Mercoledì 14 luglio h. 10,30 – 2° giorno

Julio Monteiro Martins:
Sono felice di essere tra amici, conoscerli di persona… questa è una bella cosa. Io voglio presentare due scrittori. Stefano Galieni, giornalista del giornale Liberazione e collabora con una rivista di volontariato e con altre riviste legate alla cultura della migrazione. È un esperto della questione della migrazione, soprattutto della letteratura migrante. Lui è romano, nel ’98 ha collaborato alla nascita del gruppo Scritti d’Africa, e questo è stato il suo primo trattato su questa letteratura. Questo gruppo ha dato vita a due libri che sono stati fatti insieme alla commissione europea e si chiamano Voci Migranti, la collana Voci Migranti. Si occupa anche a tempo pieno della questione della migrazione come organizzatore e coordinatore del dipartimento di migrazione del partito della Rifondazione Comunista e del progetto che si chiama Frontiera Italia che sono cinque reportages sui luoghi di arrivo dei migranti in Italia, sui punti di frontiera, i punti critici, lo spazio critico della vita degli immigrati.
Poi abbiamo un amico, Artur Spanjolli, un romanziere originario dell’Albania che vive a Firenze. Io l’ho conosciuto a Lecce circa sei mesi fa perché pubblichiamo per la stessa casa editrice, la Besa, e Artur – poi lo spiegherà meglio lui – sta lavorando a una trilogia di romanzi dei quali è uscito il primo che ha portato qui oggi, Cronaca di una vita in silenzio, e nel prossimo mese uscirà il secondo volume. Questo romanzo ha riscosso grande successo da parte della critica italiana e io ho selezionato alcune frasi di una critica pubblicata sulla rivista El Ghibli scritta da Raffaele Taddeo, una critica molto positiva in cui Taddeo dice:
“Si prova una sorta di fascinazione dopo la lettura delle prime pagine di questo insolito, ma anche pregevole romanzo scritto da Artur Spanjolli. Intanto l'incanto si mantiene anche quando si scopre la profonda innovazione, da quel che conosco di letteratura, della struttura narrativa. La definirei a "raggiera", ove il perno della ruota è dato da un personaggio evocato, richiamato che fa da strumento catalizzante dei ricordi. Personaggio che non c'è più, ma che diventa il riferimento di tutti gli altri personaggi, che sono i terminali di memorie e rievocazioni. […]Fatti e avvenimenti storici anche drammatici sono trattati con leggerezza. E anche questo è un grande pregio del libro. La vicenda di una famiglia albanese che da ricchi proprietari passa, per cambi di governi politici, per l'avvento del comunismo e della successiva sbornia "democratica", ad una situazione di estrema precarietà, viene presentata senza drammi, senza ricercare assolutamente la compassione del lettore. L'alterna vicenda umana è accettata con fierezza, con atteggiamento dignitoso, come pure i successivi cambiamenti sono vissuti con preoccupazione, ma senza alcun parossismo.
Ancora una volta, diversità di organizzazioni politiche, diversità di condizione sociali si inchinano a valori che stanno al di sopra. […] ritengo il romanzo uno dei più poetici di tutta la produzione della letteratura della migrazione. Incominciamo ad avvicinarci ad un capolavoro. L'autore albanese mostra di conoscere appieno la lingua italiana. Il suo periodare è semplice e riesce a mantenere un ritmo discorsivo piano e senza strappi.”
(Applausi del pubblico)
Bene, ora lascio la parola a Stefano Galieni.
Intervento di Stefano Galieni:
Io intanto mi scuso per due ragioni. La prima è che non posso restare per tutto il seminario, perché mi sarebbe piaciuto, mi avrebbe fatto bene perchè sarebbe stato per me un attimo di respiro rispetto ai ritmi delle emergenze, tutte le emergenze che un politico e un giornalista deve fronteggiare. Purtroppo devo andare via nel pomeriggio perché sto seguendo la vicenda della Cap Anamur, la nave di cui avrete sentito parlare nei giornali arrivata a Porto Empedocle con 37 rifugiati che è una vicenda tragica ma anche simbolica. Mi scuso intanto per questo, e la seconda ragione per cui mi scuso è che nelle mie intenzioni c’era quella di svolgere un lavoro molto più complesso che anche a causa di quest’emergenza ho dovuto in qualche modo rielaborare nei pochi tempi morti che mi restavano. Quindi se troverete alcune cose dette in maniera superficiale o frettolosa perdonatemi. La prossima volta mi comporterò meglio, spero che ci sia!
Tanti anni fa, io vengo dalla periferia romana, mi capitò di leggere un libro. Ora, chi vive a Roma e vive nella periferia, chi ci viveva negli anni Settanta, spesso era condannato a situazioni di marginalità, delinquenza, droga, o comunque era considerato uno che non aveva diritto alla cultura. Io, per una serie di incontri fortunati ero uno di quelli che si nutriva di libri – io dico sempre i libri mi hanno salvato la vita – e mi capitò di leggere un libro, il libro era “Padre padrone” di Gavino Ledda, un libro che racconta la situazione tremenda, dura, forte della Sardegna. Mio padre era sardo. All’epoca il libro venne interpretato giustamente come il racconto di una cultura arcaica. Da quel libro venne tratto un film, un bel film dei fratelli Taviani, e anche mio padre lo vide e si commosse perché vedeva finalmente rispettata, raccontata per quello che era, la complessità del mondo da cui veniva. Oggi, pensandoci adesso con vent’anni di distanza circa, dico che quella non è letteratura della subalternità, non è la letteratura di quello che accadeva ieri, dell’arcaicità. È la nostra letteratura della migrazione. Il senso d’appartenenza, di riconoscimento in qualche maniera, che ha suscitato in una persona umile che aveva la terza elementare come mio padre, mi ha fatto molto riflettere perché mi ha fatto pensare che uno dei valori enormi e importanti che ha questo tipo di letteratura, anzi questi tipi di letteratura – non mi piace il singolare, da questo punto di vista – è che restituiscono dignità a chi scrive, a chi legge, a chi viene rappresentato. Noi siamo un paese assurdo, un paese improvvisamente arricchito, in pochi anni, troppo rapidamente, un paese che ha dimenticato le proprie miserie passate e che dimentica le proprie miserie presenti – nasconde i propri anziani in stato di povertà, nasconde gli operai disoccupati, nasconde le tante marginalità – perché preferisce mostrare la bella Italia fatta di brillanti, di veline e di luccichini, insomma. E abbiamo questo enorme handicap, secondo me. In questo enorme handicap generale si inserisce la figura del migrante. Io sono un giornalista, quindi mi ritrovo purtroppo a confrontarmi spesso con questo, e vedo che l’immigrazione è vissuta come un fenomeno – utilizzo un termine forte, volgare – miserabile, cioè, chi arriva in Italia, il paese ricco, bello, è per sua natura un miserabile, uno che sta sotto, uno a cui forse se si comporta bene – e comportarsi bene significa obbedire, significa accettare le condizioni imposte dalla cultura dominante, accettarne tutte le logiche di comportamento, tutti i linguaggi anche paradossalmente – e se ti comporti bene puoi avere qualche granello di diritto in più, altrimenti sei fuori, sei – scusate il termine universitario – fottuto. Io ho avuto un’altra fortuna perché ho sempre pensato che quando incontravo qualcuno che ma raccontava una storia, mi arricchisse, ma desse qualche cosa in più. Nel ’98 appunto, come ricordava Julio Monteiro Martins, formammo questo gruppo Scritti d’Africa, ed ebbi la fortuna di impattare in un’idea totalmente, radicalmente diversa di immigrazione con persone che si presentavano come scrittori. Mi metto a leggere i libri, i racconti, le poesie, e scopro delle cose splendide, anche delle cose che non valgono niente perché io non sono di quelli che dice che tutta la letteratura è grande in quanto tale. Scopro che ci sono delle persone capaci di raccontare delle cose importanti, che hanno delle cose importanti da raccontare, cosa che spesso la cultura europea non ha, che riescono a trasmettere qualcosa di importante e a immettere dei valori nuovi all’interno del nostro circuito comunicativo. In qualche maniera mi ubriacano cose del genere, mi trovavo piacevolmente costretto, nel momento in cui ero stufo di leggere autori italiani che raccontavano solo il proprio egocentrismo, la propria noia, la propria sconfitta e impotenza fondamentalmente, e mi trovo di fronte persone che fanno ridiventare importante la letteratura. La letteratura, come il teatro, come qualsiasi forma artistica, secondo me, o è necessaria – e per necessaria non intendo qualcosa di politico, intendo qualcosa di fisico, qualcosa che ti cambia la vita, che spinge il ragazzo di periferia che può essere nato a Roma o ad Algeri o a Durazzo, ma non è questo che conta, che porta però delle persone a cambiare la propria esistenza, o a sognare di poter cambiare la propria esistenza. Ecco, io in questo quadro vedo una ricchezza enorme e in questo quadro do un valore tremendo a tutti gli esperimenti che vengono fatti. Prima con Gabriella Ghermanti si parlava di El Ghibli, la rivista on line cui hanno dato vita: progetti del genere fanno bene a noi fondamentalmente, fanno bene a questa altrimenti museale cultura europea che ci ritroviamo, quanto meno la costringono a ridefinirsi, a guardarsi, c’è l’altro, c’è qualcos’altro che mi osserva e mi devo guardare, mi devo mettere in discussione, mi devo far venire il dubbio, non posso più permettermi il lusso – come dice un tipo che mi pare che faccia il presidente del consiglio – di essere rappresentante di una civiltà superiore. Non me lo posso più permettere. Ma non perché scrivo, semplicemente, mentre prima la mia tradizione era soltanto orale, ma perché immetto nel mondo in cui sto, qualche cosa che rende plurale ciò che prima era singolare. Una delle cose belle – vorrei stringere perché a me piacciono le situazioni raccolte in cui diventa molto possibile lo scambio – dei lavori che abbiamo fatto con Scritti d’Africa era questa raccolta Voci Migranti che consisteva in due antologie, due libri: un’antologia di racconti di scrittori migrati in Francia, in Spagna e in Italia che scrivono nelle rispettive lingue, e una serie di percorsi didattici dati nelle scuole. Questi libri li abbiamo portati in alcune scuole medie superiori di Roma, e li abbiamo utilizzati come momento di incontro con i ragazzi. Spesso c’era questa cosa che noi consideravamo come un gioco, perché c’era l’esperto di letteratura della migrazione e lo scrittore o la scrittrice migrante che si presentava a questi studenti e che raccontava se stesso. Io questi giri li ho fatti con un’amica comune che è Cristina Niffarà, di cui vi consiglio di leggere i racconti e non lo dico soltanto perché è una grande amica, ma anche perché ha dei livelli da raffinatezza nello scrivere che andrebbero in qualche maniera ripresi dagli scrittori italiani. All’inizio c’era difficoltà: hanno un’ora di tempo, era la solita noia, il solito dover passare un’ora diversa, però poi scoccava la scintilla che era dettata dal racconto, dal punto di vista che in qualche modo suscitava la curiosità magari di una ragazza, di un ragazzo. Beh, ci sono state delle classi in cui dovevamo restare un’ora e siamo rimasti quattro ore e non ci mandavano via, e non credo sia – apparte non credo per merito mio – non credo sia solo per merito della presenza mia e di Cristina quanto per il fatto che una sollecitazione al dubbio semplice, materiale, fatta su una storia, che non era il semplice racconto della propria esperienza di vita, era anche l’ironia, il gioco, erano un insieme di elementi che destrutturavano l’immagine che c’era dello straniero che c’era dentro quella classe. La destrutturavano radicalmente. Ricordo con particolare piacere una ragazza di 16 anni di una scuola della periferia romana – scusate se insisto con la periferia, ma per me è molto importante perché purtroppo il brodo di cultura di certi razzismi – una ragazza cosiddetta coatta, piena di trucco, l’aria molto aggressiva, che alla fine dell’incontro mi si avvicina e mi fa: “Aò, te posso di’ ‘na cosa? Io prima ero razzista ma non c’avevo capito un cazzo!”. Ora, io non credo che a questa ragazza sia cambiata la vita, non voglio sperare tanto, assolutamente non ho quest’illusione, farei altri mestieri se avessi questo tipo di illusione, però probabilmente per quell’ora, in quel momento, a quella ragazza qualche meccanismo è scattato. E io credo che le letterature che arrivano, le parole scritte che vanno anche dette, che vanno anche tirate fuori, che vanno pubblicizzate il più possibile – ci sono piccole case editrici che fanno uno sforzo enorme come la Besa, ma sono poche perché il mercato editoriale da questo punto di vista o c’ha il fenomeno o il mostro o lo scoop già preparato, magari falso – però se queste parole vengono dette, se i media si aprono a parlare di queste cose, a parlarne, non dico a incensarle, beh, io credo che dei piccoli passi in avanti così come quello che in quel piccolo momento è avvenuto in quella piccola classe di Cinecittà, se ne potrebbero fare parecchi altri.
(Applausi del pubblico)
Julio Monteiro Martins:
Bene, ora lascio la parola ad Artur Spanjolli.
Intervento di Artur Spanjolli:
Scusatemi perché io non mi sono mai trovato in questi ambienti, apparte a Lecce dove eravamo insieme, però se mi scappa qualche gaffe…scusatemi per l’emozione!
Dunque, sono nato a Durazzo nel 1970, sono cresciuto in un ambiente comunista, e quando ho fatto il liceo artistico, studiavo scultura che ho sempre adorato. Poi quando ho compiuto vent’anni le cose sono cambiate nel mio paese, sono cambiate molto rapidamente, non ci si aspettava perché è un processo che prima è cominciato negli altri paesi dell’est, poi per ultimo è toccato anche all’Albania cambiare sistema. Dunque da quel momento in poi tutti i giovani arrabbiati che aspettavano da anni che cambiasse qualcosa, hanno trovato questa possibilità di fuga, di conoscere il mondo che non conoscevano da quando erano nati. Un Occidente visto sempre attraverso la tv, la Rai d’estate perché d’inverno bloccavano le onde e invece d’estate non potevano perché erano troppo potenti e si poteva vedere la Rai. Poi io non ho preso le navi, come hanno fatto i miei amici, per scelta mia personale, perché volevo più dignità, poi non ero neanche preparato come persona per fare questo viaggio, questa fuga. Quindi in quel senso sono maturato un paio di mesi dopo l’esodo di massa. Prima ho studiato a Scutari un anno, ho fatto lettere, poi sono andato a Tirana, poi ho partecipato a un concorso organizzato da Rai Tre, si chiamava “I giovani incontrano l’Europa” a cui avevo partecipato con cinque poesie e un racconto e poi mi è arrivato il telegramma dall’ambasciata italiana in cui si diceva praticamente che avevo vinto questo concorso e dovevo venire in Italia per ricevere questo premio e poi, il viaggio consisteva di dieci giorni e poi tornare di nuovo nel mio paese. Ho preso il visto e sono venuto in Italia e ovviamente ho trovato una grande differenza non dico di cultura perché in dieci giorni non si può conoscere il mondo interiore di un’altra cultura, però ho trovato già a livello visivo due mondi totalmente diversi, il mio con un comunismo tra virgolette stupido,perché il nostro dittatore aveva condotto il paese verso una spirale buia senza futuro, e poi ho incontrato questo nuovo mondo e non è che sono stato abbagliato da questa luce nuova che io vedevo così a prima vista benissimo, dato che mi hanno subito in un albergo a quattro stelle, poi da lì una serie di incontri tra giovani di culture diverse eccetera, quindi ho deciso di rimanere in Italia. Non sono più tornato e invece di riprendere l’aereo per tornare in Albania, mi sono sistemato a Firenze dai miei cugini, e lì poi mi sono iscritto all’università di Firenze, avevo sempre la fissa di scrivere. A quel tempo avevo scritto tre volumi di poesie inediti, in albanese. Comincio l’università a Firenze e nel frattempo ho anche cominciato a dipingere per mantenermi, e da lì poi è cominciata una fatica nuova: praticamente cambiare lingua, un vero problema, perché purtroppo noi che scriviamo abbiamo bisogno di questo mezzo linguistico. È diverso, se uno fa il pittore ha un mezzo universale, se uno fa musica, pure, se invece scrivi un libro in un’altra lingua è una grossa fatica, veramente. Da lì ho cominciato a esercitarmi nelle letture italiane, non mi piacevano quei pochi scrittori italiani che leggevo apparte alcuni, e non mi interessavano nemmeno. Quindi leggevo per forza le traduzioni, me lo sconsigliavano i professori dell’università, dicevano “così impari un italiano poco sano”, ma io continuavo. Così ho scoperto diversi classici, dal ’94 al 2000, un percorso di sei anni, nel ’95 ho scritto un romanzetto in italiano, una storia basata sui racconti di mio nonno, che avevo chiamato “La pioggia di un’alba luttuosa” perché è la storia del villaggio da cui proviene la mia famiglia,ed ero orgoglioso di proporre qualcosa di mio in italiano, però ora quando lo leggo mi metto a ridere per la semplicità e l’ingenuità con cui avevo trasmesso questa storia. Ce l’ho ancora a casa, aspetta il momento, spero che se in seguito la Besa lo vorrà, io lo proporrò…
Dunque “Cronaca di una vita in silenzio” l’ho scritto in albanese nel 1993 e tratta di una storia famigliare. Sono partito da Márquez, perché quando sono partito con questo libro adoravo lo scrittore latino-americano. Sono partito da “Foglie morte” di Márquez. A suo tempo anche Márquez era partito da un altro scrittore, da un americano, Faulkner che aveva scritto un’altra storia intitolata “Mentre morivo” che aveva affascinato Márquez al tempo, quando aveva 25 anni, come Márquez aveva affascinato me con questo suo libro. In pratica, sono partito con l’idea della narrazione sotto forma di monologo, poi a causa dei nonni materni, si parla di una numerosissima famiglia con 56 componenti di cui nove raccontano la storia del libro. Noi eravamo soliti stare in questo retrocucina vicino al fuoco dopo cena in un insieme di racconti, di storie quotidiane, di confessioni…e mi è sempre piaciuto questa idea di stare tutti insieme, come ora. E ho pensato di ambientare il libro in questo retrocucina. Ho messo nove personaggi che per quindici minuti stanno in silenzio, non parlano perché da due mesi è morto un componente della famiglia, un giovane trentasettenne, un mio zio praticamente, e questi personaggi si riuniscono una domenica pomeriggio per commemorare, per stare insieme, e in questo quarto d’ora non parlano. Allora a me è sembrata abbastanza interessante questa soluzione, diciamo, per quanto riguarda la parte tecnica. E ho dedicato quindici minuti di silenzio a ogni personaggio, sono nove, e in questi quindici minuti i personaggi raccontano la storia famigliare a me stesso che sono il più piccolo lì che racconta, avrò più o meno 17 o 18 anni, ma non è preciso, e ho dedicato tre capitoli: il primo per introdurre questi personaggi, i famigliari, al centro del romanzo un altro capitolo e uno alla fine per la chiusura della storia. Poi ho cominciato con il primo capitolo, poi c’è uno zio di mio nonno di 90 anni che fa parte del secondo capitolo che racconta i tempi del re Zog, il re albanese autoproclamatosi re che ha regnato sull’Albania. Lui racconta la storia dal 1916 fino al 1939, con la venuta di Mussolini e degli italiani. Così facendo questo gioco di monologhi ho ricomposto le memorie di una famiglia dal 1914 al 1992 con la caduta del regime e con la fuga all’estero. È abbastanza ampia e complessa come storia perché non è lineare, è spezzata perché ogni componente racconta la sua storia, la storia di famiglia, però racconta la storia del defunto che sta al centro del libro. E lo zio defunto, innominato perché io non ho voluto mettere il suo nome perché non è più tra di noi e mi sembrava il mínimo – ecco, questo defunto praticamente come giustamente ha notato anche il professor Taddeo nel suo articolo uscito su El Ghibli, il defunto viene rievocato nel romanzo per una particolarità sua, una bontà che andava oltre i limiti delle possibilità della nostra famiglia, era di una bontà unica. Mi aveva sempre messo in silenzio questa sua bontà, no? Poi in cambio lui non cercava niente, solo faceva del bene quanto poteva e faceva delle cose, non si trattava di aiuti piccoli… per esempio ha costruito un sacco di case, costruire case non è una cosa facile, costruiva case per suoi cugini, sue sorelle, fratelli, e questa sua bontà è stata uno degli spunti più forti per costruire questa storia. Questi signori che raccontano la storia famigliare lo hanno conosciuto tutti personalmente e ognuno col suo punto di vista parla di lui. Questo per quanto riguarda la tecnica narrativa. Per quanto riguarda la storia, difficilmente ne posso parlare in una narrazione semplice perché è troppo spezzata; in pratica quando si tratta sempre di una storia di memorie, di solito piace giocare con il tempo, si rinuncia al racconto lineare e si cerca di fare questo gioco con il tempo, andata, ritorno, perché questo ti permette di riflettere sul fatto stesso del tempo, e questo l’hanno fatto tanti grandi scrittori, Borges per esempio ha delle riflessioni sul tempo che sono bellissime, come sull’eternità. C’è anche una dimensione fantastica nel libro, perché questi racconti di mio nonno che mi affascinavano sempre e mi affascinano ancora - quando torno in Albania sempre voglio sentire queste storie perché sono semplici, incisive e bellissime e mio nonno è convinto che sono storie vere, storie di fantasmi…- e ho messo degli elementi interessanti in questo libro. È una parte di una trilogia perché in questo libro non mi sono soffermato su molti dettagli, ho parlato in generale, anzi se notate bene, a parte c’è la risonanza di un coro,è un romanzo corale, come Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot, in cui parla di omicidio, anzi per certi versi penso che questa lettura che ho fatto diversi anni fa, per certi versi sono rimaste le tracce nel libro.
Entro aprile uscirà un secondo romanzo, breve, di 70 pagine, sempre per la Besa, in cui non ho raccontato cento anni di storia, ma mi sono soffermato su sette giorni e questo mi ha permesso di avvicinarmi e descrivere più dettagliatamente quello che succede in una settimana in una famiglia di usanze patriarcali, una famiglia musulmana. Anche qui la religione è soffocata dal comunismo, si tratta di un forte desiderio di tener vivo il senso religioso più che di dare un’identità a questa religione. Preferisco non parlare molto del secondo romanzo perché è molto complesso anche parlarne, perché si tratta di un quaderno di un religioso dello stesso ceppo familiare riaffiorato dai ruderi. Ritrovano questo quaderno negli anni Settanta, lo ripuliscono, e lo leggono sempre vicino al fuoco, leggono ogni capitoletto ogni sera, così per sette sere e ricavano la saggezza religiosa del parente defunto vissuto 200 anni fa.
Il terzo romanzo invece, intitolato Preludio d’autunno, ma non so se sarà il titolo definitivo perché è difficile trovare titoli! Umberto Eco dopo aver scritto Il nome della rosa per quanto ne so ci ha messo un po’, ha fatto una lista di titoli e non riusciva a trovare quello giusto. Anche nella terza parte della trilogia non mi sono soffermato, o meglio, diciamo che è una via di mezzo tra questo libro dalla dimensione temporale di quasi cent’anni… il terzo libro ha una dimensione temporale di circa quarant’anni sempre con questi giochi temporali come faceva anche Faulkner cui piacevano molto questi giochi..
Ecco, questa è l’introduzione… non so se sono stato capace o no…
(applausi)
Julio Monteiro Martins:
Ieri parlavamo della questione della creazione, della soggettività universale… uno scrittore del sud degli Stati Uniti come William Faulkner che ha cercato di scrivere la tragedia del sud del suo paese, ha influenzato il modo di scrivere di un colombiano che ha creato attraverso la storia una tecnica – anche Garcia Márquez diceva che raccontava sempre le storie che sentiva da sua nonna – e Garcia Márquez è arrivato in Albania da un autore che viene a scrivere in italiano…mi sembra un percorso quasi miracoloso che fa la letteratura, è come se avesse una sua autonomia, quello che vuole essere scritto, che vuole manifestarsi… mi ricordo una frase molto bella del Nuovo Testamento su un dialogo tra Gesù e Pietro, in cui Gesù dice “Non sai andare a spargere la parola?” e Pietro dice “Ma io non parlo nessuna lingua straniera…” e Gesù replica “Ma tu vai, perché lo spirito soffia dove vuole”. E questo spirito che soffia da sud degli Stati Uniti parte dalla Colombia e arriva in Albania, a me questo pare una cosa miracolosa!
Stefano Galieni:
Forse può sembrare un po’ banale, ma se uno ci pensa anche guardando dall’alto, la letteratura è viaggio, quindi contaminazioni di epoca in epoca o di spazio in spazio. E non è che c’è un’origine… un’altra di quelle cose con cui ci imbottigliano la mente è che esistano delle origini, che esista una punto x da cui parte tutto… non è vero! Secondo me è inevitabile che chi scrive abbia letto, abbia ascoltato storie, che sia stato sovrastato dalla parola…
Sandra Ponzanesi:
Che è poi quello che in termini un po’ accademici si chiama intertestualità, cosciente o incosciente…
Julio Monteiro Martins:
L’inconscio individuale è stato così studiato da Freud e tanti altri, mentre l’inconscio collettivo oltre a Jung… mi viene in mente per esempio che ci sono dei “sertanistas”, funzionari del governo in Brasile incaricati di fare il primo approccio a tribù che non sono mai entrate in contatto con la nostra civiltà, perché in Brasile ci sono ancora popolazioni che non hanno mai visto niente di “storico”... Una storia di una di queste tribù è che la tribù stessa abbia avuto origine da un figlio cattivo che abbia ucciso il fratello buono… è incredibile! Caino e Abele…
Gabriella Ghermanti:
C’è un libro sull’arca dell’alleanza, c’è tutta questa cosa che si racconta che l’arca dell’alleanza sia in Etiopia, le tavole sacre… ma nessuno sa se sia vero o no, però ci sono addirittura degli archeologi che lo danno per certo… e c’è uno che ha scritto un libro su questo e racconta di una favola che dice perché la luna abbia questa macchia: la luna diceva al sole “io sono più bella, ho una luce per cui tutti mi possono guardare” ad un certo punto il sole si è arrabbiato, ha preso dello sterco di vacca e glielo ha tirato… e dopo ho scoperto che la stessa favola si racconta in Sardegna, e poi qualcuno mi ha detto che questa favola esiste in parecchie parti del mondo, però esattamente identica!
Stefano Galieni:
Beh, c’è uno scrittore nigeriano che ha studiato a Siena e ha scoperto che alcuni elementi fondamentali non di una favola, ma di un testo letterario, Pinocchio di Collodi, erano identici a un mito yoruba in Nigeria, un personaggio con la testa di legno, un bambino discolo…
Gabriella Ghermandi:
Mi viene un po’ da pensare “ma che ci facciamo noi qua?”, nel senso che tutto è già stato detto in qualche maniera…
Stefano Galieni:
No, noi continuiamo a dirlo, e continuiamo a farlo, soprattutto!
Gabriella Ghermandi:
O a mantenerlo vivo?
Stefano Galieni:
No, continuiamo a farlo, è diverso, perché mantenere vivo è la sopravvivenza di un qualcosa che è stato e che non ha più valore. Secondo me dobbiamo farlo…
Gabriella Ghermandi:
Cioè?
Artur Spanjolli:
Metterlo in atto…
Stefano Galieni:
Metterlo in atto, esatto! Se accettiamo l’idea che il pensiero unico sia vivere-consumare, vivere-consumare, e perdiamo l’idea della narrazione, l’idea dei mille legami, credo che come specie umana saremmo in estinzione.
Julio Monteiro Martins:
Inoltre io penso che uno dice “tutto è già stato detto” si sbaglia. Io penso próprio il contrario. Ci sono stati tanti di quei cambiamenti epocali negli ultimi trent’anni che l’arte non è riuscita a seguire, ad inventare, produrre mitologie, il modo di reinterpretare questi fatti. E la cosa sta un po’ perdendo il controllo, nel senso che l’uomo del 2004 non ha gli strumenti sufficienti per fare un approccio vero a questo millennio. Secondo me il compito del narratore è proprio fissare questi momenti storici.
Gabriella Ghermandi:
Tornando al romanzo di Artur, questo fatto delle nonne e dei nonni…
Sandra Ponzanesi:
Secondo me è una questione di oralità, no? Le storie che loro raccontano sono sempre nuove, però c’è bisogno della sorgente e la dà il nonno, no?
Gabriella Ghermandi:
Io però vorrei sentire una storia di tuo nonno (rivolgendosi a Spanjolli) perché tu hai detto che lui è convinto che le storie sui fantasmi siano vere…
Artur Spanjolli:
Sì… anche perché i nonni hanno più tempo libero. I genitori devono lavorare per mantenere i bambini. I nonni hanno anche la saggezza, cioè il modo di raccontare è maturo , molto più maturo.
Gabriella Ghermandi:
È uno che ha già visto tanto…
Artur Spanjolli:
Sì, è questo.
Spettatore Alessandro Agus:
Ha un vantaggio di poter dire ciò che tu non puoi sapere…
Gabriella Ghermandi:
A me quello che piace molto degli anziani quando raccontano è il sentimento che loro mettono e che impregna tutto il racconto e te lo fa sembrare come una cosa molto affascinante perché tutta la loro vita sta lì dentro. È pieno di emozioni e di vigore emotivo, e vorresti anche tu essere lì dentro ad aver vissuto quelle cose che hanno vissuto loro perché te le raccontano in un modo così appassionato…
Julio Monteiro Martins:
Io invece vorrei tornare alla questione dell’inconscio collettivo. C’è stata una psicanalista brasiliana chiamata Nise da Silveira, morta pochi anni fa. Lei ha passato tutta la sua vita creando dei centri in cui gli psicotici, malati di mente, chiamateli come volete, creassero arte. Ed è stata forse la persona che ha raccolto lungo diverse letterature l’arte vissuta nei manicomi. A Rio c’è il museo Nise da Silveira in cui c’è una mostra itinerante dove sono stato con Cristiana. Poi Nise da Silveira ha fatto un libro in cui ha raccolto i dipinti e tutte queste opere presentano i simboli della mitologie, di tutte le mitologie, greca, e si tratta di dipinti di analfabeti, psicotici brasiliani, che nei loro dipinti hanno ricreato la mitologia universale. Questa è una cosa veramente impressionante, lei ha scritto su questo, cioè come secondo lei, seguendo il suo maestro Jung, le strutture archetipiche sono profondamente radicate nell’essere umano, in qualsiasi essere umano. È molto bello quello che ha scritto…
Intervento della spettatrice Oriana Rispoli:
È anche un fatto transculturale, no?
Julio Monteiro Martins:
Esatto, transculturale, perché non potevano conoscere… faccio un esempio, quando uno crea un determinato quadro non ci fa caso, lei che era una conoscitrice profonda della storia mitologica del mondo, identificava questi paralleli, ma non era che trovasse delle coincidenze, all’interno di questi dipinti, no, erano proprio una rappresentazione fedele nei dettagli. E pensare a cosa c’è dietro a questo, a qual è la fonte da cui nascono queste grandi storie, mi viene quasi la vertigine, è una cosa molto affascinante.
Stefano Galieni:
A me, scusa, viene da pensare il contrario, ovvero che alcune condizioni sono così generali, diffuse, per cui non esiste prima l’archetipo e poi l’individuo che lo rappresenta, ma l’individuo di per sé è l’espressione dell’archetipo in continuazione.
Però volevo tornare alla questione dei nonni, per una cosa molto importante secondo me. In Europa gli anziani sono disprezzati all’ennesima potenza, o quanto meno ignorati, tant’è che molti miei amici palestinesi, magrebini, delle varie comunità che frequento che mi dicono: “ma non vi vergognate voi di come non rispettate i vostri genitori, i vostri anziani?”, e devo dire che più di una volta mi hanno fatto arrossire, al di là di alcune forme di patriarcalismo. Uno scrittore noto, Daniel Pennac, mi raccontava tre anni fa circa un esperimento avviato nel quartiere dove ambienta i suoi romanzi, anche questo con profondi problemi. Ora, i bambini che vanno a scuola, imparano pochissimo, anche per il degrado dell’istruzione, e imparano soltanto a comunicare con il resto del mondo con strumenti molto bassi. Hanno attuato attraverso il comune degli esperimenti di “babysitteraggio” per cui c’erano degli pseudo-nonni che si mettevano a disposizione di questi bambini che altrimenti sarebbero rimasti da soli perché i genitori impegnati nel lavoro non potevano seguirli. Ecco, l’immediato rapporto è stato quello di raccontare storie, e il tasso di alfabetizzazione reale, che è quanto sei realmente in grado di esprimerti nella tua lingua, è salito vertiginosamente, pare anche con grande soddisfazione dei bambini stessi. Non penso che siano realtà che si possono prendere e reintegrare ovunque, però qualche cosa mi fa venire in mente. Forse potrebbe essere un risolvere o un affrontare quello che diceva Spanjolli. Io sono anche convinto di un fatto, esistono ragioni scontate per cui c’è analfabetizzazione in paesi del nord, perché si vuole l’individuo solo consumatore, perché non c’è tempo da perdere per imparare storie, non serve niente. Ma esiste anche un meccanismo di dominio sulle coscienze, cioè meno sei in grado di relazionarti col mondo in maniera dubbiosa, meno hai una memoria del passato e più sei manipolabile. Racconti, storie, narrazioni, comunicazioni diverse fanno tabula rasa anche del miglior spot televisivo, secondo me.
Gabriella Ghermandi:
C’è anche un’altra cosa, secondo me, che la letteratura, cosi come la narrazione, una delle prime cose che colpiscono è il cuore. E nel momento in cui riconduci le cose al cuore, il cuore ha la capacità di porre il dubbio e la stimolazione delle emozioni ha una funzione incredibile sull’individuo, quella di mantenerlo presente. Quindi il fatto di mantenerlo in una situazione consumistica piuttosto che in una situazione di viaggio all’interno di quello che può essere il racconto, il romanzo, le storie… è un modo per tenerlo al di fuori di se stesso, prima di tutto.
Stefano Galieni:
Se avessimo le storie, realmente, secondo me, le idiozie non avrebbero spazio nel nostro cervello…
Julio Monteiro Martins:
Io penso sempre di più che parlando del bisogno della letteratura, l’urgenza della crescita della letteratura, io la vedo – e parlo di tutta l’arte in generale – come unico possibile antidoto efficace all’omologazione universale delle soggettività, l’unico antidoto alla pubblicità, nel senso più ampio della parola. E c’è un’espressione di Kundera che mi piace tanto, parla di scrittori che hanno abbandonato la narrativa per lavorare nelle agenzie di pubblicità: “I collaborazionisti del moderno”, l’unico modo per cui loro hanno tutto lo spazio istituzionale e commerciale per comunicare. Noi dobbiamo aprire gli spazi per l’antidoto a questa forma di comunicazione che altrimenti sarà il pensiero unico totale.
Artur Spanjolli:
Io mi sono chiesto spesso perché la Francia deve avere scrittori provenienti da altre culture e invece l’Italia non è ancora arrivata a questo.
Stefano Galieni:
Bravo, bellissima domanda! Io ti do una risposta secca. L’80% del mercato editoriale è in mano a una persona sola che di immigrati non ne vuol sentire parlare…
Artur Spanjolli:
Io credo in una cosa, masticando i messaggi che vengono da culture diverse ci si arricchisce di più, i francesi questo l’hanno capito molto tempo prima, cioè praticamente ricevendo questi intellettuali stranieri loro si arricchiscono,poi forse sbaglio…
Stefano Galieni:
Hai proprio ragione…
Intervento dello spettatore Alessandro Agus:
No, l’Italia è l’Italia, è l’Italia papista in cui non vorresti che ti intubi in un posto che non ti dà libertà, chiuso in due sensi: chiuso a te e chiuso per te, cioè tu non vieni in Italia per diventare scrittore.
Artur Spanjolli:
Ma ora secondo me le cose stanno cambiando. C’è una maggiore apertura perché è inevitabile.
Stefano Galieni:
Però i tempi vanno forzati. Non bisogna accettare…
Spettatrice Oriana Rispoli:
Ma secondo me ci sono anche delle differenze tra l’Italia e la Francia, questioni di natura storico-politica, cioè il rapporto tra la Francia e le sue colonie è stato talmente forte che adesso è come se la Francia pagasse un debito nei confronti delle sue colonie mentre noi invece…
Stefano Galieni:
Abbiamo rimosso…
Spettatrice Oriana Rispoli:
Sì, abbiamo rimosso ma non c’è stato alcun rapporto sul piano culturale tanto più con quei pochi paesi…
Artur Spanjolli:
A proposito, negli anni Trenta sotto il governo di Mussolini in Albania invece di tradurre qualche autore albanese dell‘epoca, è stato mandato Indro Montanelli che ha scritto un libro sulla cultura albanese poi pubblicato in lingua italiana, chiamato “Mille e una storie” o una cosa del genere perché l’ho letto in albanese e non so i titoli. L’ho saputo due mesi fa, prima non lo sapevo.
Spettatrice Oriana Rispoli:
Dobbiamo tener presente anche un altro fatto. Uno o due anni fa è stato fatto un convegno sugli scrittori dei paesi del Nord Africa che sono appartenuti sostanzialmente alla cultura letteraria francese. Un’analisi più approfondita sull’opera di Camus ha per esempio messo in evidenza che in realtà anche in questi scrittori c’è una mentalità razzista… per cui c’è ancora un gradino rispetto a questi scrittori come te che fanno quest’esperienza adesso di integrazione culturale verso i paesi europei. Per cui c’è sempre una situazione molto complessa da analizzare anche con un po’ di distacco per capire bene questi fenomeni non solo culturali ma anche antropologici, come dicevamo prima.
Domanda di Cristiana Sassetti:
Io sono rimasta incuriosita dalle tante cose che ha detto Spanjolli, volevo farti due domande. Prima mi piaceva capire perché hai deciso di usare il monologo per questo tuo romanzo, poi mi sembra di capire che ti interessa molto la memoria, il passato, così giovane… hai la mia età praticamente… volevo capire che tipo di rapporto hai col passato e se è un modo per recuperare la lingua, la storia…
Artur Spanjolli:
Sì, ho usato il monologo per il fatto che solo attraverso il monologo si può scoprire meglio la dimensione interiore del personaggio. Poi scoprendo nove mondi interiori all’interno di un nucleo familiare… mi è sembrato ancor più affascinante. Qui in questo libro ci sono dei messaggi fondamentali, qualcuno li chiama giustamente patriarcali, arcaici, però il genere umano mostra che ha bisogno di certi cose essenziali senza cui non si può sopravvivere, tipo stare insieme, una delle cose essenziali della vita. Quindi ho pensato che solo con il monologo potevo esprimere questo mondo arcaico albanese. Poi per quanto riguarda la mia passione per la memoria alla mia giovane età, che anche la giornalista ha notato…io sono partito da elementi veri, fatti realmente accaduti poi li ho arricchiti con la mia fantasia, giustamente, e credo che bisogna riproporre la memoria, magari bisogna riproporre i lati positivi della memoria di una famiglia, di un individuo della famiglia, di un gruppo sociale, ma bisogna riproporre i lati positivi della memoria. Questo per me è fondamentale. Quindi in un articolo di un giornalista cita un brano del libro:
“Per me le feste religiose sono sempre state quelle degne di essere celebrate, non quelle…che i comunisti ci hanno imposto. E mai nessun potere, nessun governo, nessuna ideologia, nessuna filosofia riuscirà a farmi cambiare idea sull’esistenza di Dio”. E in definitiva, il vero vincitore è lui, Meta, che nonostante il terribile lutto di dover seppellire un figlio, ha costruito laddove altri sono stati solo capaci di distruggere. Un messaggio forte e positivo per una civiltà sempre più disumana, veramente un romanzo classico per tempi moderni.
Ecco io mi volevo soffermare sul senso di disumanità della globalizzazione, di questa avidità umana che viviamo.Quindi un messaggio forte nel romanzo è il fatto che ripropone degli elementi sempre validi, la dimensione umana è molto evidente nel romanzo. Quindi penso che la memoria va riproposta.
Domanda della spettatrice Monica Francioso:
Io vorrei farti una domanda. Hai detto che hai scritto il romanzo nel ’93 in albanese. Poi cos’hai cambiato?
Risposta di Artur Spanjolli:
Sì, l’ho scritto in un albanese molto ingenuo perché non ero uno scrittore professionista, maturo. L’ho scritto e l’ho lasciato nel comodino. Poi ho aspettato sette anni per maturare il mio italiano, fino al 2000 quando ho ripreso il dattiloscritto, ho cominciato a tradurlo dall’albanese cambiando molto, poi l’ho scritto in italiano. L’ho finito, l’ho corretto, ma erano correzioni leggere che non toccavano lo stile. Poi l’ho riscritto in albanese, poi di nuovo in italiano, in una spirale di miglioramento…tutto qui…
Domanda della spettatrice Monica Francioso:
Come mai lo riscrivevi in albanese? Era per aggiustare un po’ la storia?
Risposta di Artur Spanjolli:
Perché il mio editore aveva l’intenzione di pubblicarlo anche in Albania. Quindi io ci tenevo a tradurre l’opera da me. E ora non saprei dire se l’opera è uscita in albanese o in italiano!
Gabriella Ghermandi :
Comunque è una cosa meravigliosa che uno possa scrivere così, perchè solo chi scrive e ha la padronanza delle due lingue può rendere nell’una o nell’altra lingua!
Oriana Rispoli:
E poi è una cura manzoniana!
Artur Spanjolli:
Il messaggio è lo stesso, solo che l’italiano è molto più ricco dell’albanese linguisticamente, l’albanese è più conciso come idea, come l’inglese, e non ti permette il gioco delle coloriture.
Sandra Ponzanesi:
Ma la ricchezza del lessico che tu percepisci è dovuta al fatto che è una lingua nuova o…?
Risposta di Artur Spanjolli:
Potrebbe essere perché io lo scopro e poi c’è un altro fatto che l’editore ha messo in evidenza. Io la lingua della cultura l’ho appresa in Italia.
Julio Monteiro Martins:
Avrei una domanda da fare a Stefano Galieni che dal ’98 lavora come giornalista guardando questo sviluppo della letteratura della migrazione in Italia. La ricezione di questa letteratura dal punto di vista della stampa, delle case editrici, e dal pubblico in generale e dall’ambiente accademico, è cambiata in questi ultimi sei anni?
Risposta di Stefano Galieni:
Per rispondere parto da due problemi di base. Le concentrazioni editoriali che permettono solo ad alcuni di scrivere e di essere pubblicati, di essere visti realmente. Se voi entrate in una libreria l’80 % vale tre case editrici, e il secondo problema è il meccanismo infernale delle istituzioni, cioè una casa editrice come Besa che pubblica cose di grande valore, davvero, è confinata spesso in spazi angusti delle librerie perché il libraio non prende neanche in considerazione la proposta dei distributori. A livelli quasi paradossali tu vai a chiedere un libro e ti dicono che non c’è, in realtà poi scopri che c’è perché uno spazietto angusto il piccolo editore è riuscito a ritagliarselo ma tu non lo vedi, e questo un problema valido per tutti i piccoli editori e il dramma è che piccoli editori e scrittori migranti coincidono quasi sempre. Quasi, a volte capitano casi, che sono dei piccoli casi, che non vengono considerati come parte di un fenomeno più complesso ma come casi isolati, quasi come meteore. C’è stato, intorno al 2000-2001, un momento in cui c’è stata un po’ un’esplosione, la scoperta, la fase della scoperta, poi una fase di acquietamento, forse anche perché rispetto alla questione immigrazione premeva ricostruire un’immagine miserabilistica. Adesso, secondo me, molto più per meriti di chi scrive che per meriti degli editori, di pubblica parte, per lo sforzo che viene fatto, si ricomincia a sentire qualche cosa di positivo. Si ricomincia a sentire grazie ai siti on line, preziosissimi, che consentono di abbattere queste frontiere, si ricomincia a sentire perché, non c’è niente da fare, anche se i vari Borghezio non sono d’accordo, ci sono tanti scrittori e scrittrici che ormai sono qui in Italia da tanti anni e sono in grado di competere anche in termini accademici con quelli di provata nascita lombarda… e esiste una sorta di interessante offensiva, secondo me, ancora frammentaria, che presenta un limite secondo me che è quello di essere ancora, come avviene in tutti i fenomeni di questo tipo, un po’ troppo spezzettata. A Roma ci è capitato di organizzare convegni da cui sono passati parecchi scrittori anche quelli che ormai vanno per la maggiore nel nostro mondo, però questi scrittori dialogano poco tra loro e invece è importantissimo il dialogo, in quanto dà la misura che qualcosa si muove, del movimento letterario vero e proprio, come una volta c’erano le correnti letterarie non perché siano omogenei…io non ho letto il libro di Spanjolli, e lo leggerò molto volentieri, però ho letto autori diversi dello stesso paese e parlano di cose diverse. Si ha una pluralità e non una omogeneità da raccontare e non c’è solo il racconto dell’emigrazione, c’è il racconto del “cosa vedo in Italia”, del “come vivo in Italia”, quindi approcci molto complessi che non possono essere rinchiusi nel grande contenitore della letteratura della migrazione, è qualcosa di più fluido ma più magmatico che potrebbe riuscire a decolonizzare, come dice qualcuno, la nostra letteratura. Per quanto riguarda le reazioni, anche questa è una nota dolente, perché anche questo è un limite pesantissimo. Quand’è che un libro arriva sul tavolo del recensore, su quale tavolo arriva?se voi andate nelle redazioni culturali dei maggiori quotidiani, trovate tanti di quei libri che non verranno mai letti, io so di un noto recensore che li rivende usati, non faccio il nome per pudore, e che non li legge. Noi, come operatori dell’informazione, siamo indietro. A me piace pensare – sto pensando a bocca aperta quindi prendetela come una provocazione – a n gruppo di scrittori migranti che organizza un seminario di formazione per giornalisti che si occupano delle pagine culturali. Non so quanti risponderebbero, ma considero i giornalisti l’anello debole della catena tra scrittori ed editori. Potrebbe essere un’ottima idea perché manca proprio la formazione perché chi recensisce il libro spesso lo fa da macchinetta…
Julio Monteiro Martins:
Ma non credi che ci sia anche molta ignoranza ma forse anche poco interesse a fornire un’immagine alta di questi scrittori? Io vedo per esempio, quando c’è uno che arriva con difficoltà e presenta una breve autobiografia che è una cosa molto importante, una testimonianza, ma c’è più buona volontà riguardo a questo, perché come dicevi tu conferma l’immagine miserevole, di uno scrittore che produce letteratura alta, con uno stile complesso. Per assorbire questo altro fatto bisogna ammettere allora che quelli sono…
Gabriella Ghermandi:
Finchè sei nello scalino più basso…
Julio Monteiro Martins:
Allora va bene, lì possono dire “bravissimo, ha fatto una cosa meravigliosa”…
Gabriella Ghermandi:
Io sono molto d’accordo con quello che ha detto Stefano perché noi dovremmo stare tutti uniti e fare un movimento che alla fine non potranno non sentirci. Questa alla fine è l’arma più forte che abbiamo, perché siamo tanti, sparsi in tutta Italia e l’essere collegati è una delle nostre armi, proprio come una forma di lotta!
Stefano Galieni:
Io volevo dire una cosa. La cultura europea in generale, quella italiana per sue piccole miserie in particolare, ha un razzismo strutturale, di fondo, è terribile, che non è quello dell’apartheid, non è quello della violenza, è molto più profondo e infido, fatto di una serie di gerarchie, fatto di sdegno, di dare valore diverso alle cose a seconda di chi le commette. Una mia collega di una testata toscana – le testate provinciali sono fantastiche in questo senso – mi ha portato due articoli, uno su un furto di un motorino fatto da ragazzi italiani, “una ragazzata”, uno su un furto di motorino fatto da un ragazzino albanese, “allarme immigrazione”…stesso giornale, eh!? Ebbene, è una forma di razzismo strutturale, che condanna la cronaca, crea l’immaginario collettivo e impedisce che si possa ragionare. Ho un’amica stupenda che abita a Prato, ha uno stipendio più alto del mio, è di Santo Domingo, molto impegnata in politica…
Julio Monteiro Martins:
Mercedes Frias?
Stefano Galieni:
Sì, proprio lei!
Julio Monteiro Martins:
Ieri Lanfranco Binni ci ha parlato di lei!
Stefano Galieni:
Lei mi raccontava, ridendo, “a me capitava fino a poco tempo fa che gli italiani mi portassero sotto casa dei pacchi di vestiti perché io in quanto negra ero povera”. Questo è classico, ma se noi non ci liberiamo di questo…
Gabriella Ghermandi:
Avete presente quella famosa storia di Imbarazzismi di Kossi Ebri, una storia stupenda di lui che va in treno ed è del Togo, proprio di quegli africani scuri scuri. Si siede e un signore accanto a lui vuole assolutamente parlare con lui e attacca “you american, african? Par-la-re i-ta-lia-no?” e questo tira su La Repubblica che sta leggendo, ma l’altro insiste: “Tu da che paese venire?”, allora lui risponde “ Io Togo”. Questo ci pensa e gli fa: “forse in tuo dialetto dire Togo, noi in italiano dire Congo”! cioè,è una cosa terribile.
Julio Monteiro Martins:
In“Sommersi e salvati”, Primo Levi racconta una cosa che mi ha colpito, cioè quando partivano dall’Italia i treni per la Germania, anche con persone borghesi a bordo, la prima cosa che i tedeschi facevano era non permettere a queste persone di andare in bagno. Allora queste persone dovevano fare i propri bisogni davanti a tutti, e questo è stato il primo colpo alla dignità. Gli altri cercavano di prendere camice e pantaloni per fare una sorta di tenda per le persone. Cinquant’anni dopo ho saputo che a Lucca, alla questura, ci sono delle code enormi la mattina presto per poter avere i documenti per il permesso. Le code sono dovute al fatto che uno possa essere più sicuro di avere i documenti, ma uno deve essere lì il giorno prima, a mezzanotte, e non ci sono bagni, e quelli della questura non permettono a chi è in coda di andare in bagno ! Allora questo è un simulacro tremendo, annacquato, di Auschwitz! Sono piccole cose della società italiana, le piccole umiliazioni, e a partire da quello uno che ha subito per un periodo questo tipo di umiliazione, non riesce a guardare l’altro nello stesso modo, a stare in piedi con la stessa forza…
Stefano Galieni:
O comunque devi sempre dimostrare di essere sempre al pari della persona che hai di fronte. Però, scusate, a volte capitano anche dei casi divertenti. Mohammed, pakistano, operaio metalmeccanico a Bergamo, mi dice :”Stefano, io li do i volantini ai miei compagni operai, ma i bergamaschi non lo capiscono l’italiano, che devo fare?”
(Ridono tutti)
Gabriella Ghermandi:
Comunque tornando alla letteratura e a quello che può essere la letteratura dei migranti, proprio, è questa la funzione dello scardinare… io ho letto uno degli ultimi libri che ha scritto Nuruddin Farah, Macbeth, e c’è una frase che mi è rimasta nel cuore: “Ho attraversato il territorio del dolore, il deserto del dolore, ed è un territorio terribile perché ogni volta che lo attraversi lo attraversi da solo”. Mi è venuto da pensare come ognuno nella sua vita provi sensazioni analoghe, anche nelle piccole cose, ed è una cosa in cui ognuno si ritrova, e allora questa funzione della letteratura che porta l’altro a non essere più altro ma una parte di te e non qualcosa da combattere che ti può spaventare…
Julio Monteiro Martins:
E questo dolore magari non giova alla vita ma giova alla letteratura…
Gabriella Ghermandi:
E giova a chi lo legge!
Stefano Galieni:
E fa sentire meno soli!
Gabriella Ghermandi:
Ti fa comprendere come poi alla fine ci sono cose che appartengono all’uomo e basta!
Artur Spanjolli:
Bisogna anche considerare che uno scrittore migrante è molto diverso da uno scrittore tradotto, viene dalla stessa cultura però viene tradotto. Apparte che tradurre è anche un po’ tradire, come si dice, però penso che lo scrittore migrante ha un altro percorso da fare. Prima di tutto deve cambiare, perché inserirsi in un’altra cultura portando con sé la tua cultura, perché ovunque noi andiamo ci portiamo dentro il nostro mondo. Io sono venuto dall’Albania però per certi versi ho portato il mio mondo, modificato in certe cose, e mi sono dovuto adattare alla nuova cultura. Per cui il mio modo di scrivere per certi versi è diverso da come io sarei stato se scrivevo dal mio territorio e venivo tradotto in italiano. È una cosa da tenere in considerazione.
Julio Monteiro Martins:
Senz’altro. Quest’esperienza che io chiamo “morte addomesticata” qual è l’esperienza del migrare perché uno perde l’identità precedente con tutto quello che era attorno. Io vedo gli amici in Brasile che quando parlano di me usano i termini al passato! Questo crea anche uno spessore nello spirito che si riflette positivamente sulla letteratura che magari uno scrittore tradotto non avrà mai. C’è un’espressione di Miguel Torga, uno scrittore portoghese, che ha detto che la grande letteratura secondo lui è il frutto di una certa densità psichica acquisita e credo che il trauma dell’emigrazione aggiunga qualcosa a questa densità.
Artur Spanjolli:
Invece una scrittrice russa migrante, Nina Berberova, prima è andata a Parigi, negli anni Trenta credo, poi lì è entrata in contatto con altri scrittori migranti suoi connazionali, e lei si sentiva un po’ ambasciatrice del suo paese, cioè riproponendo un brano della sua cultura si sentiva così.
Gabriella Ghermandi:
Per me c’è anche una cosa, oltre questo che caratterizza lo scrittore ma in fondo chiunque migra, non so se a voi capita, la capacità di vedere con distacco il codice culturale, quello che tu lasci e quello che trovi. È per la prima volta comprendere un atteggiamento culturale , una cosa che quelli che sono sempre stati nello stesso posto non riescono a vedere, ma tu che vieni da fuori o che distacchi, ti accorgi che è una cosa prodotta dalla cultura.
Julio Monteiro Martins:
Questa cosa ha un’analogia con la morte perché dopo la morte si dice che lo spirito guarda dall’alto quelli che sono rimasti, e anche il migrante guarda dall’alto la cultura vecchia e quella nuova con un distacco critico che è impossibile se uno è radicato.
Gabriella Ghermandi:
Infatti prima volevo usare la parola trapasso… secondo me rende molto. Poi molto spesso mi capita poi andare nelle scuole e osservo la tendenza, diffusa tra gli italiani, di dire “perché noi…”, come se tutti gli italiani fossero uguali tra loro mentre ogni straniero fosse una cosa a sé che si deve integrare in questo tutto omogeneo. Allora in questi casi mi piace chiedere “di dove è tuo padre, di dove tua madre?”, e alla fine ti accorgi che loro pian piano si rendono conto che ogni persona è un diverso che si incontra con un altro diverso! Alla fine questo è un lavoro che riusciamo a fare, cioè rimettere le cose a posto, perchè non è che io arrivo e mi integro in un omogeneo in cui solo io sono diversa perché vengo da fuori. Siamo tutti diversi!
Julio Monteiro Martins:
Io dico questo che è anche una domanda a Stefano, non sugli scrittori ma sui migranti in generale. Una questione che vedo molto, soprattutto in Francia, è un’analogia fatta dai nazionali del paese, dell’Europa, della casa, per cui tutti dicono: “nessuno viene in casa mia senza il mio invito”, oppure “io vedo una sacco di persone per la strada che non ho mai visto prima, non ho più la sensazione nel mio quartiere di essere a casa mia!”. Allora è stata creata questa analogia inconscia forte del paese come casa, infatti se uno vede le cose da questa prospettiva, vede l’immigrazione da questa prospettiva, ha la nitida sensazione di uno spazio che è stato invaso e questo crea una reazione. Come vedi questo?
Stefano Galieni:
Ho trovato due cose divertenti – e scusate se uso la parola divertente per vicende che spesso sono tragiche, ma è divertente per le contraddizioni che apre al nostro ragionare –, noi diciamo “a casa nostra” poi magari a casa nostra vera e propria non facciamo entrare neanche nostro fratello proprio in ragione di quello che tu dicevi esteso all’ennesima potenza, quindi questo termine casa che varia è funzionale in base a come mi serve, oggi è l’Italia, domani è l’Europa. Però è vero anche che noi abbiamo la tendenza a sottolineare le storie negative, quelle della cronaca, che formano l’immaginario collettivo, la tragedia. Quando ho lavorato al libro di reportage in giro per l’Italia, nei luoghi di arrivo e di fuga – perché tutti sanno che arrivano immigrati in Italia ma nessuno sa che tutti cercano di andarsene dall’Italia! – noi abbiamo girato in questi luoghi di frontiera. E nelle città di frontiera, cioè questi luoghi di arrivo, è rara l’ostilità, il senso di invasione. Quello che i tg nazionali mostrano come la massa, è percepita molto spesso con indifferenza, altre volte con forme di accoglienza e di integrazione reciproca che a me hanno sconvolto emotivamente. Della serie, la signora di 83 anni che si vede arrivare la nave dei curdi, vede la nipote e la figlia che vanno a soccorrere con asciugamani eccetera, e guarda un attimo con aria diffidente, poi comincia a capire la storia, comincia a capire perché questi arrivano in Italia, pensa al fatto che i propri figli maschi sono emigrati all’estero, in Germania o in Canada o negli Usa, pensa al fatto che anche lei un giorno avrebbe voluto magari andarsene ma non c’è riuscita, alla fine dice “sono come figli miei”. Io ricordo Riace, un paesino in festa, perché il primo bambino che era nato era la bambina di una coppia curda. Quella bambina è una bambina del paese, non è una bambina che deve diventare calabrese, o di Riace, è una bambina che è dentro casa. L’anno scorso ci tornai in vacanza a Riace, e questa bambina che ora ha quattro anni, ha una sorella più grande di sei o sette. La sorellina più grande mi ha visto col cellulare in mano, ha preso il mio cellulare e poi mi ha portato in giro per il paese per mostrarmelo. Dalle finestre del paese, di 650 abitanti, io ho visto le mamme delle altre famiglie calabresi, che scrutavano con diffidenza uno straniero, cioè io, che andava appresso a due ragazzine. Giustamente! Ero tenuto sotto controllo giustamente!quindi l’idea di casa ti salva in questi casi!
Un altro compito molto importante che ha la letteratura ma anche l’informazione è proprio far saltare questi tipi di meccanismi, per cui è accettata l’idea che l’accoglienza non esiste, l’idea che l’Italia è solo la terra dei “CPT” (centri di permanenza provvisoria), delle galere, ma è anche la terra in cui cominciano a crescere fenomeni piccoli, grandi, in cui lo scambio avviene. E sono convinto che la classe politica è indietro rispetto alla società civile. Io mi vergogno di dire che un assessore, che era del mio partito e fortunatamente non lo è più, anni fa entrò in un campo Rom dicendo “io essere assessore” [risata generale] e probabilmente in futuro ciò non accadrà più, magari se al posto di questo assessore ci fosse stato un assessore rom.
Cristiana Sassetti:
Io ho una domanda. Ci sono dei dati del ministero che hanno monitorato quanti clandestini arrivano con i barconi, che poi entrano realmente nel mercato del lavoro e i figli magari vanno a scuola…quanti davvero riescono a inserirsi bene?
Stefano Galieni:
Allora, i dati ci sono però sono scomodi e vengono raccontai a proprio uso e consumo. Chi fa un buon lavoro di inchiesta da questo punto di vista negli ultimi anni è la Caritas, il dossier Caritas per noi è la Bibbia che noi prendiamo ogni anno come oro colato perché dà una guida della situazione. Con l’ultima regolarizzazione, la sanatoria Bossi-Fini, hanno chiesto di essere regolarizzate 702.000 persone, circa 690.000 l’hanno ottenuta, ma non tutti sono riusciti a inserirsi nel mercato del lavoro reale, perché molti hanno avuto contratti falsi, datori di lavoro italiani e non che continuano a specularci sopra, contratti a termine, per cui con un permesso di soggiorno di sei mesi o un anno poi magari sono di nuovo sulla strada. Comunque in generale si può dire che il 95-98% delle persone che cercano la strada della regolarizzazione, si creano un progetto positivo di vita che porta il lavoro. Il cosiddetto tasso di criminalità è uguale se non inferiore a quello italiano. Altro dato, ed è quello che crea più difficoltà, è legato alle persone che non possono essere regolarizzate. Siccome, con la sanatoria, in Italia non puoi entrare liberamente, a meno che tu non faccia parte dei 29.000 fortunati ammessi dal decreto Prussi – per dirne una, la confindustria ha chiesto per lo scorso anno 200.000 lavoratori stranieri perché serve carne da lavoro, non certo perché sono buoni, e il governo ha dato 29.500 permessi d’ingresso – e dunque l’ingresso regolare diventa un obbligo. Quando è così, la clandestinità diventa una costrizione. Risultato: o c’è una nuova sanatoria, e magari tra due o tre anni le cose si risolvono, o sei costretto a vivere di sotterfugi, a lavorare al nero, non sai se sei pagato, non puoi avere un contratto regolare d’affitto, cioè non ti puoi costruire un equilibrio stabile in prospettiva, cioè puoi pensare solo all’oggi per domani. Il risultato è che in quelle condizioni, sfido chiunque di noi in quelle condizioni, cadere i meccanismi di criminalità o di devianza, è possibile. E non lo dico per afflato politico, ma per spirito sociologico! Delle idee progressiste ci sono, in questo senso, e sono la regolarizzazione a regime che significa che se io voglio dichiarare la mia identità reale e provare a entrare nel mercato del lavoro, devo essere messo in condizione di poterlo fare, senza nessun privilegio. Taglieremmo le gambe ai mercanti di carne umana, alle stragi in mare – negli ultimi 10 anni nel Mediterraneo i morti accertati sono 5.000 persone – taglieremmo le gambe alla criminalità organizzata che talvolta utilizza manodopera migrante, e probabilmente modificheremmo anche una certa immagine – certo qualcuno ci guadagnerebbe un po’ meno… Un’ipotesi possibile in questo senso è che invece di fare come adesso che tu entri in Italia e puoi restare in base al contratto di lavoro e la tua vita dipende dal datore che ti ha assunto, la tua esistenza dipende da un privato – questo a casa mia si chiama schiavitù… – oppure se pensare a un percorso, che deve essere europeo, per cui io voglio costruirmi un futuro diverso, dichiaro la mia identità, le ambasciate diventano luoghi dove si rilasciano visti, faccio un anno in Italia, oppure in Inghilterra, perché c’è più lavoro, se riesco mi costruisco un futuro, altrimenti è mio interesse tornarmene via. Un progetto così non è rivoluzionario, non ci sarebbero casini come quello della Cap Anamur, anzi – scusate se mi dilungo, ma c’è una ragione importante – mentre all’italiano viene chiesto il massimo della flessibilità con contratti a due mesi…
Gabriella Ghermandi:
Eh! È una contraddizione! Questi qua devono avere il contratto fisso e gli italiani quello flessibile!
Stefano Galieni:
Eh, allo straniero viene richiesto un contratto a tempo indeterminato per avere un permesso di due anni, permesso che significa che ogni due anni il datore di lavoro può decidere il licenziamento. Dopo sei anni di lavoro continuativo e un certo reddito puoi richiedere la carta di soggiorno che è un documento a tempo indeterminato che però può essere revocato dalle autorità giudiziarie, in base a guida pericolosa, per esempio, coma un italiano. C’è questa contraddizione tremenda, ma non è un paradosso – e secondo me c’entra terribilmente con la letteratura, perché in fondo raccontiamo di questo – l’avere introdotto un elemento debole nella categoria dei lavoratori come l’immigrato che può essere espulso in ogni momento indebolisce di più il lavoratore italiano, rende ancor più flessibile, ricattabile il lavoratore italiano. Io in questa maniera abbasso i costi della manodopera straniera e della manodopera italiana, dei diritti degli stranieri e dei diritti degli italiani. La cosa interessante è che purtroppo per alcuni si comincia a capire questo, cioè che la legge 30, tanto per non fare nomi, e la legge Bossi-Fini – la legge trenta è quella che definisce tutte le infinite possibilità di lavoro compreso il lavoro a chiamata – sono due elementi legati, l’una serve all’altra, scardinarne una mette a rischio la validità dell’altra. Questa cosa cominciano a capirla forse perché 135.000 lavoratori stranieri si sono iscritti alla CIGL, perché si comincia anche a fare scioperi su queste cose in cui non conta più l’appartenenza nazionale – si cominciano, eh?, siamo proprio all’ABC, all’anno zero… e siamo agli inizi anche perché in realtà la cosa che l’immigrato viene a togliere lavoro all’italiano si smonta con una facilità terribile! La frase migliore l’ha detta Ugo Melchionna, uno dei curatori del dossier Caritas, dicendo che “ non è vero che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non possono più fare”, perché hanno pochi giovani, poca preparazione manuale, perché sono cresciuti col cellulare. La trovo un’osservazione molto interessante.
Julio Monteiro Martins
Io vedo nei giovani un interesse potenziale a questo fenomeno culturale della letteratura migrante, però non vedo ancora un contatto reale, vedo poca informazione, e allora non sarebbe il caso di fare questo incontro, questo matrimonio tra i giovani della cosiddetta sinistra che potrebbero diventare il nostro primo pubblico lettore italiano…
Stefano Galieni:
Sì, secondo me sì…
Gabriella Ghermandi:
Ottima idea…
Stefano Galieni:
L’area giovanile che frequento io vive in modo molto etico, e sente la presenza migrante in Italia con un bisogno di giustizia. È una cosa bella, sta maturando un certo percorso che spesso si arena sulle sabbie dell’emergenza, sul centro di permanenza temporanea, delle espulsioni, dei ragazzi in strada Questo tipo di salto in avanti non è ancora stato fatto perché c’è questo tipo di emergenza. E senza nutrire speranze di successi immediati, questo potrebbe essere il momento per cominciare pensare di poter programmare altro, cioè proporsi non solo come condizione etica di condivisione ma anche come convivenza che di fatto già avviene e che di fatto già produce cultura, e in questo senso c’è molta ricettività, molto sentire. Una delle cose che mi sento sempre dire in tutte le iniziative che facciamo, è l’importanza non simbolica ma soggettiva della presenza delle persone migranti. Dobbiamo aiutarli e ora nascono delle forme di auto-organizzazione in cui non mancano momenti di conflitto perché magari qualche politichese nostro parla un linguaggio troppo complesso o troppo velocemente, qualcuno è più timido e parla più lentamente… però secondo me esiste…
Gabriella Ghermandi:
Noi a Bologna stiamo facendo delle cose con Rifondazione, di organizzare delle manifestazioni di letteratura alle feste.
Stefano Galieni:
Ottimo.
Gabriella Ghermandi:
Io la trovo una cosa interessante perché fino a qualche anno fa i ragazzi andavano tutti alla festa dell’unità che ora è diventato un posto di bottegai, una cosa schifosa, e hanno cominciato a prendere piede le feste di liberazione, e comincia a esserci molto interesse, vanno molti ragazzi. Allora alcune cose si cominciano a fare ed è interessante riuscire a proporsi… e potrebbe essere interessante introdurre la letteratura in questo senso…
Stefano Galieni:
Benissimo!