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Programma della terza sezione del Seminario

Intervento dello scrittore eritreo Hamid Barole Abdu – 15,00

Intervento organizzato dall'associazione CEIS – Lucca, che presenterà un brano tratto dal libro "La vita addosso", Ed. Fernandel 2006 – ore 17,00





 

Julio Monteiro Martins :

Buon giorno a tutti, passo subito la parola ad Hamid che mi chiesto di poter fare lui stesso la propria presentazione.

 


Hamid Barole Abdu
:

Grazie per l'invito, l'ho accettato ben volentieri e mi presento:

Mi chiamo Hamid , figlio di Barole, Barole figlio di Abdu, Abdu figlio di Mohammed, Ali Aini Iba, Mohammed Nur, Ahmed, Hassan, Mohammed, Scium Ahmed, Omar, Abrehé, Scium Barole, Ghib Idda, Gam Idda, Ahmed Macchi (Aralo), Hamid (Idda), Agiab, Mansur, Nasser, Harun, Suleiman, Ahmed, Abbas.

Io sono il frutto di tutti questi antenati, chissà se qualcuno di loro faceva quello che faccio io adesso, se ha caratteristiche che ho io, perché sono una trentina. Una volta ho fatto un conto e pensando che in media ognuno di loro ha vissuto una quarantina d'anni fino all'ultimo delle stirpe Abbas, si può risalire addirittura al 1100, 1200. Mio padre è stato il primo ad imparare a scrivere e a leggere e una volta che ha imparato ha cominciato ad approfondire il suo albero genealogico. Mi ricordo che quando ero ragazzino, si assentava da casa per due motivi. Il primo perché era un poligame e aveva qualche moglie in qualche villaggio sperduto e doveva svolgere il suo dovere coniugale. L'altro motivo era proprio perché passava il tempo ad informarsi dalle persone che conoscevano i suoi antenati per avere più informazioni possibili. Perché anche se queste persone non sapevano né leggere né scrivere avevano una buona memoria. Da noi in Eritrea è difficile che quando uno ti incontra per strada ti chieda: “come ti chiami?”, la domanda comune è: “figlio di chi sei?”. Allora io dico: “figlio di Barola” e lui: “Barola figlio di chi?” “figlio di Abdu”. Incomincia a far lavorare i suoi neuroni e arriva a definire il mio “gruppo etnico” d'origine, come dire lombardo, veneto, toscano…Questo foglio con l'albero genealogico mi è stato consegnato da mio padre, ero da poco arrivato in Italia, era il 1974, ero un ragazzino, però già un po' politicizzato. Allora condividevo tre cose: l'anticolonialismo, l'antiimperialismo e l'antisionismo. Erano i tre slogan di quegli anni. Anticolonialismo perché molti paesi non avevano ancora ottenuto l'indipendenza quindi era una questione che si sentiva; l'antiimperialismo perché a tutt'oggi il male di questa terra è la presenza di carri armati. E antisionismo perché si sosteneva la lotta per l'indipendenza dei palestinesi. Quindi sono arrivato in Italia già formato politicamente sia a livello locale che a livello mondiale, avevo una sensibilità, come si diceva ieri con Francesca Caminoli, sia rivolta all'interno che all'esterno. Ho scoperto di essere un immigrato soltanto un paio d'anni dal mio arrivo in Italia, all'inizio credevo di essere solo una persona che era scappata dal suo paese altrimenti rischiava l'impiccagione o di essere fucilato! Il motivo per cui ho scritto a mio padre e gli ho chiesto di aiutarmi a fuggire era perché ero un attivista politico e in Africa questo significava mettere a repentaglio non solo la propria pelle, ma anche la vita della famiglia. I primi contatti in Italia, li ho avuti con persone anche loro attive, non di sinistra, ma di ultra sinistra! E mi hanno formato, tanto che io non credevo di essere un extracomunitario, termine che allora ancora non si usava, ma quello che si chiama un esule politico. Il contesto nel quale vivevo era così sereno che non mi sentivo di essere un “portatore di cultura”, un “portatore di etnia”, un “etnico”!. Ha un certo punto della mia formazione in Italia, ho scritto un libro, il secondo, “ Akhria ” che in arabo significa l'ultimo. Sono nato in un quartiere in Asmara, nella capitale dell'Eritrea, alla periferia in un quartiere chiamato Afrera. L'Eritrea siccome è molto vicina ai Paesi Arabi, subisce molta l'influenza araba,

questo è un motivo perché ho scelto la lingua araba come titolo del libro, il secondo è perché sono nato in una famiglia mussulmana e imparare il corano da bambino era la prima cosa fondamentale. Nel percorso formativo di chiunque, si poteva scegliere di andare o alle scuole di Stato, o alle scuole italiane (siccome l'Eritrea è stata colonizzata dagli italiani, ma hanno fatto solo del bene, mai del male, ovviamente è una battuta ironica!).

Ma torniamo a me che sono in Italia, il libro di cui parlavo è uscito nel 1996 e in una nota scrivo:

“Appena giunto in Italia, nell'intento di mettere radici ho scelto di frequentare solo amici italiani accompagnandoli nella loro quotidianità, ascoltando la stessa musica, leggendo gli stessi libri. Presto però il contesto sociale in cui con tanto piacere mi andavo inserendo iniziò ad inviarmi input negativi nei riguardi della mia diversità. Più frequenti diventavano questi messaggi, più suscettibile mi facevo nelle varie situazioni, anche in quelle normali. Non riuscivo ad accettare queste incomprensibili circostanze. Diverso? Ma perché? Faccio le stesse cose che fanno i miei amici italiani, ci piacciono le stesse ragazze, ci vestiamo allo stesso modo, ci divertiamo insieme, ci facciamo le canne insieme, ma perché la gente mi considera diverso? Allora il processo di identificazione e di continui rimandi dal contesto generale riguardo la mia negativa diversità provocarono in me una grave crisi di identità.”

Dunque, dopo un'iniziale identificazione con gli italiani, mi scopro diverso, mi guardo allo specchio e mi vedo nero, o negro, come volete. Per esempio vado a chiedere una casa in affitto, per telefono mi dicono una cosa, quando mi presento me ne dicono un'altra, e poi la signora che se mi vede avvicinare stringe la sua borsa, messaggi verbali e non. Mi ricordo che una volta con un mio amico etiope siamo entrati in un bar e il proprietario ci ha detto “io non do da bere a dei marocchini!”. Se non hai un equilibrio, una serenità tua interna, rischi di diventare matto con queste continue aggressioni. Per fortuna io non sono diventato matto. Adesso vi leggo una poesia mia relativa a questo problema. Prego il maestro di accompagnarmi.

 

(accompagnamento musicale di Alberto Chicayban)

 

LA FOSSA 1

 

Non lo vedo

Non lo vedo quel confine

Al di là del quale

Mi imprechi di restare

 

La mente ristretta

Come una linea

Che divide

Me e te

Al di qua e al di là di

Un muro.

 

E' pericoloso!

Ci rinchiude!

Trasforma la tua piccola cella

In un fossa comune

Dove tutti

Fuggiaschi di noi stessi

Veniamo sepolti

vivi.

 

Dici non c'è più spazio?

E' vero, le case sono una sull'altra

Addossate, e soffocate,

soffocano.

Ma è per questo che dici:

E' finito lo spazio?

 

In questo amato spazio e tempo,

Noi avidi e obesi

Divoriamo

Distruggiamo

E sperperiamo

Dentro un egoismo che

Non concede tregua a nessuno.

 

Ebbri di odio violento

Beviamo da un calice di veleno.

Che Dio di Abramo

Ci aiuti!

 

Poiché

Nell'illusione di scacciare l'invasore,

Nel rancore di sentirci rifiutati,

Ciò che ci resta da gustare,

E' il sapore amore della nostra solitudine.


 

Raccontare tutto il mio percorso in così poco tempo non è facile, però per me è importante confrontarmi e condividerlo con persone che io definisco compagni di viaggio, perché tra le cose negative ci sono anche quelle positive. Se io sono riuscito a scrivere e a fare le cose che volevo, evidentemente ci sono anche aspetti positivi in questa mia condizione. Adesso mi ritrovo ad essere un diverso che però ha degli strumenti in mano e può rapportarsi alla pari con gli altri. Vi leggerò un'altra poesia sempre accompagnato dal maestro.

 

(accompagnamento musicale di Alberto Chicayban)

 

 

UN BURATTINO INGRATO 2 <

 

Mi vuoi umiliato

Strisciante ai tuoi piedi

 

Vuoi vedermi recitare

Microfono in mano

Come un burattino

 

Ma tu, vuoi solo usarmi

 

Tu vuoi che io dica

Ciò che le tue orecchie

Desiderano ascoltare

 

Ti aspetti che io scriva

Ciò che tu vuoi leggere

 

Ma questo non è espressione

Dei miei pensieri

 

Vuoi vedermi

Imitarti

Scimmiottarti

 

Non riesci ad accettarmi

Autonomo

Autosufficiente

 

Uomo

Libero

 

Mi accetti

Solo se faccio il tuo gioco

E mi presto ad esserti succube

Inferiore

Dipendente

Come un bambino

 

Mi vuoi imboccare?

Ma io ho le mani per mangiare!

Ti sforzi di pensare

Ai miei problemi

Ma io ho la testa per farlo!

Il mio problema più grande

Sei tu

Col tuo bisogno

Di vedermi sempre

E solo

In condizioni di inferiorità

 

E vorresti evitarmi

Le esperienze negativa

Che a me servono per crescere

Maturare

 

Decidi per me

Quando sono in grado

Di farlo da solo

 

Con quell'abito da samaritano

 

Hai il coraggio di

Venirmi a dire

Che vuoi il mio bene

 

Ma ti rendi conto del

Male che mi fai

Mi distruggi

Minuto per minuto

 

E se io ti imploro di

Lasciarmi assaporare in pace

Uno scorcio di quella libertà

Che ancora non ho conosciuto

 

Per te sono solo

Uno sciagurato

Un cane sciolto

Da emarginare

Isolare

 

Un burattino ingrato


Io scrivo sia della mia esperienza personale che di ciò che vedo intorno, assaporo, tocco. A volte sono drammatico e a volte gioco con le parole, o almeno, io credo di essere drammatico, io credo di giocare con le parole, un'altra cosa è poi ciò che arriva agli altri. Però questo è un problema relativo perché da anni scrivo senza pensare alla ricezione della mia opera, senza preoccuparmi di quello che gli altri possano pensare. Dopo il libro “ Akhria ”, ne uscirà un altro che s'intitola “ Sogni ed incubi di un clandestino ”. Molte persone mi hanno criticato per il libro precedendo dicendo che ero un cane arrabbiato mentre di questo libro hanno detto che ero diventato un cane un po' più addomesticato (io credo di no, opinioni). Vi leggo una poesia di questa raccolta.

 

(accompagnamento musicale di Alberto Chicayban)

 

L'EPIGRAFE 3 <

C'è una tomba nel cimitero

C'è un'epigrafe sulla tomba

Vicino alla tomba c'è una valigia

Dentro la valigia ci sono

I sogni e i desideri di

Un uomo venuto da lontano

Quando ero ragazzo

Avevo un sogno:

Da grande volevo sposare

La ragazza del mio Paese

La ragazza del mio paese

È molto brava e seria

Lei sa come comportarsi in mia assenza:

Non conosce il tradimento, sa essere fedele

Comprendere il mio sacrificio di immigrato

La ragazza del mio Paese

Non beve alcol, non fuma e

Non si fa le canne

Non esce da sola e

Senza il velo in testa

Non provoca gli uomini

Con il rossetto sulle labbra

Né si veste con attillanti mini-gonne

Con i maschi non fa la civetta

Non passa la notte in discoteca

Non va nuda in spiaggia e

Non conosce kamasutra

La ragazza del mio Paese

E' vergine

Non fa l'amore

Prima del matrimonio

Non parla di sesso

Non prova desideri per nessuno

Fuorché per suo marito

La ragazza del mio paese

Non esce di casa

Se non accompagnata dalle sorelle o dalle cognate

Cammina con la testa china

La ragazza del mio paese

Scelta da mia madre e dalle mie zie

Quando le rivolgo la parola

Non mi guarda mai negli occhi

Non alza la voce e

Non mi contraddice

La ragazza del mio Paese

Quando ci sono gli ospiti in casa

Obbedisce in silenzio

La ragazza del mio Paese

Non conosce il tradimento e

Sa difendermi anche quando sono in torto

La ragazza del mio Paese

Non mi chiederà il divorzio

Conosce il valore della famiglia

E la sacralità del matrimonio

La ragazza del mio Paese

E' brava a cucinare, lavare e stirare

E ha sempre voglia di lavorare

Non si impiccia nei miei affari e

Non chiede al marito

Dove ha passato la notte

La ragazza del mio Paese

Sa che il marito può fare tutto

E tutto è per il suo bene

Per questo non contraddice

Anche se non condivide

La ragazza del mio Paese

Non ha pretese

E' dolce, umile e cortese

La ragazza del mio Paese

Sa che io non voglio

Sposare la donna europea

Perchè è troppo libera e disinibita

C'è una tomba nel cimitero

E c'è un'epigrafe sulla tomba

"Qui giace il desiderio di un immigrato

Morto di dolore il giorno che

Incontrò la ragazza del suo Paese

Vestita di bianco, al braccio di un uomo

Fuori da una chiesa Romana"

E adesso che l'epigrafe è pronta

Possiamo seppellire la valigia.


Un' altra poesia.

 

(accompagnamento musicale di Alberto Chicayban)

 

Il cielo di Lampedusa 4

 

Lampedusa,

Una notte come tante

Notte fonda e chiara

Le stelle e la luna

fanno compagnia ad

una nave solitaria

 

Nel Mare del Mediterraneo

Viaggiano senza bussola

Giovani solitari

carichi di coraggio

Tasche piene di speranza

 

Nel Mare del Mediterraneo

I coralli ed i pesci

in silenzio riposano

Testimoni di un viaggio

Verso mete sconosciute

 

Nel Mare del Mediterraneo

Le luci della città timidamente

controllano il silenzio

 

Lampedusa,

E' alba presto

galleggiano in mezzo al mare

frammenti di vita

testimonianze di un viaggio

finito male

Oggi non approderà sulle tue sponde

L'onda umana che spesso

si riversa su di te

Ma non temere, l'onda ritorna.

Sempre


Qui ho la consapevolezza, mentre scrivevo che avevo una sorta di arresa, come un guerriero che si rende conto che può fare più poco. Un'ultima poesia.

 

(accompagnamento musicale di Alberto Chicayban)

 

Seppellite la mia pelle in Africa

Venni in Italia minorenne

lavorai come serva per trent'anni

presso una famiglia benestante

il primo aneddoto che mi dissero:

"Il lavoro nobilita l'Uomo", e

per la donna valeva il doppio sforzo

lavorai per anni e anni

feci nascere bambini

da mamma e badante

e quelli che furono bambini

adesso sono ormai grandi e adulti

si vantano con gli amici di possedere la domestica

anzi la nostra colf è il termine più usato

faticai anche per loro e per i loro amici

così aumentò il numero

persone da servire

senza pausa ferie e riposo

lavorai per lunghi anni

senza conoscere una buona paga

a basso costo

testimone dei loro viaggi

Cuba, Caraibi e Praga

preparai valige infinite

vacanze costose nei mari lontani

bella vita dei miei padroni

dire "Signori è servito" tutti i giorni

ospiti che non conoscono “grazie”

tutto gli è dovuto con presunzione

 

Se sapessi scrivere per raccontare

cose belle sentite e ammirate

come spettatrice di cose viste

 

La cataratta ha indebolito i miei occhi

il mio viso è segnato dai solchi

artrite reumatismi e mille acciacchi

sono miei compagni inseparabili

non sono più buona a fare nulla

priva di forze per i lavori

dentro le mura domestiche

deboli sono ormai le mie energie

mi è faticoso salire le scale

inchinarmi per terra per poi rialzarmi

mi gira la testa e mi viene da svenire

 

Sono ormai inabile al lavoro

non posso chiedere la pensione

contributi mai versati

anni di lavoro in nero

senza contratto

mi svilisce questo angosciante pensiero

vedo il mio destino sospeso nel burrone

una caduta che vorrei evitare

piuttosto vi supplico di rimandarmi a casa

prima di morire sola ed indifesa

il mio desiderio è di ritornare sana

nella mia terra d'origine

così come sono arrivata

prima che mi abbandoni la voce

vi affido il mio ultimo testamento:

"Seppellite la mia pelle in Africa".


Julio Monteiro Martins :

Sento nelle tue poesie, come ho sentito ieri nelle poesie di Barbara, questo tono informale, poesie che sono costruite sul quotidiano, sarei curioso di sapere quali sono state le tue influenze poetiche, quali erano gli autori che tu leggevi.

 

Hamid Barole Abdu :

Ciò che scrivo più che poesie, sono pensieri di ribellione, denuncia e rabbia. Ma siccome mi sono accorto che non viviamo propriamente in delle democrazie, allora ho scelto la forma poetica per poter far passare i miei pensieri ( da ragazzino, siccome ero timido, scrivevo poesie per fare colpo su una ragazza, ma non le davo mai direttamente all'interessata, ma alle sue amiche!). Tra i miei maestri posso citare, e ce ne sono davvero tanti, Aimé Cesaire, Tahar Ben Jelloun, Omar Khayyam, Hikmet, Neruda, Frantz Fanon che per non centra niente, ma è il mio dio, e molti altri.

Per tornare a me, ultimamente sto scrivendo anche storielle, tipo una cosa che ho intitolato: “ Come in spiaggia non farsi scambiare per un venditore di accendini ”, si tratta di una serie di suggerimenti, o meglio vere proprie istruzioni per chi ha la pelle nera ed ha uno zaino e si trova in spiaggia. Ho scritto altre istruzioni di altre situazioni tipo, ad esempio: “ Istruzioni per cercare una casa in affitto ”. Innanzitutto devi cercarti una amica che si chiama Anna e farla chiamare al posto tuo! C'è un'altra storiella che ho intitolato “ Claviceveca, la badante ”, che parla di una donna venuta per fare la badante, ma che poi si ritrova per strada a vendere il proprio corpo. Ho preso spunto da un fatto vero che mi è stato raccontato, cioè una ragazza dell'est è stata arrestata e portata al CPT di Modena dove lavora una mia carissima amica. Questa ragazza ha mandato un po' in tilt l'istituzione perché dentro la sua borsetta non sono stati trovati preservativi. Poi investigando si è venuto a scoprire che la ragazza si trovava in strada e stava iniziando a fare la prostituta da appena 10 minuti, cioè i suoi primi “clienti” sono stati i poliziotti.

 

Livia Bazu :

Ci puoi parlare di com'è nata l'idea di “ Scimmie verdi ”?

 

Hamid Barole Abdu :

Scimmie verdi ” è una performance che abbiamo scritto io e il mio amico Daniele Barbieri, invitati dal Comune di Carpi a parlare di intercultura e immigrazione. Si tratta in sostanza di uno scambio fantascientifico di identità (siccome Daniele è un appassionato di fantascienza), Daniele diventa Hamid e Hamid diventa Daniele. Io faccio un tipo un pò leghista che ce l'ha con gli immigrati che approdano a Lampedusa, incarno il senso comune inframmezzandolo da discorsi seri, scientifici. E Daniele invece veste i panni di un immigrato eritreo. Il tutto è basato sui dialoghi che scaturiscono da un incontro casuale tra questi due personaggi.

 

Barbara Pumhösel :

Comincio subito con una parentesi. Tempo fa ho letto una bellissima poesia “ Telephone conversation ” del premio Nobel nigeriano Wole Soyinka (la traduzione italiana è di Andrea Sirotti), che racconta proprio una delle situazioni che nominava Hamid. La poesia comincia con l'annuncio sul giornale, la telefonata, la descrizione della casa… fino ad arrivare all'imbarazzo della padrona di casa quando apre la porta e vede la faccia del futuro inquilino. E poi volevo fare una considerazione sul fatto che spesso, per leggerezza del lettore o meglio di qualche critico poco esperto e attento, lo scrittore migrante è associato al protagonista del proprio libro. Come se si trattasse sempre di libri autobiografici, questa è una grossolanità.


Julio Monteiro Martins :

Infatti, ad esempio quando uno scrittore migrante decide di usare la forma narrativa della prima persona, nel lettore si crea l'aspettativa che necessariamente il libro si basi su fatti autobiografici. Anche questo secondo me rientra nella cornice degli stereotipi tematici e stilistici. Non è facile per uno scrittore migrante perché a volte la sua verità che è una verità di livello più alto delle aspettative del lettore, e a ragion di logica dovrebbe essere ricevuta con più gioia, invece diventa deludente perché non corrisponde ad un aspettativa più semplicistica e di livello più basso. Tutto gira intorno a questo orizzonte d'attesa.

 

Alberto Chicayban :

Volevo fare una considerazione riguardo a questo orizzonte d'attesa nel caso di uno scrittore migrante. Spesso mi viene l'impressione che ci si attenda dallo scrittore migrante una sorta di autodifesa, che lui abbia il diritto di dire la sua, che quelle siano parole di redenzione “Dai, fammi vedere che tu vali qualcosa!, No?”. Sarebbe un atteggiamento di intelligenza artistica frustrare, già dal principio, questa attesa, cioè rifiutarsi di dire la propria, di fare l'autodifesa. La sensazione che mi viene a pelle è che ci sia proprio questo stato psicologico, in molti, dell'autodifesa.

 

Barbara Pumhösel :

La stessa cosa succede anche con i bambini. Molto spesso ai bambini vengono chiesti in continuazione degli stereotipi e proiettate delle aspettative nei loro confronti (la poesiola per Natale, la letterina per la festa della mamma, la colombina sotto il sole che canta per Pasqua quando fuori in verità grandina!). Ci sono dei bambini che alle recite non aprono bocca e non si prestano alle idiozie di queste rappresentazioni false della realtà, in un qualche modo frustrano, come ha detto Alberto, le aspettative fin dal nascere.

 

Julio Monteiro Martins :

È nota la difficoltà che tutti i paesi occidentali hanno con l'immaginario della sessualità tra anziani, no? Nell'arte poche volte si trovano espressioni realiste della pratica sessuale tra persone in età molto avanzata perché c'è un orizzonte d'attesa che “queste cose non devono accadere”, bisogna poter immaginare la vecchietta buona, serena…

 

T. F. Brhan :

Io mi chiedevo se dietro questa etichetta dello scrittore migrante in verità non ci sia qualcos'altro. Cioè la domanda che mi faccio è se non si voglia invece “catturare” qualcosa di diverso da uno scrittore. Perché se l'aspettativa è quella di una testimonianza del nostro vissuto e delle nostre esperienze, ci viene richiesta una cosa ben diversa dal fare lo scrittore!

 

Hamid Barole Abdu :

Per me è davvero relativo se uno mi definisce poeta migrante o altro. Quello che ho deciso di fare nella vita, in modo sottile, mascherato da poeta è denunciare le ingiustizie che vedo. Io non posso dormire o mangiare tranquillo quando so che ci sono bambini che muoiono perché gli americani gli sparano! Oggi giorno è stato escogitato un modo perché uno possa dire: “io non sono razzista, sei tu che sei negro!”. Adesso non si dice più “sei tu che stai scappando!”, ma “sei tu che ti stai mettendo in condizioni di lasciare il paese!”. Insomma, qualsiasi etichetta mi si dia va bene, l'importante è che mi lascino lo spazio per fare le mie battaglie.

 

Viorel Boldis :

Io vengo definito un poeta migrante, ma nel frattempo la Romania è entrata a far parte dei paesi europei, non so se questo cambia qualcosa… Se mi piace una poesia che leggo, mi piace per i suoi contenuti, il suo stile, non perché il suo autore viene da una qualche regione geografica particolare! Ci chiamano scrittori migranti, ma io non trovo un senso a tutto questo.


Julio Monteiro Martins :

Amici, vi presento Leonardo Butelli, che fa parte dell'associazione CEIS ed è la seconda volta che in occasione del Seminario degli Scrittori Migranti ci troviamo a collaborare insieme. Quest'anno presentano un libro legato alla storia dei migranti in Italia, è quindi una iniziativa in sintonia con quello che facciamo noi della Sagarana. Ma lui vi spiegherà meglio.

 

Leonardo Butelli :

Per festeggiare i trent'anni della nostra associazione, mi venne in mente insieme ad altri amici di attivare un laboratorio chiamato “ La stanza dello scrittore ”, dove nuovi scrittori, abbastanza affermati nel nostro paese affiancassero alcuni migranti presenti nelle comunità e li aiutassero, attraverso la padronanza della lingua e dello stile narrativo, a scrivere racconti partendo dai loro vissuti personali. Coinvolsi scrittori che pubblicano anche per case editrici importanti come la Guanda e li convinsi a cedere i loro diritti d'autore all'associazione. Attraverso queste pubblicazioni potevamo raccogliere anche fondi per sovvenzionare la comunità che accoglie questi migranti che hanno vissuto esperienze spesso tragiche, di carcere, prostituzione, deprivazioni. Ho voluto fare questo libro, direi che è andato anche molto bene, l'abbiamo presentato un po' in tutta Italia e ha suscitato un vivo interesse perché le storie anche se dure vengono raccontate con un linguaggio forte ma al contempo ironico, divertente. In qualche modo speriamo di aver scosso le coscienze degli italiani, se non altro abbiamo seminato un'altra pianticella.

 

Julio Monteiro Martins :

Una piccola premessa, quello che leggerò non è il testo completo, ma un brano del racconto “Domani gioca in porta”, di Enzo Fileno Carabba (su testimonianza di Raul). Il frammento si intitola “La principessa prigioniera”:

 

“Mi sono sempre piaciute le storie in cui c'è una principessa prigioniera e l'eroe deve liberarla e poi la sposa.

Solo che qui è prigioniero anche il principe. Questo rende la storia ancora più interessante.

In questo carcere funziona così: dalle finestre degli uomini si vedono le finestre delle donne e viceversa. La persona vera e propria non la vedi bene, per colpa delle sbarre di cemento. Ma prima di tutto puoi urlare, e poi puoi sventolare dei vestiti o un lenzuolo in un modo che ha un significato. In questa maniera ci fidanziamo a distanza. E addirittura ci sono coppie che poi si sono ritrovate fuori e si sono sposate o comunque messe insieme alla maniera normale. Che resta la migliore.

In quanto a privacy, questo modo di stare insieme basato su urli e sventolamenti lascia a desiderare, perché tutti possono vedere e sentire. Comunque meglio di nulla. E poi concede spazio all'immaginazione.

Insomma mi ero messo con una ragazza italiana di venticinque anni. Lei era molto bella, la intuivo dietro le sbarre di cemento, e da lontano fare l'amore con lei era meraviglioso. A noi due non piaceva comunicare con le urla, lo facevamo di rado, è difficile dire cose romantiche o dolci urlando. Più che altro ci affidavamo all' alfabeto degli sventolamenti. Questo alfabeto funziona in modo molto semplice. Uno sventolio per la A , due per la B , tre per la C e così via. È semplice ma anche complicato: metti che devi dire «zozzo», o «zazzera», ci impieghi mezzo pomeriggio. C'è gente che non fa altro tutto il giorno. Si alza, prepara il caffè e si dà alla corrispondenza. Pranza, si riposa e riprende. E così via per l'eternità. È una cosa molto bella, o molto brutta, non ho capito.

lo mi ero segnato l'alfabeto sul muro, accanto alla finestra, per non sbagliare. Dopo un po' impari, ma io ero lì da poco ed ero insicuro. Non solo devi stare attento quando scrivi, ma anche quando leggi la risposta: perché uno sventolamento in più o in meno può essere cruciale.

Un'altra cosa importante è capire se la tua bella si sta rivolgendo davvero a te. Sennò magari è la bella di un altro e te parli al vento.

D'altra parte questo può succedere anche fuori.

Fatto sta che la mia donna era bellissima e io speravo proprio di incontrarla, una volta fuori, per fare tutte le cose in modo normale.

Il Vecchio sogghignava perché era invidioso. Aveva talmente interiorizzato il carcere che non credeva più nell'esistenza delle donne.

Finalmente è venuta l'occasione per incontrare Laura, sia pure a distanza. All' auditorium del carcere c'era un incontro sui diritti dei carcerati e io e lei eravamo tra gli invitati. Infatti non è che a questi incontri possano andare tutti i carcerati: siamo migliaia. Invitano un gruppetto, tra quelli con l'aria meno moribonda, per fare bella figura coi giornalisti. E anzi, la settimana che precede l'incontro ti danno anche del cibo meno schifoso.

Di solito questi incontri si tengono sotto elezioni. Viene qualche politico che improvvisamente si infiamma per i nostri diritti calpestati, i giornali lo scrivono, il direttore del carcere ribatte che stiamo benissimo ma grazie a lui staremo anche meglio. E tutto finisce lì. Fino alla prossima puntata. In fondo non è male, sai cosa aspettarti: è come un telefilm. È rassicurante.

E poi appunto questi incontri all' auditorium, oltre a essere divertenti, sono le uniche occasioni di incontro col gentil sesso.

Invece c'è chi, anche tra di noi, li prende terribilmente sul serio: annuncia in pubblico che si suiciderà o cose del genere. Questo tipo di esternazione teatrale è comprensibile ma non fa parte del mio carattere. Anche perché poi in un modo o nell' altro, non subito, con molta calma, ti fanno capire che hai sbagliato.

Insomma Laura mi aveva scritto quello che avrebbe indossato, per poterla riconoscere con sicurezza: una felpa verde, i jeans, le scarpe da ginnastica rosa.

Eh sì, bisogna tenere presente che in carcere anche le principesse più nobili vengono private dei loro abiti di seta, glieli ficcano in certi sacchi orrendi.

Naturalmente eravamo due gruppi separati: gli uomini da una parte e le donne dall' altra. In mezzo c'era il corridoio, a dividere i due gruppi come un fiume, e anche le guardie, come alligatori, che facevano battute pesanti a proposito della sessualità.

Noi e le donne non potevamo parlarci, ma solo guardare.

Come Troisi quando deve guardare fisso la ragazza in chiesa in Non ci resta che piangere .

lo ero sicuro che l'avrei riconosciuta al primo sguardo, senza badare ai vestiti, dato che la mia immaginazione conosceva a memoria quello che c'era dentro. Invece non la vedevo.

Tra gli uomini regnava una gran confusione: gli slavi si agitavano. Pensai che fosse la vicinanza delle donne.

Mentre cercavo Laura notai che c'era una slava con aria altera, in piedi, che con la testa e gli occhi faceva dei cenni agli uomini.

Mi accorsi che la confusione era apparente: gli slavi svitavano le viti dalle seggiole, o toglievano pezzi di plastica e tutto quello che era possibile togliere. Le guardie non se ne accorgevano, o li lasciavano fare per divertirsi alle loro spalle. I soliti ridicoli tentativi di evasione degli slavi!

In quel momento è arrivato un altro scaglione di donne. Io la felpa verde, le scarpe da ginnastica rosa e i jeans li ho individuati al volo, solo che Laura ci aveva infilato dentro sua nonna. Sicuramente Laura non si era presentata per timidezza. Eppure quando scriveva sembrava molto disinvolta.

La nonna mi sorrideva ammiccante, anch'io ho sorriso, per rispetto alla famiglia e alle tradizioni.

Però mi è venuto un dubbio tremendo sull' amore.”



NOTE

1 Hamid Barole Abdu, “Akhria – io sradicato poeta per fame”, Libreria del Teatro Ed., Reggio E., 1996.

2 Hamid Barole Abdu, “ Akhria – io sradicato poeta per fame”, Libreria del Teatro Ed., Reggio E., 1996.

3 Hamid Barole Abdu, “ Seppellite la mia pelle in Africa - poesie e brevi racconti”, Artestampa Edizione, Modena, 2007.

4 Hamid Barole Abdu, “ Sogni e incubi di un clandestino ”, AIET Edizione, Reggio Emilia, 2001


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