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Scrittori e Scrittrici Migranti
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1° giorno - Lunedì 18 luglio ore 15,30




Julio Monteiro Martins:
Benvenuti a tutti. Oggi iniziamo il nostro quinto seminario. Quest'anno abbiamo aggiunto esplicitamente la parola scrittrici e ufficialmente si chiama "Quinto Seminario degli Scrittori e delle Scrittrici Migranti" perchè è giusto che sia così. Voglio innanzitutto dare il benvenuto agli scrittori e al pubblico presente. Per me personalmente è un grande piacere rivedere amici e conoscere nuove persone con cui avevo contatti via mail. Come faccio in tutti i seminari, vorrei fare una piccola introduzione sul perché di questo evento, sulle sue motivazioni di fondo. Abbiamo deciso di creare questo seminario, questo momento in cui ogni anno si riflette, si pensa a questo fenomeno che qualcuno giustamente ha indicato come appartenente ai movimenti di avanguardia, di rinnovamento della letteratura, non solo in Italia, ma anche in altri paesi europei, magari in forme diverse come le letterature post-coloniali, mentre qui la caratteristica è molto più decisa. Tutti gli anni, in questo mese di luglio, si fa una riflessione, e vedo che c'è un'importanza crescente, una consapevolezza crescente verso questa letteratura. Il numero di persone che conoscono questi autori, che cominciano a leggerli, il numero di siti internet che sono nati, il numero di importanti servizi sulla stampa su questo fatto, è sempre più grande. Tutti gli anni si registra una crescita di questo fenomeno in Italia, ma c'è anche una crescita, che è più importante ancora, che è quella qualitativa del fenomeno, cioè più libri più maturi più importanti che vengono pubblicati. Si tratta di un'affermazione qualitativa, non solo quantitativa, di questa letteratura in Italia. E su questo voglio soffermarmi un momento, su un particolare un po' meno evidente ma molto importante. Per parlare di questo fatto voglio parlare un po' sulla storia della mia letteratura. Vengo da un periodo della storia latino-americana in cui la potenza dominante nel continente, - secondo alcuni gli USA, sebbene non si sappia in che misura, ma di sicuro negli anni 70 era la potenza massima, - si era spaventata profondamente per gli eventi rivoluzionari che erano accaduti poco prima nell'isola di Cuba, e ha deciso di investire tutte le sue energie per impedire che in altri paesi sudamericani ci fossero altri rivoluzioni di quel genere. A quel tempo c'era la cosiddetta teoria del domino che diceva che se cadeva un paese, come il Vietnam, poi sarebbero caduti anche il Laos, la Cambogia. Era tutta una sorta di paranoia geopolitica che dominava il Pentagono, e a quel tempo la mia generazione venne segnata - parlo degli anni Settanta, gli anni della mia gioventù, il mio primo libro è del 1975, del luglio del 75 - da quella successione di golpi militari, di cui quello più famoso è quello promosso contro un regime eletto liberalmente, quello del Presidente Salvador Allende in Cile, e che è stato defenestrato dai militari appoggiati dalla CIA. Ma non è stato nemmeno quello il più crudele e il più violento tra i regimi dittatoriali di destra dell'America Latina, bensì molto probabilmente lo è stato quello dell'Argentina alla fine di quel decennio in cui, per un lungo periodo, perché mentre in Cile c'è stato un trauma subito dopo la caduta di Allende, in Argentina è stato un periodo lungo, di un decennio intero, con una serie di delitti gravissimi, come per esempio buttare dagli elicotteri gli studenti in oceano, da centinaia di metri di altezza, e anche nel mio paese è stato così. Allora, il fatto di esser cresciuto in questo clima, in questa cultura, che non era solo legata alla letteratura - nella letteratura non potevamo pubblicare le nostre cose nelle case editrici, è ovvio, però c'era la cosiddetta "generazione ciclostile" perché facevamo le cose di nascosto, i testi, i racconti erano distribuiti clandestinamente. E lo stesso accadeva nel cinema. Il cinema brasiliano era molto legato alla tradizione neorealista italiana e anche alla nouvelle vague francese, è stato un cinema di grande importanza, con Glauber Rocha, regista brasiliano che ha vinto a Venezia, a Cannes con film molto importanti politicamente. Ad esempio nel '68 durante i movimenti degli studenti a Parigi, a Nanterre, proiettavano sui muri della città un film recente di Rocha, chiamato "Terra in trance". Anche nella musica, nella canzone popolare, la cosiddetta canzone di protesta, quando giovani cantautori come Caetano Veloso, Chico Buarque, Gilberto Gil, Milton Nascimento, sono comparsi sulla scena con testi molti forti che inneggiavano sempre la libertà e parlando contro il sistema dittatoriale attraverso le metafore, attraverso un linguaggio allegorico. Questo ha arricchito molto la letteratura brasiliana perché si tratta di un fenomeno molto curioso: la censura politica è una mostruosità in verità, il non poter parlare, il non poter pensare a certe cose. La censura esterna infatti è solo la prima fase di un fenomeno molto più pericoloso qual è l'autocensura che la censura esterna finisce per creare, una sorta di incapacità di immaginazione. Però il fatto è che per quello che riguarda il fenomeno del linguaggio, la censura finisce per avere un effetto paradossalmente benefico, perché una volta che le cose non possono più essere palesate, esplicitate, si devono cercare mille linguaggi metaforici, poetici, simbolici, per far arrivare se non l'idea almeno l'intuizione, l'atmosfera, in qualche modo. Quindi c'è stato un periodo d'oro per la letteratura brasiliana, soprattutto per il racconto breve, il genere per eccellenza di quel periodo, e non a caso perché era più facile da stampare clandestinamente. È un periodo d'oro motivato in gran parte dal bisogno di raggirare la repressione. Vedete, tutto questo mi ha fatto avere della letteratura una visione molto alta. Nella prefazione di questo mio ultimo romanzo, madrelingua, si parla del mio grande amore per la letteratura, ed è vero, ma ho soprattutto un grande rispetto per la letteratura, che è una cosa un po' diversa: io quando osservo discussioni sulla letteratura in cui si parla di ricerche di marketing, che l'autore deve scrivere un libro con personaggi così o cosà perché venda di più, mi fa proprio venire la nausea, una sorta di ira santa, come nel Vangelo Gesù al tempio con i venditori, quel tipo di rabbia, perché è una visione irriguardosa rispetto alla mia visione alta della letteratura. E perché è alta? Perché ho visto che in certi momenti, quando c'è una questione di potere che diventa egemonico e consensuale, che a volte può esser considerato - come si diceva ai miei tempi, oggi non lo sento più dire - come lavaggio del cervello, un'espressione comune… quando c'è un sistema che promuove il lavaggio del cervello, che ha un dominio del linguaggio, così come oggi abbiamo l'egemonia del linguaggio pubblicitario e della propaganda legata al mercato - ad esempio la parola libertà è stata fatta propria da una determinata corrente politica che è totalmente diversa dal concetto di libertà che io avevo, parole come democrazia eccetera, sono tutte parole che sono state svuotate e poi riempite di un concetto diverso - ecco, quando vedo queste cose, capisco che solo la letteratura in certi momenti può servire come antidoto efficace a questa egemonia di un linguaggio pervertito, perché solo la letteratura ha con il linguaggio un rapporto così intimo, così stretto e profondo da essere in grado di sovvertirlo per poterlo ricondurre alla sua integrità originale, prima che il sistema lo corrompesse. Per me quindi la letteratura ha sempre avuto una funzione altissima, di sicurezza nazionale se volete, cioè un paese che corrompe la sua letteratura o la blocca o la inibisce, mette a repentaglio se stesso come paese, questa è la mia visione. E quest'idea alta non è teorica, l'ho vista in funzione, all'opera: l'America Latina si è ridata prima libertà e poi dignità e poi un futuro attraverso i suoi scrittori. Io mi ricordo ancora quando è finita la cosiddetta guerra delle Falklands, hanno creato un tribunale per giudicare i crimini politici di quegli anni, e l'unica persona in tutto il paese considerato unanimemente da tutte le forze politiche in grado di presiedere il tribunale per i diritti umani, è stato un romanziere, un vecchio romanziere in pantofole chiamato Ernesto Sábato. Per dire, questa è la mia visione della letteratura, poi se c'è uno scrittore che scrive per il mercato, non lo so, non m'interessa. Per me la letteratura è un sacerdozio, una missione, non è un commercio, non è un marketing. Quello che vedo - e ora si capirà perché ho fatto tutta questa parentesi per poter parlare di questo testo in cui sviluppo il mio concetto della mia visione della letteratura della migrazione in Italia - è uno sviluppo che io auspico più di quanto non lo veda effettivamente in atto. Mi auguro che questi scrittori che hanno vissuto nel loro paese di origine, tanti paesi così diversi tra loro, ma quasi tutti con storie difficili, storie di società oppresse, di golpe politici, tanti sono emigrati per ragioni economiche ma tanti anche per ragioni politiche… mi auguro che questi scrittori con lo spessore che io credo che il loro spirito ha acquisito attraverso queste sofferenze individuali e collettive negli anni precedenti al loro trasferimento in Europa, mi auguro che con questo patrimonio spirituale possano usare la loro letteratura per impedire - perché noi ora non stiamo parlando di costruire un'Europa diversa - che qualcosa di orrendo accada in questo continente, qualcosa che purtroppo sento nell'aria e che si sta avvicinando, e cresce con la paura. La paura è il peggior consigliere, credetemi, la paura ti fa fare cose tremende, perché la paura ti dà una giustificazione polivalente, che è quella che stai facendo di tutto per difenderti. Con la crescita della paura in questo continente, io sento sempre più in queste ultime settimane, un discorso tra gli intellettuali, badate bene, del tipo che è stata un'illusione credere che il liberalismo potesse convivere con la multiculturalità, che una società non può essere multiculturale e liberale allo stesso tempo, bisogna fare una scelta. Questo è un discorso che si sta approfondendo: cioè, vogliamo essere una società multiculturale? Allora per sicurezza dobbiamo chiudere la tradizione, anche recente - perché i totalitarismi europei sono finiti poco tempo fa - questa recente storia liberale, per poter mantenere un multiculturalismo sorvegliato e orchestrato se possibile. Oppure eliminiamo il multiculturalismo, cacciamo via tutta questa gente, torniamo a una società più omogenea, e allora possiamo mantenere intatte e aperte tutte le tradizioni liberali. Non possiamo avere tutto allo stesso tempo. Ora, questa è un'idea perversa, perché presenta due minacce terribili. Non vedo invece nessuna voce tra gli intellettuali di origine europea che si opponga a questa idea. Nessuno si schiera in difesa di questo progetto, di una società insieme libera e multiculturale. Per dare un esempio: c'è stato recentemente un referendum in Italia della massima importanza, su questioni vitali, la questione della riproduzione, ma guardate che la riproduzione è una cosa che più vitale di così non si può. C'è stato un plebiscito che decide il destino della riproduzione, del futuro del genere umano in questo territorio: gli intellettuali si sono ritirati, non c'è stata discussione, solo alcuni giornalisti hanno difeso l'una o l'altra posizione, ma la discussione di fondo non è stata presa in considerazione dagli intellettuali. Questo per dire che io vedo questo movimento rinunciatario del pensiero in Europa, riguardo allo sviluppo degli eventi storici; sviluppo che non vede chi non vuol vedere, perché mi sembra palese, basta aprire un giornale. È in questo contesto che gli europei, magari anche quelli con le idee più liberali, sono stati inoculati anche loro da questo virus della paura e per questo si sentono indeboliti per difendere le proprie idee e da lì quest'atteggiamento rinunciatario. Ma chi deve difendere una società multiculturale? Quelli più direttamente interessati che sono i non europei che vivono in Europa. E in quale spazio ciò si manifesta? Nella letteratura! Non ci sono, che io sappia, registi di cinema originari di paesi del terzo mondo in Europa, oppure cantautori, ma ci sono scrittori, poeti, romanzieri e narratori, no? Sono loro, e hanno davanti una sfida gigantesca e dovranno fare il meglio, tutto ciò che possono e un po' di più, per diventare più grandi di loro stessi. La storia fa gli uomini, non sono solo gli uomini che fanno la storia. A volte un determinato contesto storico ti spinge ad atteggiamenti di grandezza a cui non ti sei preparato e non pensavi neanche di esserne capace. La storia a volte ti mette di fronte a certe situazioni, e io vedo che ci stiamo avvicinando a un contesto storico che magari richiederà energie di questo genere. La questione degli scrittori migranti potrà prendere una piega un po' diversa da quella che sembra. Diciamo che fino ad oggi c'è stata una grande affermazione estetica, come movimento stilistico. Ora l'estetico non basta più. Dobbiamo trasformare quest'energia estetica in energia politica, culturale, in energia ideologica, filosofica, e difendere un'idea di mondo, un'idea di futuro. Farlo non perché magari siamo convinti di doverlo fare, ma perché non abbiamo scelta, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno. No? Non aver scelta è già una scelta! Io vi ho portato un breve racconto che ho scritto proprio in questi giorni, che parla di un equivoco politico. L'ho portato anche per illustrare quest'intervento di oggi, come ciò che potrebbe essere una proposta, una costruzione letteraria alternativa più articolata dal punto di vista politico.

IL TERRORISTA

Il marito, esasperato, si alza di scatto dal letto, e per giustificare la sua voglia di parlare in piedi fa finta di aver sete, prende la bottiglia di plastica, riempie il bicchiere, lo lascia pieno sul cassettone e agita la bottiglia in aria come un bastone:
- Ma non capisci? Ma sei scema o cosa? Il fatto che questo tuo amico ti abbia detto che conosce delle persone che hanno partecipato alla preparazione di attentati terroristici è una cosa gravissima. Secondo me, questo fa anche di lui un terrorista. Chi conosce terroristi cos'è? È un terrorista.
- Ora esageri, Filippo. Forse Amir dice queste cose solo per darsi importanza, per affermarsi in qualche modo. - Lei riflette per qualche secondo, valutando lo spessore di quella realtà. - Macché... Non conosce nessun terrorista, lui, dice così solo per dire...
- Ma porco di quel maiale, non può nemmeno dire queste cose in giro! Ma scherzi? E tu sei una cretina a frequentare questa gentaglia. Metti a rischio la nostra famiglia.
- Ma dài, allora sei un cretino anche tu che non capisci come stanno le cose.
- Ah, sì? Dimmi tu, allora, come stanno le cose. Dài. Sentiamo.
- Sono gli stessi americani che stanno dietro questi attentati, compreso quello delle torri gemelle. Avevano bisogno di mettere paura alla gente per andare avanti indisturbati con i loro piani di conquista, di espansione del loro impero, di finanziamento del complesso industriale-militare. Bin Laden e gli altri hanno sempre lavorato per loro in passato. Cosa ti fa pensare che non ci lavorino ancora? E poi, la strategia di preparare attentati contro i civili per demonizzare i nemici, fargli ricadere la colpa addosso e indisporre l'opinione pubblica contro di loro, è roba vecchia. Ti ricordi quando anche qui in Italia i servizi segreti e la destra, quel Gladio e la CIA, facevano esplodere le bombe a Piazza Fontana, alla stazione di Bologna, per scatenare l'odio sociale contro la sinistra? Gli americani è da sempre che sono terroristi. Guarda cosa hanno fatto in Cile, a Cuba, da tutte le parti. Non lo vede chi non lo vuol vedere.
- E chi ti ha detto queste cazzate? Il tuo amico Amir?
- Non sono cazzate, Filippo. È la verità. Dovresti guardare meno i telegiornali e ascoltare di più ciò che dice la gente.
- Ed è questo ciò che dice la gente?
- Sì. Certe persone, sì. Sicuramente.
- Allora, Elena, tu devi scegliere tra me, tra la tua famiglia, e queste "certe persone" di cui parli. Io non ci sto. Se vuoi continuare a incontrarli, devi prima lasciare questa casa. E io dico sul serio.
- Ma sei proprio isterico, Filippo. Datti una regolata, va bene?
- o - - o - - o -

L'amante, esasperato, ferma la vecchia Fiat al lato della strada, preme il pulsante delle luci d'emergenza e scuote la testa da un lato all'altro, cupo, concentrato, cercando le parole:
- Ma cos'hai fatto? Sai benissimo che non ho mai conosciuto nessun terrorista in vita mia, e non ne so proprio niente, io.
- Lo so, Amir. Lo so, tesoro...Ma, capisci? Io ero disperata. Non sapevo più cosa dire, che balle raccontare a mio marito. È mille volte meglio che lui pensi che io ti veda di nascosto a causa di certi tuoi legami politici...
- Ma quali legami?
- Posso finire? Allora, è meglio che lui pensi questo, anziché scopra la nostra storia.
- No, no, Elena... No... Tu non capisci niente. Queste sono cose pericolose. Sono cose che non si dicono. Tu non te ne rendi conto del momento in cui stiamo vivendo. Quelli come me sono tutti sotto sospetto. Ci guardano come potenziali terroristi, e tu ti metti a dire certe cose...
- Amir, ascoltami. A chi vuoi che mio marito racconti quello che gli ho detto? Alle rappresentanti farmaceutiche che si scopa ogni tanto? Ai pazienti? Tanto, sono tutti sordi quelli. Proprio per questo vanno da lui. A quella segretaria deficiente? Ascoltami, tesoro, non c'è alcun rischio. Credimi, è meglio così. Lui si preoccupa con la politica mentre noi... Ehi, ma che fai? Piangi? Amore mio, che fai?
- Non puoi fare questo a me... Sei un'incosciente. E poi, io ho moglie, ho tre figli... Vuoi distruggere la mia vita, Elena?
- Tesoro, ma che dici? Ti sei spaventato, poverino. Stai tranquillo. Guardami. Ehi, guardami. Mi prometti che starai tranquillo? Voglio che tu me lo prometta, va bene? Me lo prometti?
- Sì. va bene.
- o - - o - - o -

Dopo aver cercato inutilmente di chiamare il marito Elena rimette il telefonino nella borsetta e aziona il telecomando. La porta automatica del garage si alza. Lei parcheggia il furgoncino, scende, apre la bauliera e comincia a scaricare le confezioni di acqua minerale e a sistemarle lungo le pareti laterali quando sente il rumore di una macchina che avanza lentamente sulla stradina di ghiaia. La macchina si ferma davanti a lei, senza spegnere il motore.
Ancora con le confezioni di sei bottiglie ciascuna in mano, lei si gira e vede una macchina celeste con due uomini sconosciuti seduti davanti, nascosti dietro gli occhiali scuri, e sul sedile posteriore suo marito Filippo che la guarda immobile, con un'espressione mortificata. Elena posa le bottiglie sul pavimento, s'incammina verso gli uomini e china la testa per guardarli attraverso il finestrino.
Nello stesso momento, dall'altro lato della città, Fatima Al-Hasan al Madani riempie in fretta due grosse valigie aperte sul suo letto con tutto quello che può servire, sotto lo sguardo atterrito di due bambine e di un bambino piccolo che cerca di mostrarsi sicuro e coraggioso al cospetto di quelle donne, mentre in salotto l'iman e un suo fratello aspettano impazienti di poter lasciare quella casa per tornare in moschea. Poi, a seconda dello svolgersi dei fatti, decideranno tutti insieme il da farsi, a chi affidare la donna e le due bambine. Del più piccolo l'iman si prenderà cura personalmente. Vivrà insieme agli altri bambini come lui e frequenterà la scuola coranica fino a quando qualcuno potrà venire a riprenderlo.



(Applausi dei presenti)


Cercare di interpretare un certo clima, una certa paranoia diffusa che comincia a cristallizzarsi qua e là nella cultura… se non lo facciamo noi, chi lo fa?
E benvenuti a tutti, grazie!
Ora vi presento Ubax Cristina Ali-Farah, che è una giovane scrittrice di origine somala che vive a Roma e che è presente dall'inizio della costituzione di questa letteratura migrante. Mi ricordo bene di lei in quell'incontro a Via Montenevoso, a Milano, in cui ho avuto il primo contatto con scrittori non italiani.

Ubax Cristina Ali-Farah:
Grazie Julio per avermi invitato. Ricordo che già a quei tempi discutevamo molto di questa letteratura, di cosa ci univa, pur provenendo da contesti, storie diversi. Abbiamo trovato questa comunanza nella scelta della lingua, e quindi nella volontà di usare questa lingua come scelta anche d'amore per la lingua. Io prima di dire alcune cose di cui volevo parlare, vorrei partire leggendo un racconto anche un po' riallacciandomi a quello che ha detto adesso Julio sulla fobia che crea questo multiculturalismo e questa convivenza tra realtà e identità diverse. Volevo prendere come spunto questo suggerimento. Siccome appunto nei paesi occidentali c'è l'idea che i costumi con il tempo in qualche modo evolvano, cioè che le nostre nonne fossero più chiuse di noi, le nostre madri più chiuse, e che mano a mano in certe cose le donne si liberino e che l'emancipazione femminile abbia un cammino in salita. Invece in paesi come la Somalia, che hanno la guerra da molto tempo, esistono delle forme di chiusura, cioè ci sono donne che nei loro paesi sono sempre state libere, hanno sempre avuto una mentalità molto aperta e improvvisamente si trovano catapultate in una società in cui non si riconoscono e che non le riconosce e quindi per istinto si chiudono. Allora, siccome questo racconto è un racconto incentrato su un universo femminile in cui le protagoniste sono tutte donne della diaspora, così, mi piaceva sottolineare come molte madri e molte donne della generazione precedente molto spesso fossero più aperte anche delle mie coetanee. È un racconto circolare in cui ci sono quattro donne protagoniste, ed è un dialogo per interposta persona tra una madre e una figlia. Il titolo è "Madre piccola" e si allacci alla parola… che tornerà spesso nel racconto e che significa zia materna e tradotto letteralmente significa piccola madre.

MADRE PICCOLA

Habaryar ,
Nuura non è potuta venire personalmente. Ha detto a me di venire qui, alla stazione, al posto suo. Mi ha detto, Vai e portale questo pacco, la ragazza sta andando a Londra e magari le capita di vedere mia figlia. Allora io sono qui per consegnarti questo pacco, perché Nuura ha saputo che sua figlia ha partorito e vuole mandare un dono per la nipotina. Tu, quando arrivi a Londra vai da tua cugina e dille che sua madre le ha mandato questo. Oggi Nuura non poteva venire, perché pulendo le scale le si è storta la caviglia e ora non riesce neanche a camminare. Vedi come è il destino.
Vai da tua cugina e dille che sua madre la benedice. Voi siete diventate moderne oggi, ma la benedizione di tua madre è quanto hai di più sacro. Siamo cresciute così e per noi quando i figli sono diventati adulti non abbiamo più incombenze. Vedrai che questo pacco non contiene grandi cose, ma è perché Nuura sta facendo economia, deve risparmiare. Lo sai, quando guadagni così poco per risparmiare ti devi togliere il cibo dalla bocca. Quindi dì a tua cugina che non deve averne a male se il dono le sembra piccolo, perché i tempi sono cambiati e noi non siamo più quelle di una volta.
Habaryar,
sai, quando eravamo giovani vivevamo diversamente. Risparmiavi qualche soldo e ti compravi gli orecchini in filigrana d'oro anche se non avevi un materasso comodo dove dormire. E se qualcuno veniva dall'Italia o dall'America gli chiedevi se ti portava la borsa di pelle o il walkman. Così la tua povertà la nascondevi per bene. Allora uscivamo tutte agghindate e nascondevamo sotto un xirsi legato, perché non ci venisse addosso il malocchio degli invidiosi.
Adesso i tempi sono cambiati, ma una volta… ah una volta gli uomini si svaligiavano. Dal più povero ci facevamo invitare al restauranti e ordinavamo il pollo alla cacciatora, ma appena uno aveva più soldi, chiedevamo, Comprami un garbasar nuovo, invitami di qua, mi piace quel profumo lì. Ma tutto era solo per divertirci.
Habaryar,
senti questa storia.
Un giorno arriva uno di questi corteggiatori. Eccolo, si mette con la spalla appoggiato alla porta e le gambe in bella vista con i calzettoni bianchi che si vedono, sotto i pantaloni. E sai cosa aveva infilato nei calzettoni? Due biro: una blu e una rossa. Cammina, viene verso di noi, jak, jak, jak. Nuura mi guarda e mi dice piano all'orecchio: "Hoy! Questo è un intellettuale!"
Jak jak, jak si appoggia così, con la mano destra sul piano, con le gambe incrociate e dice:
"Oggi dove si va?" e Nuura mi sussurra all'orecchio:
"Guarda che questo qui non ha niente, non riusciamo a spillargli neppure un pollo!"
Così tocca a me rispondere all'intellettuale squattrinato:
"No, mio caro, non posso uscire, mia madre torna dalla farmascio e se non mi trova dentro casa impazzisce dalla rabbia. Rimani un po' qui a prendere del tè con noi!"
Così succedeva, ma giocavamo. Allora le cose erano diverse.
Ah mia cara nipotina, eravamo corteggiate da tutti e bisognava curarsi per splendere. La notte ti mettevi olio olivo nei capelli. Ci si cosparge con ogni cosa quando gli uomini non ci sono, così quando ti vedono e esci con loro, brilli tutta.
Ma qui le donne sono tutte diverse. Le europee, mi sembra che non capiscono niente. Guarda, parlano di pulizia. E la donna va lì in bagno, fa la pipì, si pulisce la sua cosa con un foglio, poi si lava le mani con il sapone per cucinare. Come puoi parlarmi di igiene se la tua cosa l'hai pulita con un foglio? Bisogna curarsi per splendere.
Habaryar,
tu non la puoi ricordare perché eri una bambina, Nuura, com'era da giovane. Era alta e tanto chiara che brillava come quella lampada lassù. Io e lei dormivamo nella stessa stanza. E gli uomini si svaligiavano, ma solo certi uomini. Quando sei innamorata certi giochetti non li fai più.
E c'era un reer xamar per cui lei la sera scioglieva la sua corda e scendeva giù dalla finestra. Lì era l'amore. E questo reer xamar stava dietro una finestrina piccola, là su un palazzo, mia cara, non ti puoi immaginare come vivevano i reer xamar a Mogadiscio. Stavano peggio di noi. Era povero. È così quando qui dicono due cuori e una capanna.
Ma come non te lo ricordi? I reer xamar abitavano le vie centrali. Anche noi siamo nate in via Roma a Mogadiscio. Ora mi hanno detto che in via Roma ci sono gli scoiattoli e le iene! Prima c'erano i negozi di scarpe e soprattutto quelli che vendevano la musica. Tu gli dicevi dammi Maikol Jakson e loro, zzzz, ti registravano Maikol in cinque minuti. Avevano un doppiatore di cassette, ecco cosa avevano. Cose da non crederci.
Vedrai, dentro al pacco c'è una cassetta. Per Nuura è stato più facile registrare la sua voce che scrivere. Lì, in quella cassetta, Nuura dice a sua figlia tutto quello che le vuole dire.
Habaryar,
lo sai che hai un'ava reer xamar? Tuo bisnonno, Osman Yasin, nato nella città di Obbia. Andò a Mogadiscio e conobbe una ragazza reer xamar. Se ne innamorò perdutamente e la sposò. Sua moglie gli diede nove figlie. Ebbe fortuna e dopo diversi anni divenne ricco. Incontrò l'ostilità della famiglia della ragazza che cercò in tutti i modi di farlo tornare nella sua città d'origine con l'appoggio degli italiani. La sua stessa famiglia non vedeva di buon occhio la ragazza. Le ragazza reer xamar non sono coraggiose come le donne della boscaglia e poi questa partoriva solo figlie femmine. Sciocchina dalla testa frivola, non ci sono versi per insultarti, non ci sono versi per onorarti. Così le cantavano.
Habaryar,
lo so che i figli si coltivano. Ma noi siamo zingari, te ne sei dimenticata? Non è perché Nuura ama sua figlia meno di una madre normale. Questo dillo a tua cugina. Anche a me è successa la stessa cosa. I figli li metti al mondo e poi, Allah vede e provvede. È superbia pensare che puoi tutto sui tuoi figli. Non possiamo controllare gli avvenimenti che ci abbracciano la vita.
Ti racconto la mia storia. Mio fratello stava in Etiopia e combatteva contro il regime. Era più di venti anni fa.
Io sono tornata in Somalia per vedere mia figlia. Ho avuto dieci giorni di tregua per incontrarla e poi sono finita in carcere per otto mesi, nelle carceri di sicurezza. Io non avevo a che fare con la politica, ma mio fratello sì. Quando sono riuscita a scappare sono arrivata al Cairo. Allora non c'era bisogno di documenti per entrare in Egitto. Poi sono venuta in Italia e qui sì che serviva il documento. Te l'ho detto che siamo zingari: sono arrivata ed ero Tanzaniana. Questo è accaduto quando volevo andare dalla mia prima figlia. Poi.
Quando è nato il mio ultimo figlio, io lo ricordo. È nato a Roma ed era il 5 novembre. In quel tempo davano Kunta Kinte alla televisione e il medico quando ha visto che mi doveva fare il cesareo ha detto che lo facevamo subito così nasceva Kunta Kinte in tempo per vedere il telefilm. Io mi sono molto arrabbiata. Mio figlio è tornato in Somalia quando aveva otto mesi, ora ha 25 anni e mi vuole venire a trovare. Gli ho fatto mandare gli inviti e non l'hanno accettato, perché sta in Zimbabwe e ha il passaporto somalo anche se è nato qua. Non vedo mio figlio da dodici anni e questo non è giusto.
Habaryar,
io amo i miei figli, ma in questo paese i miei figli non sono la mia pensione. Un tempo la pensavo come te, pensavo che l'amore non è dignitoso ad una certa età, ma oggi penso che no, che certe cose anche nella vecchiaia non cambiano. L'amore ti fa sempre come una ragazzina.
Nuura fa un lavoro pesante, tutti i giorni a pulire le scale. E questo lavoro lo fa per riavere con sé il suo reer xamar, che è rimasto giù, bloccato in un campo profughi. Nuura ha due segni grossi sul braccio, due segni neri neri che si è fatta quando eravamo ragazzine. E quelle sono le incisioni con le iniziali del suo amato. Nuura scioglieva la corda e non la vedevi fino all'alba.
Una sera io quasi dormivo e nostra zia è arrivata.
"Dov'è Nuura, dov'è Nuura? Tu me lo devi dire!"
"No zia, non lo so!"
"Tu lo sai!" e io shib.
Non parlavo. È che Nuura una sera mi aveva detto:
"Sorella, tu lo sai che io ti amo, ma quest'uomo io lo amo in un modo diverso."
Ed ecco perché io ero lì e non parlavo, stavo zitta e invece di rispondere, shib. Così andava.
Ma sai che una donna bella e giovane per chi nulla possiede è una merce di scambio a cui non si può rinunciare. Così l'hanno data, hanno data Nuura al vecchio senza occhio. Non era vecchio ma così ci pareva, perché eravamo ancora ragazzine. Il guersce aveva un sacco di cose da offrire, altroché pollo alla cacciatora. E al guersce ha partorito quell'unica figlia a cui adesso tu devi portare il pacco.
Habaryar,
per una donna, l'amore che nutre per suo figlio è staccato dall'amore per il seme che l'ha generato. Tuo figlio è carne tua, cresciuta con il tuo latte, estirpata dal tuo sangue. Nuura ha sempre amato sua figlia. E tu sai che è l'unica che ha avuto il privilegio di partorire. Perché subito dopo, inaridito dal disamore, il suo ventre si è chiuso rifiutando di nutrire altri embrioni. Sono passati tanti anni prima che il guersce la ripudiasse. Voleva curarla la sua donna, quella merce preziosa per cui aveva sborsato scellini contanti. E solo alla fine, quando l'età è sopraggiunta e con essa la guerra, l'ha abbandonata a se stessa, libera di desiderare il suo reer xamar.
Habaryar,
guarda questa foto. È il quadro di una pittrice somala, si chiama Zeinab Abdulqaadir. Ora vive in Germania. Vedi queste sagome? Sono le persone addolorate, la guerra, la sofferenza. È diventata matta poverina. Ora sta in un ospedale psichiatrico.
Parla con tua cugina e ricordati di dirle che sua madre l'ama. Non serbate rancore per il suo amore reer xamar. I figli crescono e fanno altri figli. Sua figlia si consolerà dell'assenza di sua madre grazie ai suoi figli. Nuura ora non può nulla, ha smesso di mangiare per far venire il suo reer xamar.


Nota dall'Autrice: In questo racconto si incontrano alcune parole somale, come habaryar e reer xamar; e alcune varianti somale di parole italiane: "restauranti", "farmascio", "olio olivo", "guersce". Habaryar significa zia materna e letteralmente tradotto madre piccola. In somalo si usa rivolgersi ai nipoti chiamandoli 'zia/zio', o ai figli con 'mamma/papà'. I reer Xamar sono gli abitanti di Mogadiscio di origine araba. Letteralmente significa abitante di Xamar, cioè Mogadiscio

Questo è un racconto circolare incentrato su quattro donne e, in particolare, è un dialogo, per interposte persone tra una madre e una figlia.
Essendo incentrato su un mondo femminile sconosciuto in Europa è importante sottolineare come l'emancipazione femminile non sempre faccia passi avanti nel mondo e come in alcuni paesi africani le nostre madri fossero molto più emancipate delle ragazze della nostra generazione.
Il titolo Madre piccola è legato al significato della parola habaryar che in somalo significa zia materna e letteralmente tradotto madre piccola. In somalo si usa rivolgersi ai nipoti chiamandoli 'zia/zio', come a Roma ho sentito talvolta l'espressione "a zia" o "a mamma". Habaryar è il modo con cui la zia si rivolge alla nipote.


(Applausi).


È un po' lungo questo racconto, ma l'ho scelto anche perché nella scrittura, nello scrivere, la cosa che mi sembra più importante in questo momento è il fatto di raccogliere testimonianze, e dunque tutti i racconti, anche questo di "Madre piccola", sono composti da una serie di interviste o di cose che mi sono state raccontate, da una serie di dialoghi che ho avuto anche con donne. Dopo la guerra le donne e gli uomini somali si sono sparsi per tutta l'Europa e il mondo, ed io ho raccolto tutti i ricordi che mi sono rimasti in mente, soprattutto anche di dialoghi telefonici perché anche con le persone più care, più intime, nonostante non ci si veda più , rimane sempre una sorta di reticolo di relazioni nel mondo che funziona anche telefonicamente. Ed è bellissimo perché a mantenere vivi questi rapporti, questo legame umano con le persone, c'è questo modo di raccontare gli aneddoti, le cose che magari sembrano delle sciocchezze, di quello che è successo il giorno prima, di quello che è successo alla vicina o all'amica, poiché è molto difficile ricominciare il dialogo con una persona quando non la si sente da molto tempo. Invece attraverso queste piccole cose è più semplice perché in fondo è la quotidianità la cosa che appartiene a tutti. Questo è legato alla diaspora, anche un po' per ricordare come la Somalia sia storicamente legata all'Italia anche se se ne parla molto poco. A questo mi piaceva anche collegarmi perché nella scrittura della migrazione molto spesso si parla della lingua che ci unisce e dell'innovazione linguistica. Molti critici e scrittori si aspettano dagli scrittori migranti un'innovazione linguistica. Questo naturalmente è auspicabile col tempo anche se è molto presto, però l'altro giorno stavo pensando, dopo un ennesimo intervento di un critico che diceva "non troviamo l'innovazione linguistica da questi scrittori laddove ce lo aspetteremmo" eccetera, che in realtà in Francia o in Inghilterra ad esempio, gli scrittori anglofoni o francofoni conoscono la lingua dalla nascita. Questo è così anche per me, ma vivono in un contesto culturale in cui la lingua è parlata, quindi non sono loro a modificare la lingua, bensì la lingua è modificata da un gruppo, un singolo non può da solo decidere "ora mi metto a manipolare la lingua e così la propongo al pubblico", sia per i ricettori, perché il pubblico non capirebbe, sarebbe una cosa che stona, e poi sarebbe insensato, eccentrico senza valore sociale, mentre invece secondo me lo scrittore è scrittore solo se ha un rapporto stretto con chi lo ascolta. E allora in questo "Madre piccola" ho messo qualche parola come suggerimento, perché essendo la Somalia una colonia italiana, ci sono molte parole che fanno parte del linguaggio comune. Mi aveva colpito un giorno mia zia che era spuntata fuori con questa parola, il pollo alla cacciatora. Ed io le ho chiesto "E questo da dove salta fuori?" perché in Somalia ovviamente non esiste il pollo alla cacciatora! Evidentemente qualcuno l'aveva sentito dire da qualche italiano! Oppure anche la parola farmacia, non esiste in Somalia…Un'altra ricerca molto interessante che stavo facendo sempre in questo periodo sul potenziale di innovazione della migrazione e dunque del multiculturalismo, è sulle nuove generazioni dei ragazzi africani nati e cresciuti in Italia, che molto spesso non sanno la loro lingua d'origine, non conoscono il contesto di provenienza e parlano un linguaggio italiano, un romano quasi più forte di quelli dei romani stessi. È uno sforzo di identificazione, di legittimazione, e allo stesso tempo hanno questo mito dell'Africa costruito, molto bello, così, molto immaginario. Mi aveva molto colpito questo fatto della lingua a tal punto che recentemente ho costruito un racconto attraverso le interviste con questi ragazzi e che è uscito nell'antologia curata dalla scrittrice italo-somala Igiaba Scego e che si chiama Italiani per vocazione. Un critico parlando dell'antologia ha scritto su un giornale: "La scrittrice italo-somala Cristina Ali-Farah scrive che si ferma molto volentieri al Pincio" e cita testualmente una parte del mio testo in cui la protagonista dice "Questo mi sa che è per la mia anima africana". Io lì stavo ricostruendo quello che è l'immaginario di questi ragazzi, non sono io che parlo, è come parlano questi ragazzi. Però lui non è riuscito a non pensare che questo fosse un testo autobiografico. Ancora quindi non si riesce a pensare che noi stiamo scrivendo di noi stessi. E questo secondo me è un grave rischio…

Julio Monteiro Martins:
A tal proposito mi hai fatto venire in mente una cosa di cui parlavamo oggi. Raccontalo tu che è interessante…

Ubax Cristina Ali-Farah:
Sì sì, è proprio questo. Che il critico ha confuso il narratore con l'autore. Cito testualmente:
"Allora, mi sono fermata sul Pincio. Mi piace starci e vedere le cose con un certo respiro. Questo mi sa che è per la mia anima africana, perché da noi non si sta così accalcati come formiche con il casino intorno. Certe cose poi uno se le sente nel sangue". Qui la protagonista è un'adolescente, una ragazza di diciassette anni, ed io penso che tutti i ragazzi siano un po' retorici nel loro modo di parlare, ma è una cosa bellissima. Allora questo snobismo che quel critico sottintendeva quando diceva che questa è una caduta, come se io avessi bisogno di rimarcare le mie origini, in una ricerca di esotismo, o cose simili, in realtà non è così. Ma la cosa è ancora fresca, non sono abituati e bisogna cominciare…

Julio Monteiro Martins:
Questa è un'ipotesi benigna, cioè che quello che loro vogliono è forse spingerci verso quel ghetto, quella nicchia qual è la letteratura di testimonianza, una scrittura di testimonianza, senza azzardarsi ad andare oltre quei confini perché oltre quei confini ci sono gli italiani doc che hanno il loro territorio di caccia ben demarcato, no?
Beh, pensavo a questa cosa del ghetto autobiografico. Un modo di ribellarsi contro questo sconfinamento è fare un discorso su chi siamo noi e cosa vogliamo. Un altro modo è attraverso l'opera stessa. Ad esempio il fatto che un brasiliano scriva sul problema di un malinteso fatale tra una donna, una casalinga italiana e un arabo residente italiano, credo sia già una risposta. Sono queste le risposte, cioè questi confini a livello di identificazione culturale sono già superati, siamo cittadini del mondo che abbracciano le cause necessarie per un mondo non terribile. Questo si fa anche con la nostra scrittura, con i nostri personaggi. È un progetto della prima vera letteratura mondiale, forse, non come progetto cervellotico come è stato concepito da Kundera e altri che hanno cercato di concepire a tavolino un progetto, ma qualcosa che nasce spontaneamente dalla mondializzazione involontaria, non voluta, delle nostre vite. Siamo noi, all'inizio del ventunesimo secolo, che scriviamo il risultato, il cristallo che vien fuori da quest'alchimia e che per forza dovrà rispecchiare questioni mondiali, problemi che trascendono i limiti nazionali, culturali, linguistici. Volente o nolente, non è quello che vogliamo, è quello che siamo, è quello che siamo diventati, a scapito di noi stessi.

Melita Richter:
Quello che succede nella cultura è un po' quello che succede nella società, l'immigrato è spinto nelle nicchie, nelle nicchie dell'economia, dove tu sai esattamente dove puoi andare a lavorare, perché anche il lavoro è sessuato, dove può andare l'uomo immigrato, dove può andare la donna immigrata… ed è sempre legato a queste funzioni parziali umane, cioè lavoro-immigrato-lavoro, che serve alla nostra economia, quindi è molto funzionale alla società. Però quello che succede alle persone è che si toglie loro la complessità del loro essere umano molto più vasto, per cui noi siamo lì in quella nicchia e fin che sei là e conti quello va tutto bene, se esci fuori c'è già una trasgressione che può esser vista o come fenomeno o come qualcosa che comunque non è il tuo campo… a me sembra una cosa che non è direttamente legata alla letteratura ma che comunque è molto affine, e mi riferisco al lavoro di mediazione culturale nelle scuole. Speso accanto ai nostri nomi, e capita anche a me perché anch'io svolgo questo lavoro, si scrive la provenienza, Melita Richter - Croazia; spesso quelli che ti chiamano vogliono un racconto del tipo se sei dell'Africa raccontami le fiabe africana, cose che sono molto riduttive e stereotipate e se uno vuole uscirne fuori proponendo temi complessi e che sono temi che mancano nel dibattito italiano - come quello dell'identità europea, dell'allargamento, temi sensibili alla mia area, dato che vivo a Trieste, i confini, non-confini, caduta dei muri - se proponi questi progetti ti guardano come se tu fossi di un altro pianeta perché non è più quella cosa precisa sulla Croazia. A me capita di dire, no, non parlo della Croazia, posso parlare della complessità balcanica, perché non si può parlare di un paese escludendo gli altri perché tutto è storicamente legato e intrecciato e non si può parlare di uno solo avulso dagli latri. E rimangono perplessi perché ciò non corrisponde alla loro idea che si sono fatta. E quindi è difficile perché ci hanno un po' messi in queste caselle, ma io credo che individualmente si possa uscire fuori proponendo altro, agendo in altro modo, rispondendo in latro modo, e così si rompono questi limiti, naturalmente è un lavoro duro, perché se sei da solo ti viene da chiederti chi te lo fa fare, ma poi si intrecciano tanti sforzi individuali e si vede che si crea questa rete di progetti molto simili e questo dà coraggio.

Julio Monteiro Martins:
È vero, c'è questa aspettativa molto stereotipata, ma io aggiungo il fatto che a partire dagli anni 70 del Novecento che sempre più le informazioni, dapprima via TV, poi via cinema, poi via internet, l'informazione si è mondializzata, informazione fatta non solo di notizie, ma anche culturale, in quanto strumento di formazione delle soggettività. Ora, un individuo, anche se nato in Uruguay, esposto dalla gioventù a un sistema di informazioni e di formazione della sua soggettività mondializzato, dove eventualmente compare qualcosa del suo paese in percentuale minima in paragone di quello di tanti altri paesi, quando l'individuo va ad esprimersi, a materializzare la sua soggettività in un'opera esterna, è inevitabile che questa mondializzazione si manifesti. Non si può esigere che questo scrittore o artista sia profondamente uruguaiano, perché lui non è più quello. C'è questa forzatura in giro, quasi come se ci fosse la paura di una perdita di carattere, come se un uruguaiano che non parla delle pampas, del gaucho, fosse uno snaturato, un traditore quasi. Ma magari quell'uruguaiano è stato esposto molto di più ad esempio ai problemi sentimentali delle coppie californiane - eh!? - , magari la pampa l'ha vista quand'era ragazzino e poi non l'ha più vista… io non vedo questa nascita della letteratura mondiale come un progetto, quanto piuttosto come una conseguenza naturale dello sviluppo storico, inevitabile. È un abbinamento di fattori diversi. Per esempio: c'è stato questo fenomeno dell'alveare, cioè che il mondo pubblico è diventato il mondo privato, c'è stata una privatizzazione dell'uomo degli anni ottanta soprattutto. Alla fine degli anni 70 e all'inizio degli anni 80, le persone che frequentavano molto di più gli spazi collettivi, le piazze, i bar, la vita bohemien, si sono isolate, con il boom delle videocassette, poi il computer con internet, le e-mail, insomma lo spazio della casa è stato gonfiato e lo spazio pubblico sgonfiato e ridotto. Uno senza lo spazio pubblico, nello spazio chiuso, è molto più soggetto all'informazione dei media, attraverso gli strumenti tecnologici che sostituiscono gran parte dell'informazione diretta che la comunicazione interpersonale aveva fino agli anni 60 e 70. quindi l'uomo post anni 70 è più mondializzato per forza, perché è stato costruito a partire da un sistema di informazione che è per sua stessa natura più interessato a questioni internazionali, oltre i confini. A ciò si aggiunga un processo di colonizzazione culturale soprattutto statunitense che imposto attraverso il mercato, una serie di problemi e questioni che non appartengono direttamente a chi vive in Italia o in Uruguay o dove vuoi. Se mettiamo tutto ciò insieme, si vede che la letteratura prodotta da questi individui non può più rispecchiare una "autenticità nazionale e culturale" che sopravvive solo artificialmente. Ma questo è un passo che la critica deve fare, secondo me gli artisti lo fanno naturalmente, perché non possono fare altrimenti e bisogna che chi studia e scrive su questi fenomeni abbia anche questa comprensione e la smetta di esigere dagli artisti cose che non possono offrire perché loro non sono più così. Sembra quasi Don Chisciotte che deve far rivivere la cavalleria errante, nell'epoca del dominio della borghesia. Allora noi dobbiamo riprodurre un tipo di mondo, di cultura nazionale autentica tra virgolette quando questo mondo sta scomparendo? Noi possiamo solo riprodurre il mondo per come sta diventando, questo sì. Riguardo a questo fenomeno della critica vorrei anche lanciare una domanda per una riflessione: in Italia c'è questo fenomeno, una sorta di schizofrenia, in quanto divisione, come anima divisa. C'è tutta una critica che studia la letteratura contemporanea italiana scritta da italiani. Questi fanno finta di non aver mai sentito parlare di nessun autore migrante. E ci sono altri che scrivono solo sugli scrittori cosiddetti migranti in Italia oggi perché considerano la letteratura mainstream scadente, minore, vigliacca, poco coraggiosa. Non c'è nessuno invece che abbia nel suo concetto di letteratura contemporanea, scritta in italiano, i due gruppi insieme. Per questo parlo di schizofrenia, di divisione. Ebbene, io lancio questa domanda: come si può andare avanti quando due gruppi di critici fanno finta che l'altro gruppo non esista e che l'altra letteratura è inesistente?



Ubax Cristina Ali-Farah:
Mi sembra che verso febbraio o marzo sia uscito su "Nuovi argomenti" una scelta di nuovi autori denominati migranti. Solo che anche lì, come dire, anche noi quando ci hanno chiamato ci hanno chiesto di essere pubblicati come scrittori migranti all'interno di una rivista canonica della letteratura italiana, siccome noi scrittrici che siamo state chiamate eravamo tutte madrelingua - vuoi perché nate qui, vuoi bilingue - ci siamo sentite un po' chiuse da questa cosa dell'essere sempre chiamato per questo… mi sembra che sia quasi come se per il fatto che questa letteratura non esiste allora va bene tutto. Ad esempio queste operazioni tipo l'antologia di Igiaba… io sono contenta che lei che è una scrittrice somala abbia fatto questa cosa e di sicuro lei l'ha fatta spinta da uno spirito di promozione collettiva, però queste sono operazioni molto pericolose perché per quale motivo raggruppare nello stesso libro una serie di autori tutti provenienti dai posti più disparati del globo con storie di generazioni così diverse, tutti quanti nello stesso libro con il titolo "Italiani per vocazione"? secondo me bisognerebbe cercare di affrancarsi da questi fenomeni perché come tu dici a proposito degli stereotipi, cose simili non fanno che accrescerli. Ricordo che un po' di anni fa, quando andai in una scuola materna rimasi molto sconvolta perché con tutti i bambini così ingenui, l'insegnante aveva preparato una cartina gigante dell'Africa completamente marrone con la gigantografia di un bambino africano con su scritto "cioccolatino" (ride). E l'insegnante mi disse "Benvenuta cioccolatino" ed era così ingenua che non si rendeva conto ed io non sapevo cosa fare. Però come fai con i bambini, loro hanno una fantasia tale che li conquisti subito. Ma d'altronde anche per gli africani stessi l'Africa è un buco nero, perché non esiste informazione, non esiste comunicazione da una parte all'altra, e una cosa che mi ha molto colpito è vedere che per noi, della nostra generazione, è così. Per le persone della generazione precedente, quella di mio padre cresciuta negli anni 70, formatasi in Europa, c'è un'idea di comunanza dell'Africa ma che è nata qui, con gli ideali di panafricanismo e anche di comunicazione tra i vari paesi, ma che è nata in Europa, perché in Africa la comunicazione non esiste, e dall'Africa a qui la comunicazione non esiste. E, dicevo, mi colpì molto perché ho scoperto che quando il presidente del Ghana, Nkrumah, morì, in Somalia si cantava per le vie di Mogadiscio una canzone in cui si piangeva per la morte di quest'uomo che era un eroe nazionale anche lì. In questo senso quindi la mondializzazione è positiva però anche qui la questione è difficile, è difficile stabilire quale sia un ideale, un valore positivo… però quello che voglio dire è cercare di essere autentici, di mantenere comunque le cose così come sono, per questo penso alle interviste, alle testimonianze dirette, cioè costruire delle storie con qualcosa di piccolo ma di vero, perché quello è il segno della storia che rimane attraverso la testimonianza dell'individuo singolo.

Carmine Chiellino:
Una domanda concreta: perché lei ha tradotto nel racconto quel passaggio in lingua somala, perché l'ha tradotto in italiano?

Ubax Cristina Ali-Farah:
Forse perché pensavo che così sarebbe stato capito, perché sennò avrei dovuto mettere una nota… non lo so perché, un po' in realtà perché questi sono dei versi composti da qualcun altro e la traduzione naturalmente non è una vera traduzione, è un'interpretazione di quei versi. Sì, essenzialmente per il bisogno di essere capiti. Forse attraverso la voce e il canto si può cantare e recitare anche in un'altra lingua, attraverso la scrittura no, nel senso che se un lettore ad un testo che non capisce salta, non cerca neanche di interpretare, soprattutto in una lingua così differente. Però sarebbe bello poter lasciare l'incognita… Io addirittura nel testo originale non avevo messo i versi in somalo, avevo messo la reinterpretazione in italiano, e poi ho deciso di metterli, quindi ho fatto l'operazione opposta!

Carmine Chiellino:
Quest'operazione è la risposta forte alla paura di dover essere capiti a tutti i costi. È la questione del padrone di casa, lui mi ospita ed io accetto le regole… quindi guai a non rispettare le regole del gioco! Io seguo questa conflittualità ed è noto che la scrittrice italiana Marisa Fenoglio lascia in tedesco tutte le frasi che scrive in tedesco. Io non lo so come funzionano certi meccanismi, so solo che nessuno si permetterebbe mai di tradurre in italiano una citazione in inglese.
Il suo, secondo me, è un problema di estetica, estetica della diversità, oppure è semplicemente una realtà che lei vive e le ha espresse entrambe.

Ubax Cristina Ali-Farah:
Ad esempio io mi sono posta questo problema sul titolo, perché ho spiegato che c'è questa parola che ritorna nove volte, e in somalo è normale che la nipote si rivolga alla zia chiamandola zia. Io l'ho intitolato Madre piccola facendo tutto il collegamento con quello che può significare madre piccola, il concetto di madre…e ho avuto il bisogno di spiegarlo per far capire tutte le connessioni che avevo fatto, perché io in verità, pur essendo cresciuta in Somalia, ho la madre italiana, quindi io l'italiano lo so da sempre, e mia madre non ha mai imparato il somalo, quindi io ho sempre dovuto fare la traduttrice. Lei si sentiva tradita se io parlavo somalo davanti a lei, quindi ho sempre avuto bisogno di tradurre, di mediare linguisticamente, perché molto spesso quando due lingue sono così tanto incomprensibili l'una all'altra, le persone si permettono di dire delle cose che poi tanto sanno che c'è qualcuno che le traduce, che fa da filtro, caricando il traduttore di una serie di tensioni fortissime. Dirò di più, io quando sono qui, mi sono preparata una poesia da recitare in somalo intermezzata nel racconto, ma non ho avuto il coraggio di leggerla.
Secondo me è anche il problema dell'esotismo, cioè quella cosa di cui ci accusava il critico l'altro giorno. C'è sempre il rischio che tutto questo manifestare il mio altro lato, venga recepito come necessità di essere esotica, laddove invece non ne sento il bisogno, quindi io non so quale sarebbe la reazione se io ora leggessi un racconto in italiano e d'improvviso cominciassi a cantare. Anche prima quando ho letto quei versi in italiano, li ho recitati ma andrebbero cantati. Anche il pubblico somalo reagirebbe chiedendosi, "ma questa cosa fa davanti a chi non la capisce"… per me è il problema del doppio.

Carmine Chiellino:
Infatti. Tornando alle aspettative della critica e del lettore, è chiaro che sarà sempre ricerca di esotismo.

Julio Monteiro Martins:
Mi sono venute in mente due riflessioni a partire da queste idee. Una è questa. Tu dicevi dello scrivere nella lingua dei padroni. Per me questa lingua scelta è anche la lingua comune, di comunicazione tra gli scrittori migranti stessi, ed io non sarei sorpreso se statisticamente la maggior parte delle persone che acquistano e leggono i nostri testi non fossero italiani. Quando lei traduce i versi, non so fino a che punto si tratta di sottomissione agli italiani, all'italiano, o sia quel desiderio di fare uso di quella lingua, dell'esperanto possibile. L'altra riflessione è che io vedo questo bisogno interno di tradurre, di fare chiarezza, un bisogno di comunicare, come se ci fosse dentro a questi scrittori… questo lo sento molto io, cioè quando ascolto a volte gli scrittori italiani - come devo dire, nativi, stanziali?! - sento sempre un'espressione un po' rassegnata, un po' annoiata. Quando invece sento questi nuovi italiani vedo questa serietà, questo entusiasmo, a volte anche ingenuo, buonista, però sempre una bramosia di comunicare. Quindi accade che loro dicano cose nella propria lingua e che poi le traducano perché non ci sia possibilità che il loro messaggio non arrivi, è un po' ingenuo se vogliamo, ma è il risultato del traboccare di informazioni, di messaggi. C'è un'urgenza.
Vorrei anche aggiungere un'altra cosa in merito al mio racconto, Il terrorista. È un racconto che parla di italiani e islamici e arabi scritto da un brasiliano. Ma - vedete com'è strana questa cosa della mondializazione della letteratura - bisogna anche dire che quel racconto scritto in Italia con personaggi italiani e arabi, in lingua italiana, è in fondo un racconto latinoamericano. Perché quel tipo di racconto breve, in cui si intercalano dialoghi e paragrafi con il narratore assente, molto breve, con lo scopo di fare una fotografia, un'istantanea di un momento emblematico della vita di una società, di denunciare o rivelare qualcosa, è letteratura latinoamericana! Capite? È questa la bellezza di questo fenomeno! Il fatto che un racconto può essere ambientato in un posto A, nella lingua del posto A, con tutti i personaggi del posto A, scritto da un individuo del posto B che vive da anni nel posto A, ma che però viene capito, inserito nella tradizione letteraria del posto B, e non A. Questo è molto interessante per gli studiosi. Quel racconto è possibile perché risulta da una tradizione letteraria che lo rende così com'è.
Un'altra cosa che vorrei dire, anche come domanda da sviluppare. È molto interessante vedere come tra tutti questi scrittori, qualcuno che viene da certe parti del mondo vuole scrivere sulla realtà nuova del posto d'arrivo, del continente europeo. Mentre altri, soprattutto gli africani, sono molto legati alla tradizione del continente di partenza. Cioè, mentre per esempio nei latinoamericani vedo un taglio netto non con la tradizione letteraria, non con lo stile interno, ma con la tematica, un taglio netto con il passato, per poter abbracciare la realtà attuale, mentre in Africa c'è un'àncora culturale più presente. Ma non so fino a che punto è una vera presenza o una falsa presenza, cioè fino a che punto uno che è qua, come Cristina, ha già ricreato dentro di sé un universo fantastico fittizio, complesso, che è l'Africa dello scrittore e che ha poco a che fare con l'Africa reale. Magari uno non si accorge di quest'operazione inconscia, crede di parlare ancora dell'Africa reale quando l'Africa reale è scomparsa da molto e è rimasto un ricordo. Un po' come la Macondo di Garcia Márquez, una Macondo africana che rimane nell'inconscio e che produce letteratura, narrativa, poesia.

Melita Richter:
Questo non succede solo con l'Africa, anche gli altri luoghi spariscono. Io credo, come si è detto prima, che ciò che si chiede sia una scrittura esotica, una scrittura fiabesca, fittizia, per cui c'è quella nicchia che l'Africa si porta addosso. Quindi è più difficile che un finlandese o uno di Bucarest scriva su questo legame al proprio paese perché non ci si aspetta da loro l'esotismo, ma un altro tipo di critica, di quell'universo del socialismo, quindi anche lì c'è un rischio di rispondere alla richiesta, però probabilmente anche il tipo di richiesta incide. Bisogna vedere quanto siamo autonomi nello scrivere ciò che veramente desideriamo.

Ubax Cristina Ali-Farah:
Per molti scrittori africani c'è il fatto che non possono più tornare, o che difficilmente tornano, quindi credo che il loro sia un po' il canto della nostalgia. C'è uno scrittore somalo abbastanza conosciuto, Nuruddin Farah, che dice che nell'istante in cui aveva saputo di non poter più tornare, aveva cominciato a costruire questa patria immaginaria, e infatti molti lettori somali quando leggono i suoi romanzi non vi riconoscono la Somalia. Perché lui l'ha creata dentro di sé. Comunque uno scrittore ci mette sempre del suo, poi per il mio campo io difficilmente scrivo della Somalia ma più della diaspora e quindi di queste comunità più sparpagliate. Secondo me la risposta sta nella nostalgia, nella consapevolezza di non poter più tornare.

Carmine Chiellino:
È chiaro che nel momento in cui mi trovo a scrivere in una lingua diversa, devo ricostruirmi in questa lingua, attraverso la memoria interculturale, la memoria in cui ricostruisco quello che sono stato, quello che sono. Nel momento in cui descrivo la diaspora, c'è il passaggio dall'oralità alla scrittura.

Julio Monteiro Martins:
Il fatto che la scelta della lingua non è dettata da una questione coloniale, fa sì che anche il ventaglio di culture che questa apporta è molto più ampio e distribuito in modo abbastanza equo. Quando si prende ad esempio il fenomeno italiano, si vede che ci sono culture in eguale misura: quelli medio-orientali, gli africani subsahariani, i latinoamericani, quelli dell'est europeo, e in misura minore quelli dei paesi europei sviluppati e gli asiatici che cominciano a scrivere soprattutto poesia. Però dico, il mondo esterno è molto più rappresentato della letteratura post-coloniale inglese o francese.

Raffaele Taddeo:
Io vorrei dire che c'è un fatto storico per cui gli intellettuali italiani fanno molta resistenza ad accettare contaminazioni della loro lingua. Io ricordo quello che è avvenuto nel 1800: per accettare o assimilare il Romanticismo in Italia ci sono voluti decenni. Lo stesso Leopardi, che poi è diventato romantico, ha scritto opuscoli feroci contro il Romanticismo, proprio perché la grandezza rinascimentale ce la portiamo così dentro che difficilmente si accetta una contaminazione. Io credo che il letterato italiano di oggi si metta a confronto con uno scrittore straniero, ma difficilmente si mette a confronto con uno che scrive in italiano e che non è italiano, proprio perché ha paura che ci sia questa contaminazione linguistica e culturale.

Melita Richter:
Penso che questa questione linguistica si possa allargare alla tematica dell'identità. Quindi lui non è tanto preoccupato per la questione della lingua, ma per l'identità sua. Si chiede come mai ci portano loro dei valori di cui pensavamo di essere noi gli unici depositari. Di qui anche il concetto della lingua che si prende in un altro modo, cioè la lingua come comunicazione o la lingua come simbolo? Se prendiamo la lingua come simbolo, nazionale, culturale, allora gli altri che arrivano da fuori sono intrusi e mettono a rischio la nostra identità. Ci sono certi momenti storici in cui ciò accade, come da noi nei Balcani. Poi invece ci sono fasi storiche in cui la lingua è accogliente e rispecchia anche la volontà di accettare e di essere aperti, come è successo da noi per quanto riguarda la letteratura iugoslava ai tempi dell'impero austroungarico dove Miroslav Krleža scriveva romanzi, drammi, piéce teatrali, poesia, in cui era naturale trovare sia latino, tedesco, ungherese, senza traduzione, perché era l'appartenenza a un'area culturale vasta e anche accogliente. Oggi se uno scrittore croato scrive un testo che usa serbo-croato, cioè gli sfugge qualche serbismo, ci sono i correttori che ripuliscono il testo e pubblicano anche Krleža ripulito. Ci sono certamente delle fasi legate al concetto della lingua, che cos'è la lingua, se io voglio comunicare con te posso anche sbagliare, però il messaggio passa, mi si capisce, comunico, questo è l'importante. Se invece c'è il simbolo allora devi usare la sintassi adeguata.

Julio Monteiro Martins:
Io credo che gli scrittori non italiani che hanno deciso di adottare come lingua letteraria la lingua italiana, una lingua parlata praticamente in un solo paese, un po' in Svizzera, ma non è per niente una lingua internazionale, è parlata da 60 milioni di persone e non 500 milioni come lo spagnolo o l'inglese, insomma coloro che hanno deciso tra tanta scelta proprio l'italiano, sono fieri di quella scelta, hanno una motivazione di fondo di natura estetica, è lì che si può collegare a quella questione del Rinascimento perché anche in questi somali o egiziani o brasiliani o iracheni c'è questa cosa per cui si dicono: io potrei scrivere in inglese, ma io voglio scrivere nella lingua di Dante e Petrarca! È questo il fenomeno curioso perché mentre questa stessa tradizione li rifiuta loro fanno la scelta per amore. È lo stesso innamoramento di chi li rifiuta!

Beh, chiudiamo oggi qui, in questo bel momento di silenzio sazio, no? (ride) Grazie a tutti, vi aspetto tutti domattina alle dieci e mezzo! (applausi)




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