d’America

*

L’Esercito di liberazione simbionese

assassina il dott. Foster

Direttore

delle Scuole pubbliche di Oakland

io sono una bambina molto piccola

su una panca

nell’Auditorio di Oakland

la mamma singhiozza accanto a me

un altro momento dell’infanzia

che non capivo:

Nixon che si dimetteva

la bandiera piegata come una tendina

accanto a lui

il babbo che suona un 45 giri

degli uomini sulla luna

la loro bandiera piatta come fosse

metallo nel vento solare.

*

la televisione ci porta

molte bandiere bruciate

alcune bruciate da americani

in divisa mimetica, su sedie a rotelle,

alcune da uomini in camicia da notte

che sembrano eccitati

non fa la somma

immagine familiare sullo sfondo

tutti i 35 anni della mia vita

*

la tragedia

prende il nomignolo

del numero che componiamo

per le emergenze

alcuni mesi dopo

mia madre manda una bandiera

io vivo in Europa adesso

e più tardi al telefono dice

che si sentiva sulla difensiva

mentre la metteva in busta

arriva con una piega in mezzo.

*

certe volte la nostra bandiera

ha la frangia dorata

intorno

luminosa giallo-arancio

come una matita numero 2.

*

un’amica fa la maestra

le do la bandiera

per la sua aula europea

una bandiera tra molte

i loro colori primari

il loro nero

e bianco

*

mi sentivo sulla difensiva anch’io

mentre aprivo quella busta

tenendo in mano le stelle e strisce

lontana dall’America

dalla speranza

di quella bambina

con la mano

al cuore

libertà e giustizia

per tutti

sulle sue labbra

per tutti

per tutti

per tutti

Brenda Porster: Mi ricordo quando tutti i giorni alla scuola elementare ci veniva chiesto di recitare l’inno alla bandiera, i cui ultimi versi recitavano “Liberty and Justice for all”, la promessa di libertà e giustizia per tutti. E ci credevo, ci credevo profondamente come questa bambina. Quindi questo tradimento... avverto il senso di essere tradita profondamente dal simbolo di questa bandiera.


[1] È un popolare presentatore televisivo.

[2] sigla per White Anglo Saxon Protestant, la classe dirigente bianca americana.

[3] è un piatto tipico delle cafeterie californiane, una specie di hot-dog fritto e "impanato" in una pastella di farina di granturco.