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Scrittori e Scrittrici Migranti
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2° giorno - martedì 19 luglio h. 15,30

Julio Monteiro Martins:
Bentornati a tutti. Questo pomeriggio abbiamo con noi abbiamo l'autore dell'installazione che possiamo ammirare in questa stanza, "Latte materno", poi il giovane scrittore Jadelin Gangbo.


Latte Materno



Installazione di Taiguara Alves Giannotti


Taiguara Alves Giannotti:
Sono molto contento di essere qui e di poter presentare quest'installazione in un contesto che per me è diverso rispetto a come sono abituato ad esporre in pubblico. Ho tentato, non sono se ci sono riuscito, di affrontare il tema drammatico dell'allattamento,o meglio del non allattamento materno in contesti del sud del mondo in cui le multinazionali distribuiscono quantità di latte in polvere senza comunque diminuire la mortalità infantile. Però ho voluto farlo in una chiave un po' umoristica, con quest'etichetta un po' provocatoria, in cui ho sostituito l'immagine di una pornostar a quella di una mamma.
Per me è molto importante la chiave con cui arrivare al fruitore. Mi viene in mente una delle mie prime installazioni in cui mi fu chiesto di fare un presepio. Dopo un primo momento di difficoltà mi è venuto in mente di fare i Re Magi che seguendo la cometa ad un certo punto trovano il muro che avevano progettato di fare tra Israele e la Palestina e quindi non potevano arrivare a Betlemme. Questo era un po' buffo ma drammatico se rapportato agli eventi storici.

Julio Monteiro Martins:
Grazie ancora a Taiguara. Passo la parola a Jadelin Gangbo.


Jadelin Gangbo:
Io non ero preparato per oggi perché non avevo capito che tipo di intervento richiedeva l'appuntamento di oggi. Poi ho chiesto direttamente a Julio se si trattava di lezioni sulla scrittura creativa. Mi ha smentito questa cosa, spiegandomi che appunto era un convegno aperto, però per una settimana mi sono arrovellato per capire che contributo potevo dare, fino a che ieri non volevo neanche preparare qualcosa, volevo venire qua a testa vuota e improvvisare. Però alla fine così succede che non ne esce mai niente di buono, così la mia ragazza mi ha spinto a scrivere qualcosa. Questa cosa qua l'ho scritta ieri e ve la leggo, ok?

Qualche mese fa mi trovavo tra la fila di stranieri davanti alla questura per richiedere il rinnovo del permesso di soggiorno. Non so in quanti di voi hanno presente le dimensioni che a volte possono raggiungere quelle file, ma di media sono lunghissime. Mi è capitato di passarci delle ore, una volta in particolare d'inverno sotto la pioggia. E da quella fila non puoi spostarti per metterti al riparo se piove o se fa un freddo cane. Non puoi lasciare la tua postazione per prenderti un caffè, o approfittare dei tempi di attesa per andare a sbrigare altre commissioni. No, devi stare lì in piedi stretto da altre persone ben sapendo che in realtà il tormento fisico e psicologico è facilmente risolvibile. Avete presente quei tabelloni numerici di cui devi prendere il biglietto ormai installati in tutti gli uffici pubblici e persino nei banchi alimentari dei supermercati e persino in qualche forno di periferia? Ecco basterebbe uno di quelli per liberare gli avventori da una inutile sofferenza fisica. Invece di presidiare in fila prendi il tuo biglietto e intanto aspetti altrove, magari in un bar, in una libreria, visto che di media si tratta di due ore di attesa. L'assurdo è che il suddetto tabellone, nello sportello migranti più popolato della città c'è, esiste, è installato da qualche anno ma non è mai stato attivato.
Così, di questo singolare caso mi trovavo a parlarne con un nigeriano che era in fila con me. Si istaurano questi rapporti di fortuito cameratismo durante l'attesa tra compagni di sventura. Gente con la quale in altri contesti non ti saresti mai fermato a chiacchierare diventano improvvisamente conoscenti intimi. Salta fuori che questo nigeriano mi conosce per via dei miei libri. Dice di avermi visto in tivù . Lui opera nel campo medico a Bologna. Vive in Italia da più di dieci anni e si approcia a me in un modo strano. Fa uso dei vocaboli più eloquenti, ostenta l'accento bolognese. Tra le righe,anche se con discrezione mi spiega che è in attesa della cittadinanza italiana con quella veemenza che caratterizza lo straniero deciso a sottolineare a tutti gli stranieri che non è esattamente uno straniero ma che in un certo senso è in fila per il permesso di soggiorno quasi per errore Non so se è perché ci sente parlare correttamente italiano, una donna che poi scopro essere cilena e impiegata in qualche ramo prestigioso dell'università, ha voglia anche lei di distinguersi dalla massa di stranieri convenzionali. Ogni tanto butta qualche parola nelle nostre discussioni, poi ci si inoltra completamente, anche lei ostentando sempre con finta discrezione di avere dimestichezza con la lingua italiana e delle realtà ad essa connesse. Poi mi accorgo che io sto facendo lo stesso gioco. Anzi che sono la causa motrice di quell'oasi perché allo sbirro che fa da butta fuori mi sono istintivamente espresso con un italiano perfetto, quasi eccessivo, come per dimostrare che nella bolgia di richiedenti a un diritto io ero quello che ne aveva un diritto maggiore al diritto poiché vivo qui da venticinque anni. Avevo voluto mettere le cose in chiaro allo sbirro agli stranieri in fila e sopratutto a me. Così formiamo il nostro capenello di stranieri per sbaglio. Arriviamo ad inserire nelle discussioni spunti intellettuali sulla letteratura italiana ed europea. Argomenti sull'attualità sulla politica interna ed esterna, ma più ne parliamo più emerge un che di discordante tra argomentazioni e qualità degli sguardi. Non coincidono proprio. Non sono chiacchiere spensierate e desiderate, ma sono chiacchiere indispensabili, chiacchiere utili a fuggire un disagio. Chiacchiere che sono una corsa disperata e competitiva volta a mantenere integra l'identità di persone risolte, sane, e non bisognose di cure mediche e di elemosine. Persone che da molti anni sono impegnati ad erigere la propria vita sul territorio italiano ed ora se la trovano divelta alla luce del sole, messa in discussione per poi a seconda di un giudizio essere ricucita con un pezzo di carta. Mentre parli di Musil e di Sartre un frammento di te pensa: "In realtà sono così abbietto da non valere neanche il servizio di un tabellone numerato"
Si è costretti a due ore di fila per poi eventualmente sentirsi dire con estrema facilità che il permesso di soggiorno non è ancora pronto e che devi tornare la settimana successiva. Magari hai fatto i salti mortali per procurati il giorno libero e può anche darsi che tu sia sceso da un paese di provincia a quaranta chilometri di distanza da Bologna. Deve sicuramente fare uno strano effetto sentirsi dire: torni la settimana prossima, così come se le ore di attesa, i problemi implicati all'assenza del permesso di soggiorno e il viaggio intrapreso fino a li si risolvessero in una semplice constatazione sul clima.
Puoi venerare, promuovere e vantare la tua dimestichezza con pratiche più elevate del semplice lavare i piatti. Puoi farti vanto del tuo lavoro di medico, di docente universitaria, di scrittore, elencare dal primo all'ultimo tutti giocatori delle squadre italiane. Rievocare e ridere di alcune vecchie frecciatine di Guzzanti, ma quando arrivi allo sportello e ti senti liquidare come uno straniero di sesta categoria non puoi che uscirne imbarazzato e depresso. Ogni senso di famigliarità e di appartenenza all'universo italiano viene chiuso da forze coercitive che ti spingono a un livello di inferiorità e di dissociazione rispetto a quanto professavi prima e a chi credevi di essere. Te ne vai via e reagisci con ostilità a tutto il complesso e ingolfato organo burocratico. E magari paventi l'idea di piazzare una bomba in questura e visto che ci sei mandi anche al diavolo Guzzanti, Schillacci, Pirandello e tutto il resto.

Diversa è la reazione invece quando ottieni il permesso di soggiorno. Ad un certo punto le discussioni mie, del nigeriano e della cilena erano uscite dal binario autoreferente. Vuoi per forze maggiori, vuoi per esaurimento di argomenti, vuoi per la potenza della realtà contro la sottile cortina di vanità sotto cui eravamo riparati, d'un tratto l'attesa di due ora scatena l'insofferenza verso il sistema burocratico del rinnovo che incombe lungo ed estenuante, mal organizzato. Ci inorridiamo e diciamo che è un sistema selettivo perché favorisce i cittadini migranti americani ed europei e contrasta noi del sud del mondo. Discutiamo della bossi-fini, delle sue nuove normative che impongono al lavoratore straniero di vivere in un alloggio a norma se no è esente da assunzioni e a rischio di espulsione. Ci chiediamo che senso abbia istituire una legge che preveda da parte del datore di lavoro la disposizione di una somma economica pari alle eventuali spese di espulsione del lavoratore straniero. Senza tale disposizione economica il datore di lavoro non può assumere il lavoratore straniero. Ci chiediamo perché la nostra permanenza sul territorio, la nostra vita, i nostri legami affettivi, formativi, la nostra identità, tutto quello che abbiamo creato, guadagnato, ammucchiato, generato fin ora debba dipendere da una lavoro ed essere cancellato in assenza di questo. Perché un contratto di soggiorno, e in concreto perché un contratto di vita?
Più ne parliamo più ci risulta complicato, irreale, illogico questa esigenza da parte del governo di gettare polvere negli occhi di gente che già di suo vive in funzione del lavoro, visto che è qui per lavorare perché altrove lavoro non ne trova. È una forzatura sul niente. Un guinzaglio a un cane che già di suo sta fermo. Una cintura di castità imposta ad una suora in clausura. Si impone il lavoro come cardine esistenziale a gente che gia di suo, per piacere, per desiderio, per esigenza è solita per sino svolgere gli straordinari. Fa turni di lavoro inumani per scelta personale. Gli sta bene passare intere settimane, giorni festivi alla guida di un camion. Ancora prima che fosse indetta la legge bossi fini al siriano a cui veniva chiesto di rinunciare alle ferie per completare un lavoro, lui rispondeva ora come prima di si. I pachistani aprivano e gestivano negozi di orto frutta prima e dopo la bossi fini. Le filippine facevano le badanti. Se a un venditore ambulante che fa giorni interi di marcia con la borsa pesante in spalla per vendere cose di casa in casa, prima della bossi fini gli veniva offerta la possibilità di un lavoro migliore, accettava allora come accetterebbe ora. Stranieri occupati a pulire o ad aggiustare le strade, stranieri che dopo il lavoro prendono lezioni nei corsi professionali, Stranieri che nelle corsie degli ospedali, o alla guida di ambulanza, soccorrono italiani e stranieri. Stranieri che occupano posti di rilievo nelle ricerche scientifiche, o che insegnano all'università, o che scrivono romanzi o che d'estate nelle spiagge aprono e chiudono le seggiole a sdraio dei bagnanti, dimostrano già di per se che lavorare è tra le attività più naturale e indispensabile all'uomo; senza l'ausilio di una spinta coercitiva, egli lavorerebbe comunque. Armarsi in questo senso, cioè premunirsi in termini drastici (perché l'espulsione è un rimedio drastico) vuol dire che non si considerano qualità naturali quelle del lavoratore straniero. Si considera a priori che lo straniero differisce da l'italiano sul piano del istintualità a svolgere un impiego. E in oltre, lasciatemelo dire, preoccuparsi delle spese di espulsione per ognuno di noi è come provvedere a creare un posto in galera per ogni bimbo che nasce. Accettereste mai se dopo il battesimo di vostro figlio venisse il questore a farvi firmare i documenti per le spese di carcerazione del neonato?
Imporre al datore di lavoro la figura del garante abitativo vuol dire che se normalmente un essere umano vive in un casa e fa il possibile per preservala noi stranieri siamo bestie che schiumano per le strade. Al freddo d'inverno ci vedete in famiglie di cinque o dieci figli agli angoli dei bar, sotto ai portici dopo aver lavorato otto ore in una fabbrica. Ci vedete danneggiare le case in cui viviamo, imbrattarle di vernice e sfondarne le finestre e urinare sui divani. Ma poi scusate, imporre il certificato d'idoneità abitativa che nesso ha con il lavoro? Il problema è la casa non a norma di legge? Il problema è che vi abitano più persone di quelle previste dalla legge? Ma sinceramente Chi sta poggio? Di chi è il dramma? Di quei cinque ammassati n un monolocale con l'impianto elettrico che salta e la stufa che funziona a pizzichi e bocconi o di Bossi o Fini. Si certo è immorale, incostituzionale, malsano vivere in cinque in un monolocale, ma perché appioppare la risoluzione di questo problema al datore di lavoro e non semplicemente alle strutture sanitarie. In oltre che opportunità avrei io, nel caso, di regolare la mia situazione abitativa senza il supporto di un lavoro? Per risolvere il problema non basterebbero dei semplici controlli. Non basterebbe piuttosto considerare quelle migliaia di case sfitte a norma areate e spaziose che spuntano ovunque?
Comunque a grandi linee è di queste cose che parlavamo io, il nigeriano e la cilena.
Che nonostante siamo arrivati alla seconda generazioni di migranti, benché figli stranieri popolino gli asili, le classi medie e superiori, nonostante si arrivi a discutere il problema del crocifisso nelle classi, nonostante stia sorgendo un ingente movimento di letteratura migrante e che ormai sia assodato che senza il supporto dei migranti l'economia italiana crollerebbe, non si vedono ancora provvedimenti di legge che vanno a favore dello straniero, Nemmeno le accortezze più esigue come potrebbe essere un tabellone numerico in questura funzionante. Anzi si è ancor più di prima ostinati a vagliare leggi funzionali alla salvaguardia degli ospitanti in perfetto spirito manicheo. contro esseri forvianti congenitamente inclini a infrangere le leggi, gente che ancor prima di essere messa alla prova e che è già stata messa alla prova, va temuta e tenuta con le briglie. Noi tre discutiamo di questa realtà che non va di pari passo con la logica e siamo così accesi e accaldati che ci promettiamo d'ora in poi d'impegnarci. Diciamo: noi stranieri dobbiamo aggregarci in un movimento incisivo prenderci sul serio, discutere e reagire al problema e smetterla di incassare soltanto dei colpi. Le motivazioni sono tante, poi però succede una cosa. Appena varchi lo sportello della questura, dopo due ore di estenuate fila, magari fatta altre quattro volte in precedenza negli ultimi mesi, quando sei in possesso del tanto agoniato permesso di soggiorno il senso di redenzione è talmente elevato da pervaderti l'animo e indurti a dimenticare tutto il tormento che hai vissuto per ottenerlo. È un contrasto tra il prima e l'ora. E' adesso che ti senti in ordine, ora che ha evacuato il tormento. Quel pezzo di carta, facilmente nascondibile in tasca ha ripristinato la tua identità e attesta che per i prossimi due o quattro anni potrai continuare a fingerti italiano e respingere gli orrori che circuiscono l'universo dello straniero. Ora, l'unica esigenza è di tornare a casa e dimenticare che tipo di bestia sei stato in quelle ore di fila sotto la pioggia davanti ad uno sbirro che come un ufficiale delle ss ti urlava in faccia di stare in fila. Riassumi la tua integrità di uomo compiuto dopo quattro o cinque mesi di corse da un ufficio all'altro per avviare la pratiche per il rinnovo. Leggiadro ti senti anche un po stupido per aver insensatamente temuto l'espulsione. La tua dignità di uomo era stata messa in discussione e compromessa ma ora è qui sana e salva nelle tue mani. E ti vergogni anche un po' di aver sviscerato il tuo complesso di inferiorità con degli sconosciuti. Non li guardi nemmeno, quando esci o gli fai un cenno del capo e te ne vai, dimentico di tutti i buoni propositi.
A volte mi chiedo se tale dinamica di schizofrenia non stia alla base anche della realtà degli scrittori migranti. Forse a causa di questo termine "Migrante" che suona come una malattia infettiva, molti di noi hanno remore a identificarsi in tali, Dico forse per non peccare di presunzione. E magari vogliamo appartenere ad una realtà più abbellita, più affabile, più nivea, più ufficiale quale quello della letteratura Italiana. Ma ecco che se per forze maggiori non possiamo appartenervi e quella ci respinge a margine approfittiamo della nostra esclusività per farci forza l'un l'altro, per trarne benefici personali e farci un nome all'interno della scena letteraria attraverso convegni e divulgazioni delle nostre esperienze di scrittori d'eccezione. Sull'altro fronte, intendo sul fronte intimo, non ci accorgiamo di stare respingendo il vero potenziale di tutto ciò a cui è connesso la vera realtà migrante. Mi chiedo solo cosa ne verrebbe fuori in un cambio di prospettive. Cose ne verrebbe fuori se ci lasciassimo assorbire senza resistenze a quella realtà dei fatti che parte dai problemi del lava piatti e imbastisce in un unico movimento a più teste chi scrive un intervento per una conferenza sulla letteratura, e chi si trova in fila per il rinnovo del permesso di soggiorno e chi sta a farsi le ore di straordinari in un una fabbrica? Penso che il minimo comune denominatore sia il temine migrante. Penso che il termine migrante debba essere valorizzato in primo luogo dagli stessi migranti, soprattutto dagli intellettuali che grazie ai canali di loro competenza, grazie alle reti di contatto e alla propria attività di pensatori possono rappresentare un intera scena. Prendere coscienza della propria identità di migrante è per me realizzare di far parte di un movimento più articolato di quanto pensiamo e potenzialmente in grado di germinare un orgoglio devastante e prorompere in qualcosa di completamente nuovo e buono.



(Applausi)



Julio Monteiro Martins:
Una prima osservazione che ho da fare è che mi è piaciuto molto questo testo di Jadelin perché proprio ieri parlavamo di questo bisogno che abbiamo in certi momenti storici di usare il linguaggio letterario come forma di intervento nella vita politica e sociale. Mi sembra che è proprio ciò che lui ha fatto. Anche il suo primo testo, che non è propriamente di narrativa, è come se fosse una riflessione su questioni concrete della condizione dello straniero in Italia oggi, in cui tratta argomenti anche molto concreti, la legge Bossi-Fini, i riti di umiliazione legati al permesso di soggiorno. A Lucca, non so altrove, fino all'anno scorso c'era una fila di ore e non c'era un bagno, e i commercianti dei dintorni non mettevano a disposizione il bagno. E queste sono cose che sembrano secondarie ma invece è proprio attraverso questi piccoli soprusi, riti di umiliazione - mi ricordo un brano di Primo Levi, in un suo bellissimo libro chiamato I sommersi e i salvati, sullo sterminio degli ebrei, in cui narra dei treni che portavano ai lager, il primo segno forte dei nazisti era l'assenza del bagno e forzare la gente a fare i propri bisogni in mezzo agli altri - questi sono riti di ribassamento della condizione umana, di svuotamento, che in Italia si ripropongono attraverso questi episodi e che in alcune zone d'Italia è quasi fatto in modo calcolato, sistematico, per produrre un certo effetto psicologico.

Jadelin Gangbo:
A Bologna, la strada dove si rinnova il permesso di soggiorno è molto stretta e le persone stanno in una fila lunghissima rasente al muro e le macchine della polizia che passano suonano i clacson e le persone si devono spostare. È una logica perversa, è un desiderio loro.

Julio Monteiro Martins:
È un desiderio politico nel senso che l'umiliazione che loro provocano è approvata silenziosamente da un certo consenso, lo fanno con un proposito di soddisfare un tacito consenso, morboso. Però vorrei anche aggiungere che nonostante che il testo di Jadelin sia stato di natura più saggistica che letteraria, è un testo che potrebbe essere scritto solo da uno scrittore, perché è intriso di metafore preziose, di costruzioni poetiche tipo quando dici "mettere il guinzaglio a un cane che lo ha già per natura", una serie di strategie narrative che sono caratteristiche di uno scrittore. Un attivista, un sindacalista avrebbe fatto questo stesso discorso in una forma molto diversa, e il contenuto di questo discorso presenta quell'ira santa di cui parlavo ieri; quando lo scrittore esprime delle emozioni, soprattutto quelle legate all'indignazione e usa il lavoro che ha fatto per tutta la vita, il lavoro letterario, per esprimere nel modo più efficace quest'indignazione, vengono fuori dei discorsi di grande efficacia. Sono contento che Jadelin abbia deciso di scrivere questo testo.
Passiamo ora al dibattito, anche sugli argomenti della mattina.

Vesna Stanic':
Prima di essere cittadina italiana, tanti anni fa, capitava di dover andare a fare la fila per il rinnovo, lo facevo ogni anno. Una cosa che ricordo e che mi ha in qualche modo scioccato perché non ci pensavo nemmeno che potesse accadere in un'Italia così moderna, che mentre ero in fila normalmente un poliziotto mi si è avvicinato e mi ha detto:"lei è qui per la sua domestica?" e io ho risposto: "No, sono qui per me" e ho provato un tale sgomento perché in quel momento ero privilegiata solo perché ero bianca, mi poteva anche fare piacere perché mi ha offerto di andare avanti e scavalcare la fila, ma non lo meritavo.

Julio Monteiro Martins:
Credo che questo clima di ostilità verso gli stranieri in Europa, in Italia, che è un'ostilità molto silenziosa e un po' vergognosa, va contro un'idea già sedimentata del politicamente corretto, per cui le persone non lo esprimono. La mia previsione è che quest'ostilità diventerà molto più intensa nei prossimi anni, ma anche molto più esplicita perché si sta alimentando una paura della perdita del territorio. Questo tipo di discorso finisce per trovare terreno fertile per l'insicurezza. In Italia si dipinge un quadro di benessere che non rispecchia le reali condizioni economiche delle persone che stentano ad arrivare in fondo al mese, per cui il risentimento generato da queste difficoltà economiche dà vita alla paura, a cui si aggiunge la paura che qualcuno porti via loro il paese. Credo che quella convocazione che Jadelin ha messo nel suo testo, che bisogna che gli stranieri si uniscano in un'identità di non italiani per poter articolare meglio… Fino a questo momento la letteratura di non italiani prodotta in Italia ha come cifra la ricerca di identità, è una grossa generalizzazione, ma questa pulsione di combattimento sociale io non l'ho mai trovata. Chiamo Chiellino in questione. Lui ieri commentava il fatto che Cristina Ubax ha tradotto un brano, aveva messo primo l'originale poi l'ha tradotto, dicendo che così si parla al padrone italiano: io mi chiedo, lasciando perdere il linguaggio, sulle tematiche, il patto con la letteratura che cerca di essere divertente, leggera, ad esempio, un libro, uno dei pochi che parla di razzismo in Italia - Imbarazzismi - , non a caso è un libro contro. Non sarebbe anche questo un tentativo di far piacere ai padroni, di dire guarda come sono carino, potrei essere tuo amico…

Pap Kouma:
C'è una difficoltà da superare, gli editori sono i padroni di casa, e sono loro che scelgono i testi. Chi scrive sa quanto è frustrante non poter pubblicare. Alla fine si rischia di adeguarsi e Imbarazzismi risulta un libro simpatico.

Julio Monteiro Martins:
Solo una parentesi per presentarvi Pap Kouma, che domani farà il suo intervento, il pioniere delle letteratura migrante in Italia, il primissimo non italiano che ha pubblicato un libro, quattordici anni fa e anche la mia amica Francesca Caminoli, scrittrice italiana di romanzi in cui i protagonisti sono stranieri che vivono in Italia, pubblicati per la Jaca Book.
Ho letto che molte pubblicazioni hanno una tiratura molto grande, ma il problema della distribuzione è una sorta di ghettizzazione.

Raffaele Taddeo:
Comunque il rapporto dello scrittore con il pubblico comincia a essere diverso. È pur vero che Imbarazzismi ha venduto moltissimo, però è lo strumento con cui l'italiano capisce le proprie contraddizioni, lo strumento con cui l'italiano medio si mette in rapporto anche per superare la propria ignoranza.
Il primo Imbarazzismi di Khossi è apparso nella prima forma in un volumetto in cui non c'era alcuno scopo commerciale, Khossi in quel momento stava facendo l'operazione essenzialmente di combattere la logica di clandestino=criminale. Poi dopo si è ampliato e si è proiettato in una prospettiva diversa.

Julio Monteiro Martins: Questo è chiaro e anche l'efficacia di un libro come Imbarazzismi per un italiano mi è molto chiara. Però bisogna anche riflettere sulla scelta di parlare dell'argomento dello straniero in confronto agli italiani, in quel modo giocoso, divertente, rispetto alla scelta che ha fatto per esempio lui pochi anni dopo, sullo stesso argomento, in maniera più incisiva. Allora c'è qualcosa che sta cambiando….

Melita Richter:
Ma la domanda di base era se qualcuno ha inciso…Quale è il nostro obiettivo, cioè che cosa vuol dire poter incidere sulla società? Vorrei capire qualcosa di più…

Jadelin Gangbo:
Ho chiesto se dal momento che ignoro veramente tutta la realtà della letteratura migrante, volevo informarmi sul fatto che se sta prendendo piede una coscienza della realtà, nel senso che sappiamo o no che siamo ghettizzati? Vogliamo uscirne o vogliamo starci dentro e da lì poi seguire il corso delle cose, preoccupandoci più che altro di raccontare noi stessi, ma non le nostre sfortune, ma, come ha fatto Khossi, raccontando un'idea che aveva lui attraverso le sue capacità di scrittore, senza la necessità di sentirsi ghettizzato, perché sentirsi ghettizzato ha una reazione e un risvolto, mentre sentirsi invece appartenente a una realtà a cui non puoi sottrarti - come succede negli Stati Uniti con i neri, in cui ancora si parla di letteratura black - crea un ghetto. In questo ghetto, le poche persone che ci sono dentro si sentono scoperte e temono, hanno paura e scappano e non si aggregano alla coscienza collettiva, ma perché sono piccoli, e incoscientemente, in modo ignorante, si allontanano. Ma se in ognuno di noi c'è una presa di coscienza e ti chiedi, "ma che passo sto facendo io, sto andando fuori dal ghetto o ci sto entrando per portare un contributo"? Sono due cose secondo me molto diverse e in base a come la vedi, si determina la realtà della letteratura migrante.

Vesna Stanic':
Credo che alla base di chi scrive ci sia anche la voglia di scrivere, di raccontare una storia, lontano dalla realtà, individuale che rifletta la comunità di chi scrive, o di origine o di arrivo, che è lontano da quello che è il saggio e la riflessione fredda su una società. E questi scrittori migranti auspicano di uscire da questa nicchia, di levarsi di dosso questo marchio e di essere semplicemente scrittori. Dunque c'è anche questo fatto che da una parte si accetta la nicchia perché è una conquista, ma dall'altra c'è anche chi partecipa alla problematica e chi capisce meglio certe problematiche fa già parte della mentalità.

Julio Monteiro Martins:
Vale la pena ricordare che non è solo questione del desiderio di aderire a un ghetto, a un'etichetta di scrittori migranti, ma è una questione di un'operazione diversa. Lo scrittore del paese parla con il lettore con una complicità, una storia comune, stessi punti di riferimento, mentre gli altri appartengono a un contesto diverso, cioè non fanno parte delle letterature nazionali. Anch'io ho sempre pensato di voler fare lo scrittore e basta, non scrittore così o cosà. Però comunque tu sei scrittore così o cosà nel senso che l'uomo è l'uomo e le sue circostanze, e noi siamo anche le nostre circostanze che sono quelle di aver scelto o essersi trovati nella situazione di scrivere letteratura nella lingua che non è la tua madrelingua, in un paese diverso da quello dove sei nato

Vesna Stanic':
Io non ho niente in questo senso da ridire sulla denominazione, mi va bene. Però diventa un contenitore che è per pochi intimi, quando diventa un discorso tra di noi e le case editrici non ti danno considerazione, allora questo fatto diventa una prigione.

Julio Monteiro Martins:
È una realtà molto complessa, molto affascinante. Ho un amico che è uno studioso della cosiddetta letteratura migrante, ma è lui stesso un migrante, è brasiliano e vive negli Stati Uniti, fa il ricercatore, e mi raccontava qualche tempo fa, di questa scelta degli scrittori nativi americani che all'inizio non volevano assolutamente scrivere in inglese e pensavano di recuperare come lingua letteraria le loro lingue ma non le conoscevano bene. In questi ultimi anni hanno però scelto di scrivere in spagnolo come lingua d'espressione letteraria, quando loro sono di lingua inglese! È interessante. Credo, e questo è quanto mi ha detto quel mio amico, che loro si identificassero con l'oppressione vissuta nella stessa regione dagli emigranti messicani. Io sono oppresso, voglio scrivere in una lingua che identifica la lingua degli oppressi, che non è assolutamente l'inglese, non posso più scrivere in una delle mie lingue native, dunque adotto lo spagnolo. Bisogna riflettere!

Carmine Chiellino:
Bisogna fare sempre attenzione alla lingua italiana usata nei confronti degli scrittori italiani di provenienza culturale diversa, la lingua italiana così vi viene parlata. Quell'argomento per cui gli immigrati stranieri contribuiscono al clima, è tipicamente ideologico, è un argomento con cui gli italiani stanziali vogliono convincere se stessi sulla necessità della presenza o meno degli operai stranieri in Italia, cioè non è un argomento con cui si riconosce pari dignità a chi arriva, ma un argomento all'interno della maggioranza e quindi nei confronti di chi è portatore, cioè lo straniero, è pura ideologia. Guai a impelagarsi negli argomenti della maggioranza! Non se ne esce più, si resta chiusi nella lingua della maggioranza. A noi in Germania ci dicevano, per convincerci, che la nostra letteratura arricchiva la letteratura tedesca, ma a me sembra una cosa assurda, come faccio io a arricchire una letteratura dove c'è Goethe? E poi spiegavano i miei amici, ma tu pensi veramente che io sia venuto in Germania per arricchirli? In questo modo mi funzionalizzo, cioè l'unica funzione che ho di venire in Germania in funzione di un progetto nazionale, ma non è questo il discorso. Quindi, io ho vissuto questa necessità di dover parlare col padrone di casa usando la sua lingua perché è chiaro che nel momento in cui il padrone di casa mi parla, io devo rispondere. E allora, preso da questo entusiasmo che il padrone di casa mi parla, io accetto la lingua e accetto gli argomenti solo per scoprire poi che questi argomenti sono ideologici e io sono rimasto impelagato in una discussione che non fa parte di me. Il discorso del black power: hanno messo due secoli per arrivare a questa semplicissima frase, black is beautiful, due secoli, tentando di stirarsi i capelli eccetera. Perché ci sono arrivati? Perché l'emancipazione delle minoranze inizia nel momento in cui non reagiscono. Il segreto dell'emancipazione è non reagire agli argomenti della maggioranza, proporne di nuovi, nasce solo da lì. Quindi la letteratura che faccio io in Germania, è una letteratura che non si occupa di quello che si occupa la letteratura tedesca, né tanto meno mi impongo come alternativa, io faccio una letteratura che interessa e piace solo a me, e basta. Abbiamo chiaramente tentato di fare una letteratura impegnata, aggressiva, facevamo il gioco del padrone di casa, reagivamo a quella situazione di disagio che le istituzioni tedesche si costringevano a viver. Questo è un po' il mio parere, cioè che l'emancipazione inizia con questa forza enorme che bisogna avere di non accettare la reazione. Io non reagisco alla Bossi-Fini, io non reagisco alla legge sugli stranieri in Germania, non reagisco neanche al discorso all'interno della letteratura nazionale - per aver successo bisogna far parte della letteratura fuori discorso.

Jadelin Gangbo:
È un po'estremo come punto di vista…

Carmine Chiellino:
È realtà, ed è estremismo. Io all'interno della letteratura che facciamo in Germania, io sono all'estremo. Chiamatemi kamikaze della letteratura, sono quello che dice che bisogna aprire la porta al massimo affinché entri, quindi ci deve essere qualcuno che indichi i limiti estremi del possibile, che bisogna fare questo lavoro. Ma questa è una metafora che usa Don DeLillo, che all'inizio del suo romanzo Underworld, fa veder un gruppo di personaggi che sembrerebbero dei ragazzi che vogliono entrare in uno stadio, solo che lui fa iniziare il romanzo dicendo, io ti parlo nella voce americana. Alla fine si scopre che questa metafora iniziale sono i messicani che vogliono entrare negli Stati Uniti, che lui simboleggiava con lo stadio di baseball. Ne arrivano in tanti ma ne entreranno in pochi.
Tenete presente il vantaggio enorme, senza lamentarvi, che i vostri contemporanei non sono riconosciuti, i vostri scrittori italiani devono lavorare come cani, perché voi avete un'etichetta, ma loro non hanno neanche quella, e quindi loro sono a zero e devono fare un lavoro molto più pesante per avere un minimo, perché non sono riconosciuti né come persone né come tematiche.

Julio Monteiro Martins:
Vorrei commentare questo. Una volta ero a Mestre a un incontro di scrittori e c'erano diversi scrittori italiani doc della mia generazione e uno di questi ha detto: "Sai, qui accanto a me c'è Franceschini, nomi simili, magari io avessi un nome così come Monteiro Martins chissà in che situazione sarei". Quando è stato il mio turno ho detto, "Facciamo una cosa, prendiamo i nostri cognomi, come Monteiro Martins e vediamo quali case editrici li pubblica. Poi prendiamo i nomi degli italiani doc come te e vediamo che le case editrici sono Einaudi, eccetera…". Io pubblico per la Besa, di Nardò, in Puglia, lui pubblica per Einaudi, basta, non c'è argomento.
Il sistema fino a questo momento, istituzionalmente, ha pubblicato solo nelle grandi case editrici scrittori italiani doc, non si vede mai la presenza di uno scrittore migrante. Mentre oggigiorno si sa che è un universo creativo con una sua esuberanza.



Jadelin Gangbo:
È un discorso di protezione logica, matematica, nel senso che nello stato italiano la presenza di scrittori migranti è dell'uno per cento, è ovvio che saranno di più i libri di autori italiani.

Julio Monteiro Martins:
L'elemento statistico conta ma la domanda che anch'io ho messo sul tavolo è non ci sarebbero anche altre motivazioni del tipo una difficoltà di assorbimento di questa novità?

Carmine Chiellino:
Il problema è che all'interno della cultura italiana ci sono due tabù. Il primo tabù è che non si riesce a mettersi d'accordo se in Italia c' è stata la resistenza o la guerra civile, e questo è un tabù su cui si sta lavorando adesso. L'altro tabù è proprio l'emigrazione. Che cosa è successo, che fino agli anni 70 si continuava ad emigrare e ad immigrare, per cui noi ci troviamo in una situazione stranissima rispetto agli altri stati. Una società che non è riuscita ad elaborare il suo trauma dell'emigrazione e che si trova ad essere paese di immigrazione, quindi tutta la conflittualità che c'è dietro si riflette su chi arriva, è questa la situazione difficile, e da qui la nasce la difficoltà enorme di dar voce alla vostra letteratura, perché la vostra letteratura andrebbe lì a far saltare fuori questo tabù e farebbe piangere milioni di italiani.

Julio Monteiro Martins:
Ma la resistenza c'è, cioè oltre al numero ridotto c'è anche una resistenza di fondo. C' è il titolo di un libro del giornalista Stella, molto interessante, " Quando gli albanesi eravamo noi"…

Carmine Chiellino:
Quando "lorda" eravamo noi, lorda nel senso di sporca… ma come si fa? Io sono emigrato ma non sono mai stato sporco! Non ho mai fatto parte dell'orda…

Sigrid Rahimi (spettatrice):
Io vorrei dire che non dobbiamo vederci come vittime, ma che siamo sotto certi aspetti privilegiati, perché un italiano o anche un tedesco qualsiasi in Germania non viene neanche letto da una casa editrice. E trovarci in una famiglia del genere è già qualcosa, è già esserci…

Julio Monteiro Martins:
Io sospetto che la realtà editoriale in Italia sia più o meno questa, credo che il lettore della letteratura migrante pubblicata dalla piccola o piccolissima casa editrice, non ho numeri per provarlo, è fatto di persone coinvolte nel sistema della letteratura migrante, ovvero altri scrittori stranieri, professori che studiano l'argomento, persone interessate alla realtà interculturale, non ha mai graffiato il sistema editoriale, che non è permeabile, magari lo sarà in futuro. Ci sono eccezioni, come Khossi, o Gangbo, ma confermano la regola.

Carmine Chiellino:
Inizia una nuova fase, in Germania siamo arrivati al punto che ogni casa editrice importante ha il dovere di seguire degli autori, perché arriva il momento in cui c'è un nuovo mercato e un continuo rinnovamento.

Julio Monteiro Martins:
Ma c'è anche un aspetto di cui parlavamo io e te ieri in ascensore rapidamente. Mi dicevi che per i tedeschi la presenza degli stranieri è stata in un certo senso un'opportunità, come un regalo, una scommessa e un atto di fiducia, e non so se in Italia c'è la stessa predisposizione. Dicevi che in Germania ci sono molte istituzioni, tante condizioni per garantire la sopravvivenza ai non tedeschi.

Carmine Chiellino:
Sì, ma per le persone regolari. Io credo che anche la vostra letteratura sia un'offerta per la società italiana di riconciliarsi con se stessa.

Pap Kouma:
Io quando parlo di pubblicare non per fare vittimismo, è come un giocatore che viene tenuto in panchina, per tutta la stagione. Chi scrive, almeno per me è così, vuole pubblicare, non basta scrivere. È anche un discorso di mercato, perché io sono un libraio, vendo libri per vivere, e vedo che un libro che arriva, se dopo due settimane non ha venduto nulla, può essere anche il più bel libro del mondo, ma lo mettiamo nelle casse e lo spediamo indietro e l'editore non è contento e questo autore rischia di non pubblicare più. È anche una questione di mercato…è vero che il mercato va stimolato, ci sono dei libri che non valgono niente, ma hanno una pubblicità…tipo "Cento colpi di spazzola", che ha venduto due milioni di copie. Parla di una ragazza di diciotto anni che va in giro a scopare, e basta, però questo libro ha venduto…è vero che è un libro per ventenni e sono loro che lo comprano perché sono curiosi di andare a scoprire i tabù che fanno i loro coetanei, sono curiosi di sapere cosa fa la troia in giro, perché è di questo che si tratta. L'autrice ha scritto un altro libro e sta vendendo un sacco, quindi è una questione di mercato! Attualmente noi che lavoriamo in libreria, vediamo che vanno tanto i libri sulla Cina. Perché non mi faccio chiamare Chin Chan Yun e non scrivo sulla Cina? Perché la Cina, che ora fa paura, qualunque cosa scriva ora stravende? Ora si punta anche su questo, se vendi ti pubblico, se non vendi puoi anche essere il più grande scrittore del mondo ma chi se ne frega!

Vesna Stanic':
Quando io ho tentato di proporre il mio libro , che non parlava della guerra, la guerra era appena finita nell'ex Jugoslavia e volevano solo libri che parlassero della guerra come se non fosse successo nulla prima in quel paese. Ci sono voluti altri anni prima che pubblicassi.

Francesca Caminoli:
Mi aggancio a quello che ha detto lei, siccome a me è successo il contrario. Siccome io ho scritto un libro che parla del ritorno dei profughi, ma un paio d'anni dopo che la guerra era finita, alcuni editori hanno detto che ormai non interessava più. Quindi il problema non è solo degli scrittori migranti, è di tutti quelli che non scrivono "Cento colpi di spazzola", di quelli che hanno da dire qualcosa che non sta dentro le linee, che non fanno un bel prodotto infiocchettato, perché ormai un libro è un prodotto qualsiasi, al pari di una saponetta, di un gelato, quindi se ti va bene stai nelle regole, altrimenti pubblichi con le piccole case editrici. Poi magari qualcuno si accorgerà che le guerre esistono sempre anche dopo che è finita e i valori sono eterni oppure rimarrai col tuo piccolo editore e magari per vivere farai qualcos'altro.

Julio Monteiro Martins:
Se un determinato titolo riesce a trovar spazio nei media, sulle riviste come L'Espresso, Panorama, Repubblica, recensioni lunghe, interviste con l'autore, questo libro può anche essere Cento colpi di spazzola eccetera, o anche un libro serio, ma avrà spazio nel mercato perché abbiamo un forte condizionamento del lettore. I libri che vendono sono quelli di cui i media parlano, perché il lettore acquista libri di cui sente parlare, e questo è anche giusto, perché io come lettore non sono mica un indovino, non posso indovinare che esiste un libro che nessuno ha mai menzionato. Siccome in Italia c'è il connubio, una sorta di lobby tra riviste e case editrici, come ad esempio la Mondadori e Panorama che appartengono allo stesso sistema. Se uno vuole vedere con realismo la questione dei libri in Italia, deve cercare di capire la meccanica interna di questo sistema. Ad esempio se un titolo esce con una piccola casa editrice e per ragioni strane, perché l'autore è molto importante, riesce a ottenere grande spazio sui media nonostante tutto, il libraio finisce per cercare il distributore. La mia impressione è che il nodo centrale è la divulgazione, il connubio con i media, non è la distribuzione, e neanche il contenuto del libro.

Francesca Caminoli:
Ma è anche quanto la casa editrice ha deciso di spingerti…ci sono dei piccoli libri che i fanno strada anche da soli.

Melita Richter:
Secondo me ci sono anche altri fattori, non è solo il nodo dei media, ma anche quanto i media producono le tematiche, cioè giocano con la paura, con il rischio della nostra epoca. L'abbiamo citato prima, il caso della Cina, la Cina va ora, perché si sta creando un nuovo pericolo, o l'11 settembre, casi che inondano il mercato, ma forse non perché qualcuno ne parla, anzi se ne parlasse dovrebbe parlarne male perché la maggior parte di questi libri non intendono svelare i meccanismi, ma si gioca con la creazione del nuovo nemico. E qui vediamo la tendenza nel mondo, è caduto il muro, è sparito il comunismo e ora il nemico si crea nella società musulmana.

Julio Monteiro Martins:
Melita, è vero quello che dici però questo riguarda più i saggi. Io penso a un fenomeno parallelo a questo. A Francoforte c'è la fiera del libro, dove si negoziano i diritti d'autore. Una casa editrice va e acquista i diritti di un libro di Garcia Márquez ad esempio, c'è quasi una sorta di asta e per poter acquisire i diritti si deve spendere molto. Poi devono azionare i loro meccanismi interni di potere nei media, per poter assicurare un ritorno economico a quell'investimento. Questo fa sì che il sistema sia molto conservatore, quelli che sono famosi e costano tanto saranno sempre più famosi perché quell'investimento deve tornare! È un connubio con i media. Uno non spende centomila dollari per dei diritti di un autore straniero se non sa già in anticipo che potrà vendere molto. È questa la grande editoria.

Melita Richter:
Questo non ci tocca. Allora forse ci rimangono solo le cattedre dell'università dove si studia, e anche questo non va bene…

Julio Monteiro Martins:
È vero che è una realtà a cui possiamo accedere in modo molto precario, che non ci riguarda quasi, però è anche vero che noi in fondo apparteniamo a questo universo, cioè se la nostra produzione letteraria, editoriale, sarà residuale, marginale, sarà residuale e marginale rispetto a questa cosa. E questa è la cosa principale che domina.

Carmine Chiellino:
Secondo me ci dovrebbe essere una doppia strategia. È chiaro che chi scrive dovrebbe riuscire a pubblicare, e chi ha dei libri deve riuscire a pubblicare in case editrici visibili che si occupano di questa letteratura. Però c'è un altro fatto, cioè il giocatore in panchina che va a giocare non è che dimostra agli altri che sa giocare, ma in realtà fa un'esperienza in cui conferma a se stesso la tecnica che ha acquisito. Pubblicare un testo, una poesia, un racconto, dà allo scrittore la possibilità di autoanalisi, perché nel momento in cui io ce l'ho, lo scrivo, me lo posso leggere, lo posso sempre cambiare. Nel momento però in cui io l'ho pubblicato, io mi allontano dal testo e posso, se lo voglio, vedere a che livello estetico sono nel mio sviluppo di scrittore. Quindi garantire, lavorare, affinché chi intende farlo possa già accedere a questa forma di pubblicare, liberarsi, credo sia una strategia per arrivare poi ad essere visibili. Dalla discussione interna si ha il vantaggio di poter continuare a diffondere questa letteratura. Ci vuole coraggio per far dirompere queste tematiche nella lingua del padrone di casa, è difficile, perché questo è un po' un sistema perché verrebbe da dire "se tu hai preso la mia lingua perché ora vieni a confrontarmi con dei conflitti?". Immaginate quante volte ho dovuto spiegare ai miei lettori tedeschi che mi dicevano "ma come mai tu che vieni da una tradizione letteraria così brillante, hai scelto il tedesco?", io ho scelto il tedesco per il semplice motivo che voglio sentire me stesso in quella lingua, cioè la mia unica forma di autenticità nella lingua tedesca è che io voglio ritrovare me stesso in quella lingua, io non mi voglio raccontare agli altri, io ho bisogno di una lingua che non mi tradisca, che è reale, in cui io vivo e non per una denuncia. Questo è il mio modello come scrittore, con la grande solidarietà per tutti gli altri che lo vogliono fare. Anche i futuristi, i dadaisti avevano le riviste, come voi, mica avevano la letteratura ufficiale, avevano gli spazi che si erano creati per un motivo di autonomia creativa, questo è un po' il sistema, è una situazione pesante ma è così.

Julio Monteiro Martins:
Le riviste in una letteratura hanno un compito che spesso è sottostimato…
Vorrei commentare la questione della sopravvivenza economica dello scrittore, lo so che spesso sembra un argomento esterno all'attività letteraria, ma io credo, cioè ho visto che c'è un rapporto molto stretto tra l'autonomia economica che uno scrittore può avere in un certo momento storico, e la qualità delle opere che sarà in grado di produrre. Ad esempio in Brasile c'è stato un periodo breve, tra il '76 e il '79, chiamato boom letterario brasiliano, in cui una gran parte della stampa alternativa si è espansa pubblicizzando autori di sinistra, non ufficiali, che in quegli anni hanno raggiunto un pubblico lettore molto numeroso, e per la prima volta questi scrittori non hanno dovuto fare lavoretti, tipo dare lezioni private e lavori scadenti, perchè le case editrici li pagavano bene e potevano dedicarsi solo alle proprie opere. È durato solo per tre anni, ma in quel periodo sono fiorite le opere più importanti di quella generazione. Ad esempio negli Stati Uniti ci sono le università che prendono gli scrittori come resident writers per due anni o più… qua non c'è niente, si dice solo che tutto il mercato è colonizzato da questi titoli stranieri, e io credo che non si sta parlando di una cosa che non ci riguarda, ma si sta parlando di una cosa che ci riguarda per quello che ci impedisce di essere e di fare. Questo l'ho visto di persona, come cambia la qualità collettiva di una generazione, delle persone quando c'è dietro un numero di lettori che acquistano libri, lettori sufficientemente numerosi per garantire la dedicazione esclusiva di quegli autori alla composizione di queste opere.

Melita Richter:
A Graz da un anno c'è questa cosa, che allo scrittore che vince il premio letterario viene dato vitto e alloggio per un anno, e la possibilità di scrivere in pace.

Julio Monteiro Martins:
Sì, ma come negli Stati Uniti io ho l'impressione che siano cose un po' artificiali, con una qualità un po' diversa, di uno che guadagna tremila euro al mese perché un'istituzione crede nel merito del suo progetto, e un altro che guadagna tremila euro al mese perché vende trentamila copie del suo libro al mese. C'è un'energia sociale e culturale nel secondo caso che manca nel primo.

Melita Richter:
Sarebbe bello se in ogni città ci fosse l'assessorato alla cultura e avesse dei fondi riservati agli scrittori, e si desse maggiore autonomia agli scrittori.

Julio Monteiro Martins:
È una situazione tragica, perché anche oggi nel mondo del lavoro, anche per un professore, per un giornalista, quelle attività parallele che lo scrittore deve fare non possono più essere fatte in modo negligente. Ti chiedono di essere competente, efficace nel tuo lavoro e ciò significa che l'energia psichica, e anche il tempo fisico che rimane poi per scrivere è molto ridotto.
Noi in portoghese usiamo la parola alugar, nel senso di affittare, affittare un appartamento, eccetera. Ma la usiamo anche nel senso di essere forzati a pensare a cose, argomenti che non sono quelli che vorrei pensare. Un lavoro parallelo per un artista oggi lo "affitta" troppo, è questo ciò che vorrei dire! Non è problema di spezzare la schiena, è il problema del lavoro intellettuale, perché tu devi mettere in un angolino della mente quello che vorresti esprimere.
Un altro aspetto che mi era venuto in mente e di cui vorrei parlare con voi. Si parlava di questa presenza della letteratura migrante, dell'influenza di ritorno che può fare sulla letteratura di un determinato paese. Una delle conseguenze già percettibili qui in Italia è il riscatto che vedo, sebbene lento ma innegabile, del racconto breve come genere letterario, perché mi ricordo che quando sono arrivato qua dieci anni fa c'era il boom del romanzo e il racconto era sempre considerato un genere minore. Questi autori migranti usano soprattutto il racconto breve, è una tradizione del loro paese d'origine e oggigiorno vedo una presenza più massiccia del racconto breve nell'editoria italiana e credo che queste riviste come Sagarana, El Ghibli, hanno come perno il racconto breve. Hanno proposto il racconto breve come genere letterario e questo sta già cambiando la percezione italiana di professori delle scuole, nel senso di una rivalutazione di questo genere.

Sara Favilla:
Ma le grandi case editrici continuano a pubblicare romanzi! È ancora scomodo il racconto breve, io parlo per la mia esperienza di traduttrice. Ho presentato traduzioni in case editrici e mi hanno detto "peccato che sono racconti, noi vogliamo romanzi".

Julio Monteiro Martins:
Questo è vero. L'altro giorno mi sono inserito in un gruppo di discussione su Google e ho trovato due che facendo dei commenti sui miei racconti dicevano che stavano aspettando che uscisse un mio romanzo. Io avrei voluto entrare nella discussione e dirgli che il mio romanzo è uscito! Comunque a parte tutto mi sembra che ci sia una graduale amnistia del racconto breve.

Melita Richter:
Io vorrei solo aggiungere una cosa. Chiellino prima ha detto del contributo della letteratura interculturale di scrittori che usano la lingua italiana alla società, alla riconciliazione. Ma per me è tropo poco, che me ne frega della riconciliazione della società così com'è? Io vorrei che i testi letterari portassero un'incrinazione su quelli che sono le certezze della società, che la società notasse un cambiamento e magari notasse questa presenza altra. Quindi vorrei spostare l'obiettivo un po' di più, che ci interrogasse su cosa sta succedendo ed evitare la riconciliazione, visto che anche noi ci siamo dentro e che per questo potremmo portare nuove questioni, nuovi temi, nuove domande, nuove esigenze.

Carmine Chiellino:
Io mi chiedevo solo come questa letteratura possa aiutare a società italiana ad interrogarsi su quei valori, ma non mi permetterei mai di proporre come tema questa letteratura.

Sigrid Rahimi (spettatrice):
In Germania l'accogliere questo tipo di letterature è una cosa molto simbolica. Ad esempio, se un ebreo torna, cioè arriva, io penso che finalmente è una società cambiata. O meglio, la vita intellettuale, per tutti gli europei, con lo sterminio degli ebrei, è stata amputata, in modo terrificante. È molto gratificante e necessario avere gli stranieri.

Julio Monteiro Martins:
Io sono d'accordo che è stata una perdita incommensurabile e bisognerebbe che in Germania l'affrontassero in questo modo, ma secondo me l'operazione di eliminazione degli ebrei dall'Europa disgraziatamente è stata un'operazione pienamente riuscita, nonostante la posteriore sconfitta del nazismo, perché dalla popolazione enorme che era è stata ridotta ad una popolazione residuale, tanto è vero che i momenti dopo il periodo in cui la Germania ha capito di essere stata sconfitta, loro si sono ancora più incattiviti verso i lager, e quindi alla fine si è capito che quell'eliminazione era un obiettivo i altissima priorità, quindi l'operazione è stata compiuta e riuscita, questo va detto. Poi sono venuti gli americani, i russi….anche in Italia, ho visto il ghetto ebreo a Ferrara, quartieri interi spopolati, tutti sono stati mandati in Germania e nessuno è più tornato. Gli ebrei non sono più lì, sono morti, quindi purtroppo l'operazione è riuscita. Culturalmente poi per l'Europa è stato un colpo tremendo, questo sì. Ad esempio, basta vedere Vienna, era la capitale della cultura all'inizio del 900, fertilissima, una cultura alimentata soprattutto dall'intellighentia ebrea, e Vienna è stata uccisa, anche come città, da quest'eliminazione, e questo è il segno del vuoto, del buco che è stato lasciato.

Melita Richter:
Lo scrittore Karahasan osserva quello che è accaduto anche a Sarajevo, "Se ne stanno andando i nostri ebrei". È il segno della molteplicità, delle presenze, dell'accoglienza della città. La città si è arricchita dell'esperienza degli ebrei fuggiti dalla Spagna.

Julio Monteiro Martins: Ma prendi per esempio la famiglia di Kafka. Lui è morto, forse anche per fortuna sua, prima dei lager, ma poi non è rimasto un Kafka, sono stati tutti sterminati i membri della famiglia. Quindi, quello che è successo a questa famiglia è emblematico di quello che è successo a tutte le famiglie ebree in Europa, l'operazione di sterminio è stata portata alle ultime conseguenze. L'Europa non si è mai più rialzata, cioè questa vulnerabilità alla colonizzazione culturale statunitense che l'Europa subisce dalla fine della seconda guerra mondiale, secondo me è anche una conseguenza dello smottamento della cultura ebrea nel territorio europeo.
C'è un libro commovente e straziante di Zweig, "Il mondo che ho vissuto", scritto in Brasile, perché lui era un ebreo fuggito in Brasile, dove si è suicidato, in cui racconta l'Europa che ha vissuto, la Vienna in cui ha vissuto, e si vede quel senso di un mondo scomparso, non di una cultura, ma è come si ci fosse stato un buco nero che ha inghiottito l'Europa. Si vede lo smarrimento di un uomo che ha partecipato alla vita culturale europea con molta intensità e che si è trovato totalmente perso, perché ha perso tutto e tutti quelli che avevano vissuto con lui.
Grazie a tutti per quest'oggi, ci vediamo domattina per il nostro ultimo incontro!




INTERVISTA A TAIGUARA ALVES GIANNOTTI

Sara Favilla:
Mi ha colpito molto quest'idea delle bottiglie di latte materno - e poi mi spiegherai tu se è uno spunto tuo personale o se è dettato da sensazioni che ti arrivano da chissà dove, insomma, magari dai mass media, o se è una pulsione tua interiore… Ho letto sul tuo sito che tu sei un artista che si occupa prevalentemente di archeologia industriale, di recuperare, di dare nuova vita agli arnesi di fabbriche dimesse; quest'idea del latte materno quindi mi ha un po' spiazzata, dal materiale inorganico sei passato al materiale organico per eccellenza, la fonte della vita. E mi ha colpito il tono ironico dell'etichetta delle bottiglie, in cui compare questo corpo di donna così opulento…

Taiguara: Sì, questo è un lavoro parallelo alle sculture a cui ti riferivi che fondamentalmente sono fatte con oggetti di recupero, oggetti metallici, ma va anche detto che le casse di metallo che contengono le bottiglie sono state recuperate da un vecchio albergo a Pisa che mi ha regalato un amico. Questo fa parte di un percorso che ho intrapreso qualche anno fa e che è quello di realizzare installazioni artistiche. Normalmente la genesi di queste installazioni è legata a un tema specifico che a sua volta fa parte di un evento, di un qualcosa che mi suggeriscono dall'esterno, è una committenza precisa. Quest'installazione esce un po' da quelle precedenti che erano più legate allo spazio in cui era realizzata l'installazione stessa, mentre questa può essere presentata anche in spazi neutri, in altri contesti come questo. L'idea era quella di affrontare un tema così drammatico, come l'allattamento, o il non allattamento materno, l'uso molto scorretto che molte multinazionali fanno producendo sostitutivi del latte materno nel sud del mondo. Lo spunto era un po' anche questo, di affrontare questo tema così drammatico in una chiave un po' umoristica, e allora mi è venuto in mente di realizzare un litro di latte, usando quest'immagine di due seni così prosperosi presi da una foto pornografica! Mi sono divertito molto a fare questa cosa, c'era anche il desiderio di dissacrare un po' la figura della madre che soprattutto noi maschietti abbiamo sempre difeso - guai a offender nostra madre -, invece usando i seni di una pornostar al posto di un seno materno era un po' un gioco, una provocazione, senza comunque lo scopo di uscire fuori tema.

Sara Favilla:
È la prima volta che ti capita di affrontare temi ideologicamente così importanti, quali appunto l'attenzione a problemi come la povertà nel sud del mondo, oppure il tuo percorso artistico è sempre stato connotato politicamente - in senso lato - caratterizzato da quest'attenzione che tu mostri verso le problematiche sociali, oppure il tuo percorso è totalmente soggettivo e individuale, quindi rivolto su se stesso?

Taiguara:
Credo che per quanto riguarda la realizzazione di queste installazioni artistiche, c' è un doppio binario, un doppio sguardo, quello soggettivo, come qualsiasi creazione artistica che ho fatto finora - ad esempio tornando a quest'installazione, per me il latte materno era anche un desiderio, una volontà di tornare nella mia città, infatti ho proposto questo lavoro in un centro culturale di São Paulo, e quindi è presente questa sensibilità soggettiva - poi c'è l'altro aspetto legato alla mia visione del mondo e quindi è una presa di posizione verso delle problematiche che sento particolarmente vicine. Però devo dire che la tensione verso quest'impostazione è stata un po' casuale perché la prima volta avevo fatto un'installazione in cui usavo reperti di archeologia industriale, delle schede disciplinari degli anni 30-40 di una fabbrica dismessa a Pisa, ed è stato lì in quel momento che ho unito la mia esperienza in fabbrica come ex-operaio, che è anche un'esperienza politica, sindacale, con questo percorso artistico, che sono nati un po' insieme. Per me affrontare un'installazione artistica e temi sociali, è un mezzo per arrivare alle persone con una modalità diversa dai media. In certi contesti credo sia molto efficace questo mezzo.
Il ricordo infantile di mio padre che era un metalmeccanico tornitore che nelle ore di pausa in fabbrica fabbricava anelli, mi è rimasto. Mi ha trasmesso la passione, la curiosità verso il metallo, è un filo conduttore che ha creato una continuità con mio padre, in un certo senso.

Maggiori informazioni sull'artista sono reperibili sul sito internet: www.taiguara.net



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