Giovedì 3 Luglio –  mattina

Prima parte: Incontro con lo scrittore paraguaiano Egidio Molinas Leiva

Seconda parte: Incontro con lo scrittore algerino Tahar Lamri

Julio Monteiro Martins: Egidio Molinas Leiva è uno scrittore e profugo paraguaiano ed è nato nel 1942. Nel 1998 ha pubblicato il libro La notte del Yacaré per la casa editrice Aiep, di San Marino. Il Paraguay è un paese poco conosciuto in Europa, però noi, in America Latina abbiamo un grande rispetto per questo piccolo paese e per la sua letteratura, poiché ha generato degli scrittori quali Augusto Roa Bastos, autore di una bellissimo romanzo Il figlio dell’uomo e con un altro romanzo Io il supremo, ha dato inizio a tutta un’importante corrente di autobiografie fittizie di dittatori latinoamericani, seguite da libri come L’autunno del patriarca di Garcia Marquez. Accanto a me c’è anche Tahar Lamri, scrittore nato ad Algeri nel 1958. Ha iniziato gli studi in Legge nella capitale, finiti poi in Libia. Lascia l’Algeria nel ’79 per recarsi in Libia, dove lavora come traduttore presso il Consolato di Francia a Bengazi, fino al 1984. Si sposta in Francia e visita altri paesi europei. Arriva in Italia nel 1986. Esercita la professione di traduttore e interprete, consulente per il commercio con l’estero e consulente per la biblioteca Delfini di Modena per la catalogazione di libri in lingua araba. Scrive alcuni racconti tra cui Solo allora, sono certo, potrò capire in Voci dell’arcobaleno, Ed. Fara, primo premio per la narrativa della prima edizione del concorso Eks&tra. Collabora da anni con Ravenna Teatro, scrivendo narrazioni, tra cui Wolf, narrazione per bambini e adulti e La casa dei Tuareg, videoracconto scritto e rappresentato dallo stesso autore. Dal 1996 è membro della giuria del concorso letterario Eks&tra. Passo la parola a Egidio Molinas Leiva.

Egidio Molinas Leiva: Grazie. Pensavo di iniziare questa conferenza con un aneddoto che ho raccontato a cena ieri sera. Qualche tempo fa, dei giovani neolaureati mi avevano chiesto di partecipare ad un documentario cinematografico, come protagonista. Ho accettato e abbiamo lavorato bene insieme. Questo documentario lo hanno presentato ad un festival ed hanno vinto un premio. Secondo loro il mio intervento era stato decisivo, perché avevano stabilito tutto il documentario su quello che dicevo io. C’era un sacco di gente che mi faceva complimenti. Ad un certo punto mi si avvicina un uomo con due signore, genitori dei ragazzi, e mi dicono “bravissimo, bravissimo, straordinario, peccato che le sue doppie non si sentano, e la zeta sia inesistente e la esse moscia”.

Tutta la ricchezza concettuale non valeva niente, perché nella mia lingua mancavano le doppie etc.! La forma viene privilegiata rispetto ai contenuti. Ed è un problema con il quale ci confrontiamo tutti i giorni, noi scrittori stranieri. La mia cultura profonda è segnata dalla lingua Guarany, lingua dei miei antenati indigeni, che non ha la Z nel suo alfabeto e la S quasi non esiste e nemmeno le doppie. La mia cultura profonda è prevalsa su quella formale. Sono stato molto fortunato ad essere stato invitato qua. Passeggiando insieme a Tahar e Amor, guardando un po’ in là e in qua, abbiamo detto anche delle cose interessanti. Ho molta difficoltà a parlare di me stesso, in quanto scrittore, perché non mi sento tale. Io sono un raccontatore di storie da focolare, un narratore che raccoglie tutta la tradizione della lingua orale Guarany, e cerca di trasmetterla per iscritto. Non esiste più la tradizione di raccontare storie vicino al focolare, come succedeva a me da piccolo, con i miei genitori, gli zii, i nonni e gli anziani del villaggio. Era proprio un rituale.

Una cultura profonda quella della mia origine, che mi permette di filtrare senza nessuna paura, altre culture. Mi sento molto forte della mia cultura di origine, e le altre non possono che arricchirmi perché non viene a togliere, ma ad aggiungere qualcosa. Chi ha paura della cultura altrui è quello che non ha la propria. Un giorno mi sentivo a disagio sentendo alla radio un napoletano che si lamentava degli stranieri che cambiano la sua cultura, proprio lui, se la ricchezza culturale loro deriva proprio da tutti quelli che vi sono passati. A Napoli ci sono passati tutti….

Da un villaggio della sottoforesta amazzonica, dove sono nato, mi sono trasferito ad una cittadina dove c’erano le scuole. La lingua quotidiana, sociale era il Guarany e solo a scuola si parlava lo spagnolo. Il Guarany è una lingua onomatopeica, riproduce i suoni della natura.

A diciotto anni, per ragioni politiche, vengo catapultato a Buenos Aires, la grande metropoli, la più grande città europea che esista in America Latina. Una città sospesa sul mare, come la descrive bene Cortázar nel suo straordinario racconto Il viaggio. Allora, vengo catapultato in questa grandissima città, con telefoni, ascensori ed io ero del tutto spaesato, provenendo io da una cultura vitale così diversa, nata dal contatto diretto con la natura e soprattutto le persone. Dove la mia umanità cresceva come vuole la natura dell’essere umano, nella socialità, nella comunità.

Allora mi hanno insegnato ad usare l’ascensore. Esigevano che io sottostassi al loro modo di essere. Perché dovevo accettare, non avevo forse io qualcosa da dare, con un esperienza politica che era iniziata a dodici anni, combattente, torturtato… Non potevo assolutamente accettare di essere un serbatoio passivo del malcostume altrui. Usare il telefono? Sono arrivato a Buenos Aires all’inizio del 61! Ed ho cominciato ad usare l’ascensore nel ’63! Tutto questo solo per dire che certi aspetti della tecnologia non possono mai sopperire al contatto umano, perché sono solo informazioni, non è cultura. Come sono sopravvissuto? Ne abbiamo parlato ieri sera, per me Astor Piazzolla è stato molto importante in questo periodo. Ho realizzato una sintesi culturale, non una simbiosi. Tutto quello che credevo di portare di buono lo univo a quello che valeva la pena prendere dalla cultura commerciale, dell’affare e della compravendita di merci nel porto di Buenos Aires. Quindi per me il processo non è nuovo. Io però pensavo in Guarany e traducevo immediatamente in spagnolo, automaticamente.

Quando arrivo in Italia, pensare in Guarany non era più possibile, perché il salto culturale era enorme. Perché mi mancava il corrispondente del quotidiano che vivevo qua. Non esisteva più una denominazione Guarany nella lingua di una nazione fortemente industrializzata. È stato un processo dolorosissimo! Ho dovuto imparare a pensare in italiano a trentasette anni. Quindi dovevo imparare una nuova lingua per trasmettere quello che io avevo da trasmettere, ossia la mia cultura in contrapposizione a quella che mi si voleva imporre per forza. Non ci sono stato neanche stavolta! Così quando sono arrivato qua, dopo che mi avevano tenuto in isolamento totale e caricato poi su un aereo e depositato qua, e qua sono rimasto. Mi invitavano dappertutto, mi offrivano dei pranzi buonissimi, parlavo nelle parrocchie, nelle associazioni culturali ed io narravo tutte le sofferenze dei nostri popoli sotto le dittature militari di quel periodo. Il Paraguay non sapevano neanche dove fosse…! I miei discorsi li turbavano per la crudezza e mi interrompevano, perché poi non capivano la mia pronuncia e quello, come ho già detto, negava tutta la validità del concetto che c’era dietro. Era questa la cultura media che ho trovato quando sono arrivato negli anni Settanta, inizi Ottanta. La delusione era terribile…Quando mi avevano detto all’ultimo minuto che sarei venuto qua, pensavo al paese di Dante e del mio grande professore di filosofia, di un grande poeta che avevo studiato molto come Cesare Pavese. Così pensavo di trovare un paese…invece ho trovato una nazione con una cultura media molto inferiore a qualsiasi altro paese latinoamericano che io conoscevo in quel periodo lì.

Mi dicevano che erano molto interessati alle tematiche del terzo mondo…e pensavo ma non hanno altro da fare!

Io venivo da un paese soffocato da una dittatura, non sapevo neanche che cosa volesse dire respirare, e lo abbiamo imparato da soli. Siamo stati sconfitti mille volte ma ciò non significa nulla. Siamo noi che abbiamo fallito, non che il nostro progetto non fosse stato valido. Una delle mie frasi preferite è proprio “so di perdite ma non di sconfitte”, non mi sono mai arreso, nonostante abbia perso tante battaglie. Per la mia propria incapacità, perché non ero sufficientemente preparato per affrontare una certa situazione.

Scusatemi, mi dilungo un po’, ma sono cose molto care…Ah, una cosa che volevo dire, in quel periodo si organizzavano cose nelle parrocchie e facevamo progetti, anche perché guadagnavo sempre qualche pranzetto! E certi non partecipavano, non venivano. E allora gli chiedevo “ma perché non vieni?”, “non mi va” sentivo rispondere. Ma come non ti va? Ma non è una ragione? Anche a me non andava di andare a morire, ma quando combattevo dovevo farlo e basta. Non esisteva dire oggi non mi va di farmi ammazzare, in nessun momento. Non c’entra il coraggio. Erano decisioni prese e la gente si aspettava che tu rendessi onore agli impegni presi, era una questione d’onore. Quando mi torturavano, e volevano che facessi dei nomi, e cercavano di convincermi in tutti i modi, dicendomi anche che non lo avrebbe saputo nessuno, a me non importava, perché io lo avrei saputo! E invece qui, “Oggi non vengo, non mi va”. Ma che filosofia di vita è questa? Che fai le cose se ti va o no?

Tornando alla letteratura della migrazione. Per me si tratta di una rivoluzione fatta dagli scrittori migranti negli anni Novanta, contro il sopruso culturale dei posti dove arrivavano. E’ il secondo passo di quella lotta che io portavo avanti, da solo, dagli anni Ottanta. Io sono venuto qua a confrontarmi. Noi, tra virgoletti, scrittori e poeti in lingua italiana, abbiamo un gran rispetto per la lingua ospite. E’ come entrare in una casa per non fumatori e devi rispettare certe regole minime.

Ma se questa lingua non mi permette di esprimere certi concetti nati dalla sintesi culturale permanente che porto avanti, qualcosa devo modificare. Devo rendere utile questo strumento e forzarlo concettualmente. L’italiano è bello proprio per quello, perché ha degli angoli non ancora esplorati. Penso sia più ricco dello spagnolo, perché ti permette ampi margini di parola. Naturalmente io sto sperimentando. Nella mia scrittura voglio recuperare del tutto le atmosfere del racconto orale. Queste hanno bisogno di pause, di silenzi, di esaltazioni, di frasi ad effetto, mistero e suspance, per tenere vivo l’interesse dello spettatore. Sto cercando di rendere l’italiano uno strumento adatto a me. Sto stravolgendo un poco la vostra lingua madre. Non c’è più chi lo faccia.

Allora vi leggo qualcosa, qualche poesia, non vorrei che pensaste che sono uno immerso nella vita politica fino al midollo, anch’io ho la mia vita affettiva, il mio quotidiano.

Non mancherò

Vengo da lontano

Ma non mancherò quel giorno,

vengo dalle frontiere dell’uomo…

conosco le sue virtù estreme

            e le sue estreme miserie,

nulla mi stupisce

            e tutto mi sorprende…

io stesso ho camminato a lungo

per i lunghi corridoi del buio,

spesso

colpevolmente smarrito

in facili labirinti…

Non mancherò quel giorno,

vengo da coniugare il verbo del silenzio,

conosco a memoria

i suoi più nascosti orizzonti…

ho vissuto a fondo calma e tempesta,

sono stato bersaglio dei suoi fulmini,

vengo da un tempo dove amore e rabbia

si incontravano sovente nelle mani…

            Non mancherò quel giorno,

in questo transito scslpita in me

l’urlo silenzioso degli assenti, e

ultimamente

            la solitudine

troppo spesso mi attanaglia…

            Ma non mancherò quel giorno,

la mano aperta

pronta per stringere un’altra,

o il pugno chiuso

pronto per colpire,

da amico o nemico,

con rabbia o con amore,

quanto mai presente

            io

non mancherò quel giorno

né a nessun altro.

Passaggio nel vento

…e molto presto ritorneranno i venti,

gli alberi spogli,

i giardini spazzati in piena fioritura,

il seminato perso

in prevedibili piogge

di parole…

Dopo, uno,

resterà solo uno nel paesaggio,

ormai

il fiume scorre

accanto.

La soglia

Colpi, colpi,

raffiche

vento, vento

freddo, freddo

nelle ossa, nell’accanto vuoto,

fuoco nelle viscere

ferite,

la pelle chiusa intorno.

Apri un porta, una finestra

Ma nessuno varca la soglia.

Egidio Molinas Leiva: Ho finito…

Julio Monteiro Martins: Passo la parola a Tahar Lamri.

Tahar Lamri: Che dire dopo aver sentito Egidio e queste bellissime poesie, bellissime sarebbe anche poco. Mi riaggancio alla fine del suo intervento, quando ha detto che la lingua la stiamo facendo insieme. Infatti, è un po’ quello che faccio anch’io. La lingua italiana si farà insieme a scrittori nuovi, della migrazione, in realtà, scrittori che scrivono in italiano e basta. C’è chi usa questa lingua perché la ama, come si può amare una donna. Dice Borges come l’uomo cerca l’amore di una donna per non pensare più a lei, per dimenticarsela. Si cerca l’amore di questa lingua, per dimenticarsi di questa lingua e usarla come strumento di espressione. Esprimere che cosa? Delle vite veramente piene, le vedo ad ogni incontro di questo tipo. Non incontro solo persone ma delle vite piene. Magari fuori dal pubblico, perché abbiamo anche un po’ di pudore, sento delle storie che sono dei mondi pieni. Due o tre giorni fa ero ad Anghiari e parlavo con Geneviéve Makaping e abbiamo pianto insieme sull’albero del Teneré che non c’è più. È un albero in mezzo al deserto tra l’Algeria e il Niger e per centinaia e centinaia di chilometri non c’è niente, solo questo albero, tanto è vero che era segnato sulle mappe, era un albero secolare. Un giorno è stato travolto da un tir e lo abbatte. Lei è fuggita da casa, dall’Algeria e con il suo compagno ha avuto il suo primo litigio proprio lì vicino. Non sapendo dove rifugiarsi è andata a parlare all’albero. Quando ha saputo che non c’era più, è stato un evento traumatico perché vedeva dietro il tir, la potenza industriale che travolgeva l’Africa e la distrugge, distrugge un fratello, l’albero, era un simbolo per noi. La settimana prima avevo conosciuto un poeta Cheyenne, Lance Henson. Era la prima volta, li avevo visti solo nei fumetti. Abbiamo parlato fino alle quattro del mattino davanti ad un birra e abbiamo deciso di fare qualcosa insieme. Vedete come la multiculturalità cammini da sola, non ha bisogno di niente, va avanti malgrado noi stessi, la politica. Anche Egidio è un pezzo di storia. Il Algeria ci portavano a vedere tutti i capi di stato rivoluzionari, era un paese socialista, a cinque anni ho visto Che Guevara,  Castro era di casa, il generale Giap, quello di Dien Bien Phu, erano sempre lì, anche architetti brasiliani, rivoluzionari di tutti i tipi. Noi siamo nutriti di questo. Beh, dopo le parole di Egidio ho cambiato tutto quello che volevo dire…anche a Ferrara mi è successo la stessa cosa. Dopo ogni incontro…è come se si potesse dire “non si va a Lucca due volte”, sicuramente da questi incontri ne esco veramente un altro. Se è così per me, lo è anche per la società attorno. La società non può essere la stessa prima dell’arrivo degli emigranti. Cambia necessariamente. Ed ecco perché la lingua la facciamo insieme. La lingua italiana moderna nasce dal romanzo I promessi sposi del Manzoni, che se ci pensate bene, il toscano per lui era proprio una lingua straniera…Ci ha messo dieci anni per scriverlo, la prima stesura non andava nemmeno bene. Penso che sia questo il senso del discorso di Egidio, degli angoli inesplorati, spazi in cui si può ancora inventare.

Poi ci sono i percorsi individuali, a volte dolorosi. Quando sono arrivato in Italia non parlavo la vostra lingua. Sono arrivato in seguito ad una storia d’amore. Cercavo in tutti i modi di rendermi invisibile, di passare inosservato, di non avere accenti. Algeri era il covo dei pirati, per cui nel dialetto algerino ci sono parole turche, latine, spagnole, inglesi, berbere, per cui sin da bambino parlavo il dialetto a casa e francese e arabo, due lingue straniere per me, a scuola. Malgrado il passaggio dal francese, l’impatto con la lingua italiana è stato devastante, mi ha sparpagliato l’io.

Per raccontarvi un aneddoto, un’iniziazione dolorosa, nei primi anni veniva a trovarmi mio fratello e cercavo in tutti i modi di litigare con lui e di mandarlo via, perché non lo sopportavo, e questo è successo per tre anni consecutivi. Poi ho cominciato a rifletterci e, in realtà, ho capito che lui vanificava i miei sforzi di rendermi invisibile, mi faceva capire che potevo sposare un’italiana e parlare in italiano, ma in realtà io ero lui, e mi diceva che non sarei stato mai italiano. Solo capendo questo sono rientrato in possesso delle mie radici, ho acquisito voce, ho cominciato a parlare di me in modo molto più sereno. Posso dire che la scelta di esprimermi in italiano è una scelta di libertà, è anche una scelta pagana, di un’identità plurima, dell’anima plurima, dicevano i medici filofosi del XIX secolo, prima di Freud. Forse si può chiamare anche sintesi, come dice Egidio. Qualcuno parla di una macedonia e non un frullato. Con la prima i vari gusti e l’aspetto rimane,. Ma sono concetti nuovi in cammino, che ancora non sappiamo nominarli, forse perché non vogliamo usare nomi come melting-pot. Esprimermi in una lingua straniera, per me è come dissacrare la mia lingua. Per me la lingua madre protegge e la lingua straniera dissacra e libera. Devo conciliarla anch’io con la lingua orale. Da bambino andavo nei suk ad ascoltare i cantastorie, che non sapevano né leggere né scrivere. Raccontavano di personaggi mitici che non esistevano nei libri di storia, o di Aladin ecc. C’erano due storie parallele quelle della strada e quelle dei libri ufficiali dove leggevamo la rivoluzione imprese mitiche contro i francesi, storie quest’ultime forse, più inventate che vere. Vivevamo un mito orale popolato di gin, spiriti e storie di questo tipo, raccontato nelle piazze parallela alla storia ufficiale, inventata anche quella, mitica anche quella. In più una lingua legata alla religione, la lingua classica nella quale si scrive è quella del Corano, di quindici secoli fa. Tanto è vero che la lingua araba ha delle difficoltà ad adeguarsi al mondo moderno, basti pensare che la parola “moto”, si dice bicicletta di fuoco, oppure “elicottero” si dice oggetto volante verticale. Queste difficoltà le portiamo dentro di noi. Tanto più quando raggiungiamo un paese straniero, una sorta di Macondo post-diluviana, dove bisogna mettere le etichette sui vari oggetti, per sapere come si chiamano…Sei, sette o otto anni fa, io balbettavo questa lingua, me lo ricordo bene.

Oggi addirittura scrivo andando a cercare i dialetti della pianura padana da mettere insieme alla tradizione orale araba. A volte faccio anche arrabbiare le persone. L’anno scorso ho rappresentato uno spettacolo che si chiama Il pellegrinaggio della voce, sono letture nelle quali utilizzo gente che proviene dal teatro. Quindi, non lo faccio mai allo stesso modo. L’ultima volta è stato a Bologna con un poeta sardo, Alberto Masala, quindi ci alternavamo tra il sardo, l’arabo e l’italiano, poi una signora leggeva le traduzione di alcuni miei testi in dialetto bolognese. L’anno scorso l’ ho rappresentato nella provincia di Vicenza, ed un attore leggeva gli stessi testi in dialetto veneto. Dopo lo spettacolo mi hanno detto che tanta gente si è arrabbiata, perché lo vedeva una sorta di presa in giro, dalla quale traspariva una certa superiorità dell’arabo o della lingua italiana. Ma non era così. Volevo solo piegare il dialetto alle mie esigenze. E’ vero che certe esperienze che noi stranieri troviamo negli anziani somigliano un po’ a quello che, per esempio ho vissuto io nella mia infanzia, parlare il dialetto in casa, per esempio. Forse perché a quei tempi la scrittura non era così diffusa.

Ricordo che appena arrivato in Italia, non parlavo l’italiano, aspettavo credo l’autobus, mi ha chiesto qualcosa che io non capivo, e vedendo che non capivo, ha alzato la manica della mia giacca ed ha guardato da solo l’ora del mio orologio. Per me è stato una sorta di benvenuto, ho capito che la gente era molto cordiale perché si permetteva di guardare nel tuo orologio.

Uso il dialetto perché vivo in una zona, la Romagna, dove il saluto più affettuoso, soprattutto tra gli anziani, quando non si vedono da un po’ di tempo è: che ti venga un accidente! Che ti venga un cancro! È un parlare per antifrasi che mi affascina assolutamente. I sentimenti ci sono, e sono anche forti, ma c’è un pudore che ci impedisce di esprimerli.

A Vicenza c’è ogni anno un festival che si chiama “Azioni inclementi” tenuto a Villa Clementi. Prima dello spettacolo, aspettavo fuori, fumando forse una sigaretta, e sono arrivati due signori veneti che guardavano il programma e leggendo uno ha commentato: “ma che sarà questa cosa qui?” e l’altro ha risposto “zé una roba di cultura!”. Quando ho sentito questa frase, mi si è svelato tutto un mondo, quello Veneto per cui la cultura significa voglia di non lavorare! E sono rimasti lì fino a notte fonda e non sono bastate mille e duecento sedie quella sera. Io questi due tipi li osservavo per vedere se andavano via o rimanevano, ed hanno seguito tutto. Personalmente sono molto affascinato da queste cose. Parto da queste cose per scrivere o semplicemente per vivere qui. Per questo affermo che la lingua italiana si fa con gli italiani.

La mia infanzia non l’ ho passata qui, per me il brodo che si mangia la domenica in Romagna, non è carico di niente, noi siamo anche il prodotto di sapori, profumi ed odori. Lo mangio, mi ci sono abituato, ma mi manca il sentimento che accompagna questa pietanza. A me, al contrario, difficilmente manca il cous cous. Credo che non potrò mai possedere la cultura italiana, e forse è anche un bene, ma è una cosa molto difficile voler scrivere di certe cose e non possedere i sentimenti intimi che l’accompagnano. Allora mi rimane la lingua. Chiunque venga dai cosiddetti paesi del Terzo Mondo, si sente un po’ investito dalla consapevolezza di venire da un mondo con un’alta percentuale di analfabetismo. Chi scrive deve parlare anche a loro nome, far valere le loro tradizioni, rapresentarli. Garcia Márquez dice di scrivere perché vuole essere amato. Uno straniero che scrive in italiano vuole essere accettato, amato, è quasi un secondo battesimo e vede che la sua lingua è lì, scritta, come quella degli altri.

Ritornando al discorso dell’analfabetismo, Kateb Yassine, grande scrittore algerino che scriveva in francese all’inizio e poi è passato al dialetto. Si è occupato più di teatro che di narrativa, e diceva che il francese era il bottino di guerra. Raccontava che nei villaggi la gente lo prendeva per la giacca e gli raccontava le sue storie. Ho dimenticato tante cose che volevo dire. Leggerò qualcosa di mio, allora. Non sono una persona che produce molto. Mi chiamano da molti posti per intervistarmi o farmi foto, anche dall’Inghilterra, però non scrivo così tanto. Quando ho vinto il premio, mi intervistavano tutti, ma non avevo niente da dire, quante cose posso dire su un racconto. Addirittura una volta mi ha chiamato l’Unità, la sede regionale, per avere la mia opinione sulla fuga in mare di certi marocchini! Io poi non leggo mai la cronaca locale, gli ho risposto che non sapevo di questo fatto e non so cosa dire sui clandestini. E mi risponde: “no no, quello che mi interessava sapere da lei era la dimensione della fuga”. Gli ho risposto che proprio non avevo niente da dire! E questo insisteva, allora gli ho spiegato che non ero un intellettuale algerino, avevo solamente pubblicato un racconto e forse una rondine non fa primavera. E spesso mi succede così, mi vogliono intervistare sulle donne romagnole, sulla mia scrittura, il mio punto di vista sugli italiani. Io nemmeno avevo un punto di vista su di me, con i problemi che vi raccontavo. Oppure bisogna mandare sempre messaggi. I miei scritti dovrebbero parlare da soli. Allora ve li leggo. Il pellegrinaggio della voce, fa parte della raccolta Parole di Sabbia, Ed. Il Grappolo, è un testo pieno di rimandi dialettali, che salterò perché è anche un racconto molto lungo, diviso in vari capitoli brevi, che sono paralleli dei diversi immaginari, quindi ci sono tanti nomi.

IL PELLEGRINAGGIO DELLA VOCE

L’uomo è il padrone della parola che conserva nella sua pancia, ma diventa schiavo della parola che lascia fuggire dalle sue labbra.

COSA SONO IO? Sono un sacco di parole che quando parla tace sempre una verità.

Abdessalam El Sounbati dello El Marrakchi, di Marrakech, diretto discendente del l’ultimo re arabo di Granata, sposò quattro donne: Souhaila, Soumaya, Souraya e Soukaina.

Nessuna di loro ebbe figli maschi, fuorché Soukaina dalla quale nacqui io, ultimo di quattordici femmine.

Mi misero il nome Laayachi per paura che non potessi rivedere la stagione che mi vide nascere.

Di professione e per vocazione cantastorie, ho cantato le lodi di Maometto, le prodezze di Alì e le gesta di Saad Zenati nella piazza di Jemaa El-Fena ed intutte le piazze d’Oriente.

Ed eccomi oggi qui fra di voi per raccontarvi la storia di un sogno.

Dai confini della Mauritania sono venuto qui a riunire ciò che la Storia ha separato. La mia storia non è diversa da quella dei vostri filari, fuler o cantastorie della pianura.

Zontel al riser, esperto conoscitore della risaia e delle acque sposò Guendalina ed ebbero quattordici figli”

Tahar Larmir: Salto il dialetto mantovano leggo gli inserimenti in italiano. Ne erano rimasti vivi solo sette che avevao messo su famiglia: Burla, Matilde, Ippolito, Guerrino e Ulisse che era stato in Africa.

Ippolito conosceva il linguaggio degli animali e aveva il potere di guarire le bestie con erbe palustri.

Ripeteva sempre che tiene i suoi poteri direttamente da Manto, figlia di Tiresia, che si era appartata con la sua vocazione dove le acque del Mincio ristagnano in una quiete assorta e sognante.

Ippolito, benché analfabeta, conosceva a memoria la Divina Commedia. Quasi tutta.

Orsola, Orsolina da bambina, reincarnazione di Agnese Visconti, sposò un uomo che non amava e amò un uomo per il quale perdette la vita.

Storia ancora oggi su tutte le labbra. (salto il dialetto)

Gualfardo, esperto conoscitore delle erbe medicinali, sposò Armellina ed ebbero quattordici figli.

Due di loro morirono angeli, tre se li portò via la guerra e due se li inghiottì il Ronco.

Sette divennero grandi e misero su famiglia.

I setti rimasti erano: Antvaleva, Orsola, Matilde, Ippolito, Carlotta, Guerrino e Orano che ra stato in Africa.

Antvleva ( Tahar: è un nome che esiste davvero in romagnolo e significa “non ti voglio”), esaudendo il desiderio del padre, uscì un giorno di casa e non fece mai più ritorno.

Orsola, Orsolina da bambina, reincarnazione di Agnese Visconti, sposò un uomo che non amava e amò un uomo per il quale perdette la vita.

Matilde sposò Ribello ed ebbero tre figli: Rivo, Luzio e Nario.

Carlotta sposò Ottobrino ed ebbero tre figli: Marxino, Rosa Lussemburga e Idea Socialista che sposò un banchiere.

Guerrino mise su una mandria sconfinata e amò soltanto i suoi maiali che chiamava affettuosamente “I miei purc”. “Ah i purc. Fossero gli uomini puliti come i maiali”, diceva.

Orano, dopo il ritorno dall’Africa, sposò la Giuseppa, che picchiava una volta al mese e diceva: “Se non ci si dà qualche volta, le donne dicono che è perduta l’affezione”. Orano e Giuseppa sono morti lo stesso giorno, ma la Giuseppa trent’anni dopo.

Ippolito conosceva il linguaggio degli animali ed il linguaggio segreto degli umani e aveva il potere di guarire tanto le bestie quanto gli uomini con erbe palustri.

Aveva ricevuto i suoi poteri da Gualgfardo suo padre.

Ippolito, benché analfabeta, conosceva a memoria la Divina Commedia. Quasi tutta.

II

Nel Libro Sacro, sotto il Capitolo intitolato “L’uomo” c’è scritto: “Come si può comprarre o vendere il firmamento o il colore della Terra? Ricordatevi che noi non siamo padroni né di freschezza dell’aria né della vivacità dei ruscelli d’acqua. Ogni ago di pino che oscilla al vento, ogni grano di sabbia sulle spiagge, ogni goccia di rugiada nel buio dei boschi, ogni fruscio, ogni rumore di insetto, sono tutti sacri nella memoria.”

Vengo a portarvi le parole sacre del libro della Casbah, che non è una città, né un villaggio. E’ un quartiere del centro in periferia. La Casbah è di tutti noi. Diciamo che è un labirinto. Forse è l’amore, ma nessuno sembra rendersene conto. E’ un posto dove non ci sono donne, o se ci sono vivono soltanto nei loro appartamenti.

Ora nella Casbah non ci sono più viuzze ma strade ben asfaltate di un nero compatto, a cui hanno rubato le siepi.

Trent’anni dopo la metà del secolo scorso molti dei miei fratelli si lasciarono dietro i loro vasti cortili e vennero qui da voi in cerca di fortuna

I volti di quegli uomini, ho visto, tradiscono a volte la rassegnazione ed altre volte ala rabbia di dover compiere un’azione così stupida,ma ho letto sotto le rughe precoci di quei volti la speranza in un mondo dove c’è ancora posto per le antiche storie. Le loro voci taciturne dicono: anche alle vostre siepi hanno rubato le aie.

Nella terra di mio padre, i miei cortili non sono diversi dalle vostre aie, luoghi dello scambio e dei sentimenti. Luoghi delle risa e dei pianti. Nella vostra aia c’era la cattedrale quercia e nel mio cortile c’era la moschea palma. Come vedete, sono uguali e diversi, come due gemelli, quei nostri parenti.

Tahar Lamri: Salto qualcosa e vi vado a parlare di Zanubrio, un personaggio esistito davvero a Ravenna, dove abito. Lui per scommessa mangiava qualsiasi cosa, la gente lo ricorda molto. E credevano fosse morto. Invece, quando, c’è stata la prima dello spettacolo, è venuto anche lui, accompagnato dal personale di una casa di anziani dove vive adesso. Avevano letto la recensione, lo avevano riconosciuto e portato allo spettacolo. Non c’era solo la sorpresa di uno straniero che scrive di una figura ormai dimenticata, ma anche la presenza del protagonista, una persona quasi novantenne, che la letteratura sembrava aver fatto risuscitare. Lo metto qui a parlare con un filo d’erba, perché ormai non riesce più a parlare con gli esseri umani. Rivolgendosi a un filo d’erba, parla in dialetto romagnolo. Sono cose che si possono dire solo dialetto perché in italiano diventano razziste. Poi questo viaggio che parte dalle pianure padane arriva fino in Senegal a Tambacounda. Dalla razza Piave alle razze nere.

Tambacounda è un villaggio grande come una città. E’ un bivio, è un luogo di incontro e di memoria. E’ un passaggio, mai un luogo di fuga. E’ una località, un sito, un posto, un punto, un canto, un fianco, una terra, una regione, una contrada, un paese, una sede, una stanza, una casa, una dimora, un locale, un domicilio, un angolo, un cantone. Tambacounda è uno spazio, è un passo. Una citazione.

Raccolgo le mie forze e una noce di cola. Dopo un lungo viaggio aiuta. Mi fermo dopo un po’ in un tanganà per mangiare una yassa. Ristorato e fresco vado alla stazione. Aspetto sei ore e sei minuti, poi mi addormento. Non so dopo quanto tempo, una mano si appoggia sulla mia spalla e mi sveglia, mi volto e vedo un uomo sorridere, avrà avuto al massimo dei denti, dice l’uomo:

“Che ora sono?” Poi aggiunge: “L’orologio della stazione è fermo da sette anni.”

Queste parole dette con disinvoltura mi scuotono dal mio torpore, mi percorre una immensa gioia.”Questo è il mio posto!” esclamo senza ritegno. “Finalmente una stazione con l’orologio che non funziona!” aggiungo.

L’uomo mi risponde con calma:

“Amico sei straniero vero?”

Mi sorprende la domanda. L’uomo prosegue:

“Mi chiamo Niang, sono il griot della stazione. Anzi l’unico griot di una stazione al mondo. Mi piace inventare alberi genealogici alle persone di passaggio. Così mi sento più vicino agli antenati. Se vuoi venire con me viene, però non devi farmi nessuna domanda. Chi indaga non impara.”

(…)

Ci siamo messi subito in cammino. A Velingara abbiamo incontrato due bambini liberiani che ci hanno detto : “Ci sono stai combattimenti terribili vicino a casa nostra. Allora siamo fuggiti. Abbiamo camminato, camminato e ancora camminato. Siamo andati a Dakar, ma là non c’è niente da fare, poi siamo scesi a Thiés (…)”

(incontrano una serie di bambini poveri, profughi da tutto il mondo)

Ho proseguito il mio viaggio a Fodekounda, né triste né contento.Cercavo negli occhi della selva i miei amici senza trovarne alcuno. Ad un certo punto sento un baobab millenario che mi chiama. Il baobab è l’unico albero che, per forma,  assomiglia ai narratori, perché quando è spoglio sembra avere le radici per aria. Abbraccio i suoi dieci metri di circonferenza, mi arrampico sui suoi rami. Arrivato quasi in cima mi faccio un nido e sto lì. Ogni giorno tre uomini, uno con quattro denti, l’altro con cinque denti, il terzo con sei denti ed un quarto, che non so chi sia, con sette denti, si incontrano ogni giorno alle sette lì ai piedi dell’albero per raccontarsi una storia.

Da allora non sono più sceso dal mio baobab.

Julio Monteiro Martins: Vorrei fare una domanda prima a Tahar e poi a Egidio. È un grande atto di amore per la terra che hai scelto, la Romagna, con i suoi personaggi il suo dialetto, l’impressione che ho avuto è che questa nuova identità fosse diventata più importante della precedente. Quasi un’illuminazione, un incontro con te stesso nella nuova terra. Mi sembra che tu avessi scelto una donna e non una terra. Ma mi sembra una lunga luna di miele tra un uomo e una cultura.

Tahar Lamri: Più che una terra, importante sì, basta visitarla, è la lingua. Amore in tutti i sensi per la lingua italiana. Sono venuto per una storia d’amore che poi è finita malissimo e poteva anche spingermi ad andare via, invece, sono rimasto. Ecco perché cerco dei simboli e vado a cercare le cose nascoste, sicuramente è una cosa che apre il cuore e la mente per citare Levy-Strauss. Sono andato via dal mio paese a diciannove anni e non ci sono più tornato. Tutto il resto… non so veramente qual è la mia identità e forse non mi interessa neanche. Mi piace molto l’albero della mangrovia. È un albero che ha le radici in superficie e sta sempre sul confine tra l’acqua salata e quella dolce. Quindi è come se l’acqua salata fosse quella del vivere quotidiano, dei dolori, gioie etc. e quella dolce fosse la memoria che conservo, e non so più se è vera o fittizia. Tanto è vero prima mi sognavo da bambino che parlavo con i miei genitori, fratelli ed amici in italiano. Forse, come dice Egidio, bisogna fare una sintesi. Recuperare la tradizione della terra e tutta la mia tradizione orale. I gin sono spiriti belli del deserto che popolano i racconti. Addirittura si dice che uomini si posso sposare con i gin. I musulmani credono proprio in un mondo parallelo. Maometto li avrebbe incontrati e qualcuno lo avrebbe convertito all’Islam. Quando uno ha dei poteri perché è intelligente o più illuminato, noi diciamo che è sposato con una gin e quindi ottiene dei poteri da questa donna gin. La follia in arabo si dice “essere abitato dal gin”, quindi compie azioni incomprensibili a noi umani ma sono comprensibili in un altro mondo. Mi piace assediare, ferire la lingua italiana introducendo dentro elementi diversi. Sarebbe un atto d’amore come per la Giuseppa che prendeva le botte tutti i mesi.

Julio Monteiro Martins: Una premessa prima della domanda ad Egidio. Pochissimi sanno in Europa che il Paraguay è stato fino a circa il 1860, il paese più ricco e sviluppato del continente latinoamericano, con una forte industria e obbligo di scolarizzazione di massa. Nel 1865, forti interessi soprattutto inglesi, hanno messo insieme la cosiddetta Triplice Alleanza, ovvero tutto l’esercito brasiliano, insieme a quello argentino e uruguaiano, per schiacciare e distruggere il piccolo Paraguay. La scusa era che aveva un dittatore tremendo Solano Lopes, un po’ come Saddam Hussein è stata la scusa di oggi. La strage è stata talmente brutale, una delle più cruente che la storia abbia mai conosciuto, che ha semplicemente sterminato tutta la popolazione maschile. Il Paraguay non si è mai più rialzato, anzi è diventato uno dei paesi più poveri e sottosviluppati del continente, purtroppo. Questo marchio segna la storia di ognuno dei suoi figli. La mia domanda è per Egidio, proprio quanto di questo genocidio è dentro di te ancora oggi e della tua narrativa. E poi una richiesta speciale che ci hai raccontato ieri sera a cena, la storia del personaggio vero che ha dato spunto al personaggio del libro Io,e  il supremo, di Roa Bastos.

Egidio Molinas Leiva: Il Paraguay è stato il primo paese che si è liberato dalla Spagna, nel 1811, prima ancora dell’Argentina. In quel periodo tutto quel territorio che adesso è territorio brasiliano: il Mato Grosso, Rio grande do Sul, la “Mesopotamia” brasiliana, era del Paraguay. Circa un quarto della Repubblica Argentina attuale era sempre territorio paraguaiano. Arrivavamo al mare. Nel 1820, più o meno, un illuminista del tempo, il Doctor Gaspar Rodrigues de Francia, di Francia perché aveva studiato a Parigi, è stato il primo studioso del Russo nell’America Latina di quel tempo. Lui arriva con l’idea di importare le idee della Rivoluzione Francese, in un periodo storico assolutamente “primitivo” per il nostro paese. Naturalmente lui viene scelto membro del governo e poi come una sorta di presidente del Consiglio. Tenta delle cose, crede di riuscirci, ma non ci riesce. Allora se ne vuole andare via. Accetta solo di restare se lo nominano dittatore supremo della Repubblica, e così fu nominato nel 1822 più o meno. Stabilì una serie di misure…prima di tutte fece…(ride n.d.r.)..fu..fuc..ilare quelli che avevano promosso la rivoluzione contro la Spagna, perché aveva paura che questi volessero rimettersi sotto il protettorato inglese. E allora li fece fuori tutti. Scelse i giovani più brillanti e li mandò tutti a fare studi specifici in Francia. Dopo qualche anno sono tornati come tecnici, gli unici che esistevano. Nel frattempo aveva sviluppato la prima industria tessile, cantieri navali dove si costruivano navi per i fiumi navigabili. Costruisce la prima ferrovia, la prima macchina stampa con i primi giornali. I nostri prodotti manifatturieri andavano a Buenos Aires e poi dappertutto e facevano concorrenza alla regina dei mari che era l’Inghilterra. Naturalmente i nostri prezzi erano maggiori, ma anche la qualità. Comunque sia la borghesia commerciale argentina era alleata commerciale degli inglesi, peraltro l’oligarchia brasiliana ambiva a tutta quella zona ricca del Sud, con i suoi territori fertili, dove si allevava anche il bestiame. José Manuel Artigas che è paraguaiano di nascita, ma che è stato un traditore, perché aveva ambizioni alla Bossi, di creare un paese indipendente per sé da qualche parte, e aveva soprattutto cinquemila uomini armati e agguerriti che in quel periodo era più di un esercito. Insomma, era in accordi con il Brasile per far saltare il Paraguay, perché era un modello di sviluppo che minacciava le altre economie. Quindi l’Inghilterra crea questa Triplice Alleanza con la borghesia commerciale argentina, l’oligarchia brasiliana e Antigas che voleva il suo paesello e si sarebbero spartiti il paese una volta vinto…

Julio Monteiro Martins: Quante somiglianze con la guerra e l’occupazione dell’Iraq! È impressionante come certi standard della Storia si ripetano nei secoli.

Egidio Molinas Leiva: L’Argentina avrebbe controllato così tutto il commercio sul fiume. In breve, l’ottanta per cento della popolazione maschile morì, rimasero vivi soltanto i bambini fino a dodici anni e gli anziani sopra i settanta, tutti gli altri vennero barbaramente sterminati. Gli raccontavo a Tahar che da noi la festa del bambino è il 16 agosto, che è l’anniversario di una battaglia in cui morirono cinquemila ragazzini tra i dodici e quindici anni, al comando di un colonnello quindicenne, figlio di Solano Lopes, che morì anche lui in combattimento.

Naturalmente poi, i brasiliani erano riusciti a fare un solo generale, e lo portarono seminudo in una gabbia per dimostrare che questi politici erano belve, lui addirittura era molto peloso e barbuto..

Julio Monteiro Martins: Solo una parentesi..i soldati brasiliani…quelli ricchi non sono andati a lottare. Chi era andato in Paraguay? Gli schiavi neri. Allora i paraguaiani non avevano mai visto un nero, così sono stati invasi da un battaglione intero di africani, ed erano anche spaventati dalla mole fisica degli schiavi. Tutti i proprietari terrieri mandavano i loro schiavi, non i loro figli.

Emilio Molinas Leiva: Tanto è vero, una delle canzoni Guarany che racconta quell’epopea, dice che il giorno della morte del “Capitano Supremo”, il 1° marzo 1871, il generale tentò la fuga ma era impossibile e allora hanno girati i cavalli e “li hanno raggiunti quei neri”.

Bene, come dicevo ognuno ha avuto quello che voleva, però per evitare che il Paraguay potesse tornare ad essere potente hanno creato la provincia di Missiones, una specie di naso, se avete presente l’Atlante, sopra l’Argentina esce una frangia di terreno e quel cuscinetto che è l’Uruguay, ci ha tolto l’arrivo diretto al mare. Ma non solo ci tolsero il controllo sul Rio de la Plata, che era fondamentale, il bacino naturale di uscita verso il mare. Naturalmente, è parte profonda della mia cultura, soprattutto perché si sono perse due cose fondamentali la collocazione fisica del paese, ma anche è cambiata la condotta morale del paese. Perché noi venivamo da una cultura indigena monogama e invece si passò ad una bigamia mai sentita da nessuno, che ha cambiato le abitudini del popolo. Tutto naturalmente nascosto da una “moralina” superficiale…

Quando papà rapì mia madre, naturalmente erano d’accordo, mia madre era minorenne, non volevano troppi problemi e allora mio padre la rapì. Mio nonno aspettò tre giorni prima di andare a cercare sua figlia, ma sapeva dov’era. Dopo tre giorni, si mise i suoi vestiti migliori, sellò il suo miglior cavallo, percorse tutto il paese dicendo che andava a cercar la figlia. Gli amici del mio futuro papà, andarono ad avvertirlo che stava arrivando. Prese quindi il cavallo, il pugnale e lo aspetto al cancello della tenuta dove teneva la mamma, allora proverbiale sarebbe stato il dialogo tra di loro. Noi figli lo abbiamo ricostruito un po’ perché nessuno ce ne ha mai parlato. Così arrivato il nonno dice:

“Buongiorno Florindo”

“Buongiorno Felicio”

“Florinda sta qui?”

“Sì, sta qua”

“E come sta?”

“Bene, non si lamenta..”

“Ah, non si lamenta?!”

“No, per niente, casualmente oggi mi stava dicendo che le piacerebbe venire a trovarla un giorno”

“Ah, vuole venire a trovarmi? Dille di venire quando vuole!”

“Buongiorno Florindo”

“Buongiorno Felicio”

Ritorna al paese e lo trova in subbuglio, tutti che pensano a cosa sia successo. Il nonno torna e dice:

“Sì, sì ho sistemato le cose, un giorno e l’altro ritorna a casa”. Così vanno le cose, una cultura consensuale dove i problemi si risolvono in quel modo.

Comunque noi abbiamo avuto una grossa opportunità storica che viene di nuovo stroncata dai tedeschi, questa volta, nel 1932/35. La Bolivia aveva scoperto una vena petrolifera che entrava in una regione disabitata nel nostro paese. Peraltro i tedeschi stavano preparandosi per la seconda guerra mondiale ed avevano bisogno di collaudare le bombe, le tattiche di guerra, gli Stuka. Si sono alleati all’esercito boliviano e naturalmente gli indios della montagna. Il Paraguay ha perso in quella guerra trentamila uomini. Dicono che di boliviani ne sono morti ottantamila. La guerra è stata militarmente vinta dal Paraguay, il Colonnello Franco è arrivato addirittura a Santa Cruz de la Sierra, quasi a La Paz, però gli ordinarono di ritirarsi, lui non lo fece e venne messo in prigione. Da questo episodio scoppiò una rivoluzione nel 1937,da lui capeggiata. Mio padre è stato un eroe di questa guerra, del Chaco. Lui e un maggiore hanno avuto la medaglia d’oro al valore.

Il personaggio del mio libro si chiama Cacho che è un anagramma di Chaco, anche perché Chaco era il mio nome di battaglia nella clandestinità argentina, e vi sto raccontando una novità assoluta, in questo momento. Io vivo letterariamente con il personaggio Cacho, comunque nella mia ultima opera l’ho ammazzato, l’ho fatto sparire nell’ultima pagina.

Julio Monteiro Martins: Riprendendo dal personaggio che ha dato vita al libro Io, il supremo, perché mi hai raccontato delle cose ieri…Questo personaggio era Gaspar Rodrigues de Francia che aveva chiesto il potere assoluto altrimenti se ne andava. Lui era un eremita, un introverso, nella più assoluta povertà, senza parlare con nessuno e senza protezione…

Egidio Molinas Leiva: Secondo la leggenda aveva un cane che lo seguiva e non si sapeva se era un randagio che ogni tanto si accollava.

Julio Monteiro Martins: La figura del dittatore latinoamericano in tanti romanzi è ispirata a questo personaggio…

Egidio Molinas Leiva: Sì, ci tengo molto a raccontare questa storia. Allora era un solitario. Se qualcuno ha sofferto la solitudine del potere, era proprio lui, perché aveva tutto il potere, ma non lo consumava a proprio favore. Era impotente perché non poteva fare di più di quello che stava facendo, perché non aveva interlocutori. La popolazione non era in grado di interloquire con lui, non aveva la sua preparazione culturale e storica. Quello che io considero il migliore scrittore paraguaiano di tutti i tempi è Augusto Roa Bastos. Mi ha onorato della sua amicizia tanto tempo fa. Si introduce nella mente di quest’uomo e si immagina il rimuginare della sua mente, cerca di seguire lui che dialoga con il suo cane, entra in questo animo complesso e ne esce questo libro meraviglioso che è Io, il supremo. Secondo me, Garcia Marquez non avrebbe mai potuto scrivere L’autunnodel patriarca o Nessuno scrive al colonnello senza il libro di Roa Bastos.

Julio Monteiro Martins: I suoi libri sono pubblicati da Feltrinelli, ed ho letto in questi giorni che è andato ospite alla fiera del libro di San Paolo. È ancora attivo, quindi.

Egidio Molinas Leiva: Avevo venti anni quando lo invitai a partecipare a un programma che tenevo alla radio, gli chiesi se mi dava una mano. E lui era già intorno alla cinquantina, forse un po’ meno. È un grandissimo uomo, umanamente disponibile, gli piacevano molto le donne e il vino…

Tahar Lamri: Mi piacerebbe sentire una poesia in Guarany di Egidio.

Egido Molinas Leiva: Il Guarany lo parlavo ma non l’ ho mai studiato. Avevo delle conoscenze superficiali tratte da manuali stupendi redatti dai Gesuiti. Così ho dovuto studiare tutte e due le grammatiche e la scoperta più bella è stata che combaciavano in tutto. Quindi è il mio Guarany, quello parlato comunque. (legge un testo in Guarany,  e poi la traduzione n.d.r.).

ATTESA

Un giorno mi vedrai tornare,

i tuoni azzittiti,

i fulmini assenti,

forse farai fatica a riconoscermi;

forse non vorrai proprio riconoscermi;

ti capirò.

Aspetterò in silenzio un tuo sguardo,

un tuo gesto cruciale…

vedrai, i fuochi sono solo

apparentemente spenti.