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1° SEZIONE – Pomeriggio del lunedì 28 Settembre


Julio Monteiro Martins
- Innanzitutto vorrei ringraziarvi per la vostra presenza. Mi fa molto piacere rivedere gli amici e conoscere nuove persone. Questa riunione così “intima” secondo me rispecchia lo spirito della situazione generale in cui le persone che hanno la nostra sensibilità e i nostri valori vivono in questo momento, e cioè, un raccoglimento e allo stesso tempo un riconoscimento di chi gli è vicino, in tutti i sensi, fisicamente ma anche spiritualmente e intellettualmente. Questo ci dà anche l’opportunità di fare un incontro molto informale, una chiacchierata in cui possiamo esprimerci liberamente. Questo nono anno in cui facciamo il nostro seminario cade in un momento molto particolare e molto delicato della storia contemporanea, soprattutto per quel che riguarda il nostro oggetto di interesse che sono gli immigranti in questo paese, e gli scrittori migranti. Non mi ricordo nella storia – forse dagli anni ’30, dalla promulgazione delle leggi razziali precedenti alla seconda guerra mondiale – un altro momento in cui le persone in questo paese siano state criminalizzate come oggi soltanto a causa delle loro origini, non per qualcosa che abbiano commesso. Una cosa del genere non succede in Italia da più di mezzo secolo, e siamo tutti perplessi e spaventati da questa situazione, che si sa come inizia ma non si sa dove andrà a finire, quando finirà. E non si può dire che qualcosa non accadrà mai, o mai più. Per esempio, qualche giorno fa ho visto un’intervista con un tipo su Rai Tre, un tipo un po’ squilibrato, capo di un piccolo partito, qualcosa come Partito italiano, ma che riceve un sacco di finanziamenti. Basta dire che hanno addirittura comprato un elicottero per spostarsi nei loro comizi. Usano una divisa cacchi con una cravatta, molto simile a quella delle SA tedesche. Nei loro progetti di governo – e il tipo è sicuro che il partito crescerà – la prima legge che vogliono far approvare è quella che espelle dall’Italia tutti gli stranieri, con o senza permesso di soggiorno, con o senza la cittadinanza italiana, arrivati dal 1977 in poi. Dicono: “Noi restituiremo l’Italia agli italiani”. Ebbene, non è mica detto che un partito del genere non crescerà… Dico questo perché vengo dall’ esperienza brasiliana e sudamericana. Nel mio paese c’è stata come sapete una lunga dittatura durata più di vent’anni. Ma in un periodo di soli quattro anni tra il colpo militare del 1964 e la chiusura totale del regime nel 1968 ( un periodo dove si godeva ancora di una relativa libertà ), ad ogni tre mesi era annunciata una nuova legge, un nuovo decreto, con norme sempre più restrittive della libertà. Ogni annuncio un po’ peggiore del precedente. E qualcuno diceva: “Così arriveranno agli arresti, alla censura, all’esilio degli oppositori”, mentre altri rispondevano “ma sei matto, queste cose, qui in Brasile, sono impensabili, non potranno mai succedere, accadrebbe il finimondo” . Ebbene, tutto quello che loro dicevano che era “impensabile”, subito dopo diventava non solo “pensabile” ma anche “attuabile”. Oggi io ascolto in Italia lo stesso discorso. Dico agli amici che la situazione può peggiorare ancora, può deteriorarsi ulteriormente. E sempre qualcuno mi risponde: “No. Julio, ti sbagli, certe cose in Italia sono impensabili.” Io, la parola “impensabile”, la vorrei mettere proprio fuori dal vocabolario. Nessuno sa in verità dove sono i limiti tra il pensabile e l’impensabile. Credo che si stia formando un consenso molto superficiale e negativo, un consenso che peggiora ad ogni giorno, non solo in Italia ma in tutta l’Europa riguardo alla presenza dei non-europei in questo territorio. Questo consenso sta prendendo una forma ostile e spesso anche aggressiva, in una progressione inarrestabile. Per esempio, ho letto in questi giorni su “Le Monde” una nota piccolina, nascosta in una pagina interna, in cui si affermava che la politica dei “respingimenti” in mare adottata dall’Italia, e che ha già causato tanti morti, stava per essere adottata anche dalla Francia, imitando il modello italiano. Ho pensato: un’ignominia come questa ora diventa un modello? In uno documentario straordinario, che vi consiglio caldamente, chiamato “Un uomo sulla terra”, si vedono i carceri per gli immigranti nel deserto della Libia, carceri dove rimangono rinchiusi, e spesso muoiono, gli africani di altri paesi dell’Africa che cercano di arrivare in Europa attraverso la Libia. I prigionieri sono anche soggetti a ricatti, c’è chi si fa dare il numero di telefono delle loro famiglie, e le chiamano chiedendo denaro. Ma la cosa per noi più impressionante è che quel carcere terribile è stato costruito con il denaro stanziato dalla Comunità europea, gran parte dato dall’Italia, ma non solo. I giornalisti di origine africana che hanno fatto quel documentario sono andati allora a Varsavia, dove ha sede l’ufficio centrale di questa commissione della Comunità europea legata alle politiche di frontiera, dell’immigrazione. Il presidente è un finlandese, che ha risposto alle loro domande in modo osceno, palesemente ironico, sarcastico, e quando gli hanno fatto delle domande dirette sulla partecipazione dell’Unione europea in questi carceri libici, lui ha risposto: “A me non risulta niente. Bisogna verificare. Io personalmente non ne so niente.” – e rideva. E mi è venuto il sospetto, che trova conferma a ogni giorno, che quello che gli italiani attribuiscono un po’ ingenuamente al governo italiano come una sua politica razzista eventualmente in contrapposizione alla politica consigliata dall’Unione europea, in verità sarebbe l’avanguardia di una politica che l’Unione europea vuole mettere in atto nei prossimi anni in tutto il continente, attuata in modo magari più discreto e con scadenze un po’ più estese rispetto a quelle italiane. Questo rinforza quella mia ipotesi iniziale di che niente è impensabile quando pensiamo al futuro. Dobbiamo prepararci al peggio, pregando perché non arrivi mai. Ora per esempio, insieme alle associazioni pisane e di altre parti della Toscana che lavorano con gli immigrati, sto cercando di creare un Osservatorio dei diritti degli immigranti in Italia. Che cos’è un osservatorio? L’ho concepito con base nella mia conoscenza di altri osservatori del genere, come quello per la difesa dei diritti umani in Cile nel periodo di Pinochet. Si tratta di un nucleo, formato da giornalisti, insieme ad avvocati impegnati politicamente, che ha il compito di smistare le informazioni, dividendole in informazioni in entrata – sistemi come il “telefono verde”, volontari che leggono tutti i giornali, che intervistano altre persone, che ricevono le comunicazioni di altre associazioni di diritti umani, che sono elaborate e poi restituite nella forma di informazioni in uscita, inviate all’Amnistia Internazionale, alla stampa estera, alla stampa nazionale non-razzista, ecc. Un osservatorio è un centro di elaborazione dell’informazione con un scopo specifico, di vigilare sul rispetto della legge e denunciare tutti i soprusi e gli atti arbitrari e illegali contro gli immigrati. Uno strumento così può diventare qualcosa di grande utilità se la situazione peggiorerà ulteriormente. E avrebbe anche un secondo scopo non meno importante, quello di capire cosa c’è dietro le quinte delle nuove leggi. Vi darò un esempio: la legislazione dell’Unione europea determina che, perché uno straniero senza il permesso di soggiorno sia espulso immediatamente dopo l’arresto, bisogna che abbia commesso un reato, e l’Italia fino all’otto agosto di quest’anno, del 2009, doveva seguire questa normativa e procedere in questo modo. Vedete, la vera ragione per cui, nel nuovo decreto italiano chiamato “pacchetto sicurezza” è stato stabilito che l’assenza di documentazione di per sé sarebbe già un reato era per raggirare la legge europea, perché così, una volta che il reato era già stato commesso con la non presentazione dei documenti, soddisfacendo così l’esigenza europea, si poteva procedere con l’espulsione immediata. Una truffa quindi. Così, un osservatorio dev’essere anche uno spazio di riflessione, di comprensione delle motivazioni nascoste dei legislatori, del modo come progettano l’architettura delle nuove leggi per far sembrare che lo scopo è A quando in verità è B. Il nostro seminario della Sagarana di quest’anno, che si svolge in questo momento storico, è impregnato anch’esso di questo significato. Tra le manifestazioni che oggi in questo paese più conferiscono dignità a queste popolazioni numerosissime di stranieri in Italia, quella degli scrittori migranti è probabilmente la più importante. È la manifestazione in cui la vera umanità, e le capacità intellettive e costruttive, le capacità sociali di questo gruppo variegato si manifestano nel suo modo migliore. Come sapete, faccio uno sforzo, che a volte so che sembra incomprensibile, per tenere in vita questo evento, e non è poco che un evento di questo genere arrivi al suo nono anno di esistenza ininterrotta. Qualcuno può dire: “ma venite in così pochi, tre gatti, e sempre le stesse persone, le uniche che si interessano a questa letteratura…” Ed io rispondo che forse è vero, ma l’importante è che ci sia, che non scompaia, che queste voci abbiano ancora, qui in Toscana, a Lucca, questo piccolo spazio dove possano esprimersi. Qui ci saranno oggi una scrittrice polacca, domani uno scrittore algerino, dopo domani una scrittrice siriana, e questi scrittori non possono non avere uno spazio come questo. Secondo me, l’unico modo di misurare la rilevanza di questo evento certo non è con misure quantitative, ma attraverso il significato profondo dell’esistenza di questo evento, in questo momento della storia. Grazie.

E mentre aspettiamo l’arrivo degli altri partecipanti del seminario, che stanno cercando di trovare parcheggio per raggiungerci, vorrei invitare Karim Metref, qui presente, a leggere un racconto che parla di un giorno nella vita di una donna straniera in Italia. Karim, che è uno degli scrittori invitati quest’anno e che parlerà domani, oltre a scrittore è anche il creatore di un sito internet che documenta la letteratura della migrazione in Italia chiamato “Letterranza”. Questo brano è uscito nell’ultimo numero della rivista El-Ghibli, un’edizione dedicata esclusivamente al cosiddetto “pacchetto sicurezza”. Karim, ti passo la parola.



Karim Metref
: Grazie, Julio. Questo testo, in realtà, fa parte di una serie che ho iniziato un paio di anni fa, in Giordania. Una serie che vorrei pubblicare, alla fine, come una raccolta sulla schiavitù al femminile. È stata ispirata, in modo negativo, da una signorina, da una ragazza che si chiama Giorgia, che è romana, e che “forte” dell’esperienza di una laurea mai finita in Italia e un po’ di esperienza di volontariato a destra e a sinistra, faceva il capo missione di una ONG in Giordania, a capo di un gruppo di indigeni locali che erano tutti ingegneri, medici.... Questa signora, convinta di essere lì per democratizzare il Medio Oriente guardava un po’ tutti dall’alto in basso. Un giorno sono andato a questa ONG, come esperto, sono un educatore di mestiere, per fare una breve missione come consulente, e in quella circostanza io e la signorina siamo tornati insieme in Italia in aereo, e all’aeroporto abbiamo visto quattro ragazze di lingua russa ma con dei passaporti del Turkmenistan o dell’Azerbaigian, di una di quelle minoranze russe che sono rimaste sparse per l’impero dell’antica Unione Sovietica, e che di professione facevano l’“artista”. Ed io mi sono chiesto: ma che cosa ci fa un’artista qui in Giordania? Artista? Artista da bar… Sono delle “entreneuse”, ragazze che sono iscritte come “ballerine” ma che in realtà sono delle “entreneuse” o forse delle prostitute, molto probabilmente. E la signorina ha cominciato a dire: “Questo è proprio un insulto alla dignità femminile, queste che vendono il loro corpo al primo minuto”. E io le ho chiesto allora: “Ma tu, sai più o meno una ragazza che nasce lì nella campagna dell’Azerbaigian quante chance ha di avere una vita dignitosa? Di aver diritto a quello che tu chiami la “dignità”? “Ma io piuttosto andrei a lavorare in miniera”, ha risposto. “Ma tu sai cosa vuol dire andare a lavorare in miniera?”. E cosa credi? Che io non ho mai lavorato in vita mia? Io, per pagarmi le vacanze a diciotto anni, sono anche andata a lavorare in pizzeria”. Solo che quelle lì la parola vacanze non sanno nemmeno cosa significhi. E allora ho cominciato a cercare storie di donne che sono state costrette a vendersi in qualche modo, attraverso il mondo, spinte da questi flussi, da questi “push and pull”, che non le stanno portando solo nell’Occidente ricco, ma stanno coinvolgendo anche tanti altri paesi un po’ meno poveri dei loro vicini. Giordania, un piccolo paese di tre milioni di abitanti, accoglie settecentomila iracheni, profughi, la Siria ha due milioni di iracheni soltanto nella città di Damasco, che è cresciuta di due milioni di persone nello spazio di tre, quattro anni, a causa di una guerra in cui la Siria non c’entra forse niente, e così via. Ho cercato di farle capire che le schiavitù sono tante e quella della prostituzione non è sempre la peggiore, e che non esistono soltanto nell’ Occidente ricco, ma ci sono in tutto il mondo, e che la reazione di chi ha un minimo di potere sul suo simile è uguale dappertutto. È terribile come i razzisti si assomiglino, parlano nella stessa maniera, usano le stesse parole e fanno gli stessi soprusi sulle loro vittime occasionali. Questo testo mi è stato richiesto da una rivista che voleva qualcosa che riguardasse gli ultimi sviluppi in Italia su queste situazioni. Il testo è intitolato “Fatima è troppo stanca”:


Fatima è troppo stanca. Non ha più voglia di pensare a niente

Una eternità! Le sembra di essere in questo mondo da un'eternità. Un'eternità, senza mai uscire dal provvisorio permanente. Ha sempre lavorato, si è sempre sbattuta... Invano. Non si è mai stabilizzata da nessuna parte. La sua vita è fatta di pezzi scuciti. È così da quando è nata. Le poche persone che l'hanno amata sono scomparse, quelli che lei ha amato l'hanno mollata. Ma fin che era giovane, bella e robusta, non ha mai accusato il colpo. Si è sempre rialzata dopo ogni caduta e si è subito ributtata nella mischia, senza fiatare. Ma ora è troppo stanca. Non ha più voglia di battersi. Vuole solo stare in pace. Non le importa più niente. Clandestina non clandestina non la interessa più. Lei ha già dato.

Intanto clandestina lo era dalla nascita. Nascere femmina in una famiglia povera e analfabeta in un paese sottosviluppato e con sistema ancora largamente feudale è la peggiore delle clandestinità. Tornare alle origini è una virtù dice il proverbio arabo.


Sono nata in Marocco, più o meno a metà degli anni cinquanta, in una frazione di un piccolo comune a sud della città di Khoribga, in mezzo a terre secche e ingrate che pretendono tanto e ben poco danno in ritorno.

Mia madre singhiozzò appena notò tra le mie piccole gambe l'assenza dell'attributo maschile. Mio padre, per non lasciare equivoci sul suo stato d'animo, le sputò subito in faccia e uscì senza degnarmi di uno sguardo.

Speravano un maschio, un paio di braccia per lavorare, una assicurazione per il loro futuro. Invece ero la loro terza figlia. Una terza bomba ambulante.

Le figlie nel nostro villaggio, per i più poveri, erano un mucchio di guai e basta. Non solo non possono aiutare più di tanto nel lavoro, ma in più devi tenerle continuamente sotto controllo. Basta poco per perdere l'onore in queste comunità dove tutti si conoscono, tutti sanno tutto di tutti e dove nessuno dimentica mai niente.

Fu la zia Amria, una divorziata, ad avere pietà di me, sciagurata come lei. Mi raccolse dall'angolo dove mi avevano dimenticata e mi diede il nome di Fatima. Da allora sono cresciuta malgrado tutto e tutti. Tutti speravano che qualche malattia mi avrebbe spazzata via come le mie sorelle più grandi e ci mettevano anche del loro. Ma io andavo avanti lo stesso. Avevo una salute di ferro. Incassavo lavori pesanti, fame, pugni, calci, vessazioni e colpi del destino senza mai mettere ginocchio a terra.

Ho cresciuto i miei fratellini come se fossi io la loro madre. Ma loro appena grandi impararono a maltrattarmi, come tutti.

Crescevo e diventavo anche bella. Se a casa nessuno se ne era accorto, vicini e parenti maschi cambiarono presto modo di guardarmi.

Negli anni settanta quando mio padre fu chiamato per andare a combattere nel Sahara Occidentale, mi ritrovai ad essere l'unico appoggio per mia madre. Quando ci riportarono la sua salma avvolta in una bandiera, capii che lo sarei stata per sempre.

I miei due fratelli maschi, come ogni maschio desiderato a lungo, crescevano egoisti e presuntuosi. Volevano tutto. Tutto gli era dovuto. Non davano mai niente a nessuno... a parte i numerosi pensieri che procuravano a nostra povera madre.

Giocavo con le bambole fatte di pannocchie avvolte in pezzi di stoffa nell'orto quando capii che il mio corpo era ormai quello di una piccola donna. Fu mio zio più giovane a farmelo capire rovesciandomi in mezzo alle zucchine e ai fagiolini. Mia madre capì subito tutto appena mi vide rientrare in lacrime con il vestito maculato di terra e di sangue. Sapeva di che cosa erano capaci i maschi del nostro vicinato nei confronti di una ragazzina indifesa come me. Sapeva anche che non c'era nessun modo di avere giustizia. Che la colpa comunque era mia e che il disonore l'avrei pagato io. Soltanto io!

Dopo un consiglio di guerra con Zia Amria, decisero di mandarmi via. La zia era ancora in contatto con una lontana parente che faceva la serva in una famiglia benestante. La chiamò e la pregò di piazzarmi da qualche parte. Pochi giorni dopo lasciai la casa paterna per non tornarci mai più.

Il mio fu, da lì in poi, il classico percorso da ragazza indifesa in una società spietata. Più bassi che alti, tanti dolori e poche gioie: sfruttamento, solitudine, umiliazioni, stupri, aborti clandestini... Ma nonostante tutto non cascai mai nella facilità e non mi risolsi mai a praticare il più vecchio mestiere del mondo, come tante di quelle nella mia condizione. Continuai a campare di lavoretti vari. Fin quando incontrai il mio primo marito.

Lo conobbi tramite una amica. Mi disse che viveva in Francia, che era vedovo e cercava una donna per prendersi cura di lui e dei sui figli. Le cose andarono molto veloci. Fece lui i documenti necessari, si occupò di tutto. Due mesi dopo il nostro incontro ero già in macchina con lui diretta verso la Spagna, poi verso la Francia.

Quando mi resi conto dell'impostura, era tardi. Ero già reclusa in una stanzetta di Belleville, costretta ad accogliere ogni giorno diversi clienti. Ma anche quel periodo passò e riuscii a liberarmi, dal mio presunto marito e da quella vita, scappando via, ancora una volta. L'unica cosa che mi aveva insegnato la vita è come limitare i danni nelle cadute. Io sono diventata una artista della caduta. Non ho fatto altro sin da bambina. Cadevo sempre in piedi come una gatta.

Fine anni ottanta sbarcavo in Italia in compagnia di un altro uomo. Mi aveva promesso monti e meraviglie. “L'Italia è un paese nuovo per l'immigrazione, non è saturo come la Francia” - mi ha detto. “Vedrai che saremo felici, lì.” Con lui ho avuto una figlia. È stato il frutto dei pochi mesi di felicità vissuti insieme. Il nostro rapporto si deteriorò progressivamente dopo la nascita della bambina. Cominciò ad ubriacarsi, ogni sera. Poi cominciò a picchiare me e poi se la prese anche con la bambina. Io ci ho provato con tutte le mie forze a tenere, a resistere, a salvare il nostro matrimonio. Ma in vano. L'assistente sociale si presentò un giorno accompagnata dai carabinieri e prese la nostra figlia. La affidò prima ad una comunità e poi ad una famiglia d'accoglienza. Io feci resistenza per un po'. Poi, dopo essere andata a trovarla a casa dei suoi genitori adottivi, vidi che loro le davano molto più di quanto avrei mai potuto darle: affetto, sicurezza, cultura e futuro. Uscì da lì e non la andai mai più a disturbare. Non volevo mettere un'altra naufraga sulla mia barca alla deriva.

Ho tirato avanti comunque. Ho lavorato, ho imparato. Mi sono messa in regola varie volte e altre tante volte sono ricaduta nell'irregolarità. Ho fatto tutta la trafila delle sanatorie italiane, da quella di Martelli in poi. Di lavori ne ho fatti tanti; alcuni belli, altri meno, ma sempre precari: in nero, interinali, contratti brevi, licenziamenti prematuri, vecchietti morti prima del previsto, bambini cresciuti troppo in fretta, crisi, bancarotta... ho visto di tutto.

Ho passato giorni e giorni della mia vita a fare la fila in questura. Ho fornito montagne di cartacce. Non ho mai mollato e ho sempre cercato ad essere in regola con la legge. Ma è la legge che non è mai stata in regola con quelli come me. Non sono mai riuscita ad avere i documenti in regola per la famigerata “Carta di Soggiorno”. Figuriamoci la Cittadinanza.

Oggi, vent'anni dopo il mio arrivo, sono ancora alla casella di partenza. Senza documenti, irregolare, clandestina... Inesistente. Lavoricchio un po' di qua e di là. Vivo in una stanza con due altre donne. Ho poche cose e non ho nessuno. Mia madre è rimasta in contatto con me solo perché le mandavo ogni mese di che sfamarsi e sfamare quei due fannulloni di miei fratelli. Quando è morta si è reciso l'ultimo legame con la mia famiglia. Ora sono come un ramo tagliato dall'albero e trascinato dal torrente della vita.


Fatima è stanca. Non ha più voglia di pensare a niente. Sono anni che lotta senza ingranare nulla, solo amarezza.

Ha saputo della nuova legge. Sa che essere senza documenti è diventato un reato. Ma non ha più voglia di partecipare alla “sanatoria per colf e badanti”. Non ha voglia di spendere i suoi magri risparmi per “comprare” un altro contratto fasullo, ancora una volta. Non ha più voglia di tutto ciò. Ha deciso di continuare ad uscire ogni mattina per andare a fare le sue ore di pulizia, in nero, fin che la vorranno. Ha deciso di continuare a fare la vita che ha sempre fatto negli ultimi due anni. Da quando ha perso l'ultimo lavoro regolare. Da quando tutti le hanno fatto capire che era troppo vecchia per essere assunta.

Pensa che se la arrestano non sarebbe poi così male. Finalmente in carcere, forse, troverà un attimo di pace.


Karim Metref: Questa storia è ispirata a una storia vera, come tutte quelle della serie, poi ho aggiunto tante cose, si tratta in verità della storia di una ragazza un po’ più giovane di questa Fatima ma che vive questa situazione da più di quindici anni, si regolarizza poi ricade, non avendo dove abitare viene respinta, e ci sono tantissimi casi così.


Julio Monteiro Martins: Grazie, Karim. Vorrei invitare ora la professoressa Anna Frabetti, già professoressa alla Sorbonne, ora all’Università Marc Bloch di Strasburgo, che vuole salutarvi.



Anna Frabetti
: Sì, solo qualche parola di saluto e per presentarmi. Sono qui in quanto collaboratrice della Sagarana, dopo essere venuta due anni fa a tenere una relazione appunto sulla letteratura della migrazione in parallelo con la letteratura della migrazione – se così la possiamo definire ancora oggi – francofona, quella letteratura degli autori della francofonia. Di fatto è proprio questa una delle prospettive che mi interessano, cioè cercare di vedere un po’ quale sia oggi il posto di questa letteratura che non è più una nuova letteratura, perché sono quasi vent’anni che esiste, da un lato nella Italianistica, quindi del rapporto con la letteratura italiana, ma ancora di più nella prospettiva che in qualche modo io credo più interessante, almeno dal mio punto di vista, in una prospettiva comparata, cioè, nella relazione con le altre letterature migranti nelle altre lingue europee. Da questo punto di vista quindi cercherò di creare di volta in volta, alla fine di ogni sezione di lavoro, una piccola tavola rotonda di dibattito, per fare in modo che effettivamente si stabilisca un seminario nel senso di un vero e proprio laboratorio con gli autori, critici e studiosi, che di volta in volta si avvicenderanno in questo posto.


Julio Monteiro Martins: Ringrazio la professoressa Frabetti. Ora vorrei chiamare la mia amica, la poetessa e romanziere Barbara Serdakowski. Lei era già venuta qualche anno fa al nostro seminario. Nella sua opera fa un’operazione straordinaria, forse quella più “mondializzata”, e cioè quella di creare le sue poesie con ogni verso scritto in una lingua diversa. Siccome domina tutte queste lingue, perché ha avuto una vita divisa in diversi continenti e in diversi paesi del mondo, e ha anche questo talento naturale per le lingue, questa particolare sensibilità, è riuscita a esprimere nella poesia questa mondializzazione letteraria. Benvenuta, Barbara Serdakowski.



Barbara Serdakowski
: Grazie Julio. Appunto, dopo questa meravigliosa presentazione io non presento oggi delle poesie perché non le ho portate, quelle in varie lingue che ho rappresentato in diverse occasioni negli ultimi anni. Oggi presenterò qualche scritto dal mio libro che è stato appena pubblicato, e infatti è interessante perché è in un certo modo in tema con l’autore di prima, Karim Metref, che aveva parlato di un libro con le storie di donne e diverse realtà. Io, sicuramente come molti autori, fino ad aver finito di scrivere il mio libro non mi sono resa conto che in fondo era la mia storia, diciamo ero convinta di scrivere la storia di una donna che aveva vissuto le vicende di guerra, che io personalmente non ho mai vissuto. Dopo molti mesi, o anni, dopo la conclusione della prima stesura del libro, parlando e presentando il mio lavoro, mi sono resa conto che, in fondo, anche se non avevo mai vissuto io personalmente la guerra, il libro parlava di me. Venendo dalla Polonia, i miei avevano vissuto la guerra lì, e non avendo mai parlato della guerra a casa, mi avevano trasmesso una certa ansia, una certa angoscia, e una certa guerra che era in loro me l’hanno trasmessa comunque, anche se non ne avevano mai parlato. E quindi, anche la mia guerra è ambientata in un posto che non è mai nominato, e che probabilmente leggendo uno si rende conto che saranno i Balcani, una guerra molto più recente, di colpo durante questo testo, rileggendolo dopo, mi sono resa conto che effettivamente erano tutte queste sensazioni mai dette, ma che erano comunque riuscite a passarmi angoscia, stress, visioni di una realtà che poi era mia, perché dei miei genitori… Poi loro nel loro sforzo di portare avanti la famiglia, avevano vissuto in un modo abbastanza sereno, non facendo pesare tutto quello che avevano vissuto e visto. Ma poi, dopo che siamo diventati adulti e andati via di casa, loro si sono pian piano rinchiusi e non hanno più avuto la forza di continuare ad avere tutta quella carica, quel buon umore, quella positività, e si sono essiccati come piante, anche troncando i rapporti sia con me che con mio fratello, cioè troncando fino a un certo punto, avendo rapporti sempre più difficili e ogni volta più lontani, non riuscendo a reggere il peso poi di tutto quello che avevano imbottigliato dentro. E quindi, oggi ho portato proprio il libro, e volevo leggervi qualche pezzo, qualche capitolo. Mi dispiace che non ho portato le poesie in più lingue. Allora… Il libro si intitola “Caterina”. “Quel giorno lei…” (fino a “ti prego”) , poi l’altro che finisce con “non avevamo niente”, e l’altro che inizia con “ci imbarcarano…” e finisce con “adesso ti chiamerai Caterina”. “Quel giorno lei non aprì gli occhi come al solito ma guardò. Guardò a lungo, senza far rumore, e non pianse. Le sue pupille curiose mi svegliarono e rimanemmo minuti ore ancorate, come due persone che si fanno domande senza usare parole. Ruppi io l’incantesimo. Irresistibile, il suo labbro attirò il mio dito e lo sfiorai. Con le manine lei lo prese e lo infilò in bocca, succhiandolo, ridiventata la neonata che era, inconsapevole. Fuori tuonò un’altra bomba, lei sussultò ma io non più, una sola e poi pace. Da quando era nata non avevo più paura, ero pronta a morire a ogni istante. Ma se lei fosse rimasta viva e io fossi morta? Lei viva? Sì per sempre. Mentre la portavo dentro di me morire voleva dire morire per entrambe.

Adesso, invece, lei poteva vivere anche se io morivo. Il latte mi scendeva dai seni ma lei non voleva mangiare, abboccava il capezzolo e poi lo risputava con bolle di saliva e risate. Mi graffiò con le unghiette, mi pizzicò le guance ma non mangiò e i miei seni, dolorosamente respinti, gocciolarono ancora. Misi un asciugamano sul ventre, leccai le dita per non alzarmi, il latte era dolce. Il letto era disfatto, i due materassi, cuciti insieme, si stavano separando, mi mossi per stare più comoda, per guardarla. Anche attraverso le palpebre chiuse la vedevo distintamente. Quel legame non sarebbe durato per molto e mi ci immersi, me ne abbeverai proprio come lei di me. La bimba non piangeva e io non sapevo cosa fare. Potevo soltanto calmarla, cullarla e darle il latte. Non volevo esistere per altro. Scossi le coperte e lisciai le lenzuola. Avrei voluto lavarle ma non si poteva sprecare l’acqua. Josef tornò, mi mise la mano sulla testa. Quando entrò, ero rimasta seduta sulla poltrona a fissare il muro. Vedevo sulla calce il riflesso del suo viso aperto, delle sue braccia allegre, di noi due un tempo abbracciati. Dall’alto, mi lasciò cadere una bustina sulle ginocchia. Era un pannolino Pampers, uno solo. Ridemmo, come due vecchi, scarniti e grigi, il pannolino tra le dita, facemmo tanto rumore con le nostre risa che la bimba si svegliò.

– Oggi non piange.

– Bene, sta imparando.

– Miriam! Guarda! Papà ti ha portato un pannolino.

Lo inchiodammo al muro, lì, sopra il suo lettino. Io non avevo mai pensato di andare via, un’altra

vita, dove?

– Possiamo andare via? – sussurrai.

– È difficile.

– Perché? Conosci tanta gente...

– Quando si deve fuggire non si conosce più nessuno.

Josef non tornò quella notte, il coprifuoco era scattato già da due ore. Non era la prima volta che non tornava, ma quel giorno pensai che fosse morto. Che adesso ero sola, che era più facile fuggire in due, senza di lui, che era sempre pronto a rispondere, a essere arrogante, a metterci in pericolo. Io potevo invece abbassare la testa, tacere, rispondere con poche parole...

Quando entrarono aprii le gambe subito e aspettai che avessero finito. Erano in tre soltanto,

fecero presto. Uno di loro mi diede un panino, il primo mi picchiò sul viso e pisciò sul panino e io restai nuda, senza coprirmi, senza guardarlo. Non avevo sentito niente, non importava, non ero vergine. Niente che non andasse via con acqua e sapone, avrebbero potuto rompermi ma non lo avevano fatto. Ero giovane, il mio corpo poteva ancora vederne altri, per quei tre in più che si erano intrufolati non c’era bisogno di fare tante storie. Senza Josef avrei potuto arrivare fino alla frontiera, da lì...

Adesso Miriam piangeva, finalmente potevo riprendere a consolarla. Mi vuotò entrambi i seni

e si riaddormentò. Fuori si udirono dei passi. Il ventre contratto, mi immobilizzai sul letto. Potevano entrare, niente li avrebbe fermati, erano tornati per finire il lavoro. E se lei fosse morta prima e io no? Non mi avvicinai al lettino, non volevo salutarla per l’ultima volta, doveva morire come se niente fosse, come se fosse normale che la sua vita finisse qui, così. Non era più in me, poteva morire come una persona. Aveva già visto il mondo, ora poteva anche lei morire. Io non c’entravopiù.

– Josef sei tu... amore mio.

Il mio fiato si spense sul suo collo.

– Possiamo provare.

– A fuggire?

– Sì.

– Non voglio più, ti prego.

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Quel giorno uscii in strada da sola. Gente ce n’era, ma non la stessa di sempre. Non riconobbi

nessuno. Osservai i lampioni come fossero nuovi. Erano in metallo grigio-verdastro, con alla

base dei piedi a forma d’intrinseco fogliame, colati. Per la maggior parte le cupole di vetro erano

rotte ma lungo il vialetto alberato, con il solco di cemento pallido, facevano ancora bella figura.

Erano forse le quattro, la luce cominciava a tingersi d’arancione, mi sedetti su una panchina,

chiusi gli occhi e sentii sparare vicino. Avevano sparato a me. Non lo sentivo ancora ma ero già

morta. Anzi, non lo sentivo perché ero già morta. Non volevo aprire gli occhi, o forse non potevo

aprirli più. Non ero pronta ancora a vedere ciò che c’era dall’altra parte. Era strano perché mi sentivo ancora seduta sulla panchina con le ginocchia accavallate e la scarpa che dondolava sulla punta del piede. Mi passai la mano sulla testa e gli occhi si aprirono da soli. Ero davvero

ancora sulla panchina, l’agitazione echeggiava adesso a ogni grido più distante da me, verso l’interno del quartiere, più lontano. Gli alberi si mossero col vento, forse la luce era calata un po’.

Josef è tornato. Era stato picchiato. Gli mancava un dente, sembrava uno zingaro. Volle abbracciarmi ma lo respinsi, mi faceva senso. Dovetti guardare da un’altra parte quando prese Miriam tra le braccia. Mia madre gli preparò una minestra di bietole rosse e gli tagliò i capelli con le sue forbici da sarta. Fuori si sentivano fischi di spari e urla. Tra poco sarebbero venuti per portarci via. Adesso tutti partivano. Mia madre mi disse di non fare la sciocca. Voleva dirmi qualcosa.

Io lo sapevo che qualcuno era morto, stavamo morendo tutti e le dissi:

– Non dirmi niente.

Ma lei non era Josef, e non si accontentò di guardarmi. Esplose, gridò, e mi parlò dei morti e degli scomparsi e io piansi con lei, con Miriam tra le braccia che piangeva con me. Mi disse di

non trattenere Josef qui, di andare via subito, che anche lei sarebbe venuta adesso che mio fratello era scomparso, che era forte e che mi avrebbe aiutato con Miriam, che aveva soldi nascosti e che nient’altro importava. I fiori che aveva comprato erano appassiti, era tempo di andare.

Vivere come fanno i gerani. Là dove appassiscono rinascono subito nuovi boccioli dal colore

così intenso, così vitale. Non alzavo gli occhi da terra, non ero una sfollata. Non conoscevo nessuno, la città non era mia. Ero di passaggio, mi ero trovata lì per caso, la donna vicino a me mi era sconosciuta anche se la chiamavo madre. Vidi da lontano la signora Sosanna col marito, era grassa e spettinata, le case che conoscevo erano quasi tutte vuote, con le finestre rotte e l’erba incolta.

Tutto questo non era più mio. Quando si parte, dopo pochissimo, si viene pervasi dalla nauseante paralisi delle membra. Ogni movimento costa una fatica insormontabile.

Pensai di non farcela più, ma poi scivolai per chilometri senza nemmeno rendermene conto. Nella casa avevamo lasciato tutto, Josef aveva sbarrato le finestre e la porta con tavole di legno ma lo sapevamo benissimo che non sarebbe servito aniente. Sapevamo che tutto quello che stava dentro quelle mura ormai non ci apparteneva più, fino all’ultimo copriletto, all’ultimo soprammobile, all’ultimo paio di ciabatte vecchie.

Per strada c’era gente con pacchi pesanti e visi raggrinziti, carretti e bambini piegati in due con zaini stracolmi che stringevano in braccio qualche balocco che non era potuto entrare più da

nessun’altra parte. Non so dove avrebbero portato tutte le cose raccolte, dove le avrebbero nascoste, cosa ne avrebbero fatto. Fuori dalle case perdevano il loro utilizzo, diventavano memorie, e quelle tanto valeva tenerle in testa, per poterle eventualmente, un giorno, dimenticare. Ero orgogliosa di noi, che non avevamo niente.

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Ci imbarcarono per diversi paesi. Non servì a niente dire che aspettavo Josef. Non servì a niente

scucire il passaporto. Mi dissero che dopo, quando tutto fosse finito, sarei potuta tornare. Che loro avrebbero ritrovato Josef e lo avrebbero mandato da me. Ma come? Josef era rimasto lì, senza testa, nel fango, senza nome. Cominciai a ridere, a ridere forte. Una ragazzina mi venne

vicino, mi toccò il viso con entrambe le mani e sussurrò: “Non piangere, si va via, si va via!”. Vennero alcuni autobus e ci contarono come pecore. Eravamo in fila, per la prima volta ordinatamente. La gente era intimidita ma negli occhi si vedeva l’eccitazione della partenza. Ci sarebbe stato ancora da affrontare delle ore in autobus e chissà quanti altri disagi. C’era chi dubitava e diceva:

“Non è vero che ci portano all’estero, sono tutte frottole, ci portano ai campi di sterminio, lo so io, loro dicono sempre così, poi ci fregano. Non ascoltateli, rimanete qui, la guerra finisce tra poco, si torna a casa, avete capito, branco d’imbecilli, si torna a casa”.

C’era una coppia vicino a me, lui diceva “vai”, lei “vieni con me” lui diceva “poi ti raggiungo” e lei diceva “vieni, ti prego”.

Gridavano: “Germania! Svezia! Italia! Spagna!” Io partivo. Mi feci avanti e furono gentili. Mentre salivo sulle traballanti scale di metallo cromato sentii l’aria calda dei reattori alzarmi la gonna e scompigliarmi i capelli. Li lisciai con la mano e appiattii la gonna. Miriam mi pizzicava il collo e mi succhiava il mento. Avevo in mano una borsa di plastica bianca con una grande croce rossa. La borsa era quasi vuota e non pesava niente. Tutto quello che mi portavo via era chiuso dentro di me.

Ero un uccello nella gabbia di metallo che mi strappò a questa mia terra, strinsi a me Miriam

che mi guardava tranquilla e fiduciosa, e le dissi:

– Adesso ti chiamerai Katerina.


(applausi)


Julio Monteiro Martins – C’è questa bella sorpresa, la professoressa Frabetti ha portato alcune delle poesie di Barbara in più lingue.

Barbara Serdakowski – Che meraviglia. Adesso si può fare. Bene… Allora, le poesie nominate prima, giustamente. Questa si intitola “Scrivo” Premetto che molte volte sono presentate lette da attori in due voci. Però col tempo sono diventata abbastanza brava a leggerle, e lo faccio anche da sola, ecco… Allora,


SCRIVO

Quand le savoir se lie au devenir
Quando il sapere si lega al divenire

Quand les plans de vie s’effleurent
Quando i piani di vita si sfiorano

Quand les idées creusent des tranchées dans la corposité de l’indifférance
Quando le idee scavano trincee nella corposità dell’indifferenza

Ya sabia que no se podìa regresar una vez que se iba
Già sapevo che non si può tornare indietro una volta che si va via
Y por eso, hasta solo por eso, eternamente escribo
E per quello, anche solo per quello, eternamente scrivo

Tracce e penombre di grafie neroblu
Come uve spolverate d’acquamarina
Riflesse tonde
Tra viti e denso fogliame

Somewhere within the creases of an abstract world
Da qualche parte nelle fessure di un mondo astratto

That is where I write
É là dove io scrivo

Scrivo in variopinte sfumature di suoni
con gesta convulse ed inchiostro da sedimento
Scrivo sulle mie guance diafane
Sulle palpebre a tratti schiuse
Sulle mie tue labbra polpose

Of kisses and forgiveness
Di baci e di perdono

China, sommessa o soccorsa,
Sull’interno bianco tiepido delle mie cosce, scrivo
E sento formicolare su di me parole dalle mille falangi.


(applausi) Migrazioni…


MIGRAZIONI

Avec l’été enchevêtré dans l’air brut d’automne

Con l’estate aggrovigliata nell'aria grezza d'autunno


Je n’effeuille que les galets de mon lit en crue

Non sfoglio altro che i ciottoli del mio letto in piena


You can come now or never

Puoi venire adesso o mai


Attendre encore

Aspettare ancora


Y quizas mas nunca mojar los pies en el deshielo

E forse mai più bagnare i piedi nel disgelo


Non saprai nulla di me


Solo ruggine


Come sangue lungo le spiagge erranti


Lungo i vicoli


Lungo le praterie delle mie migrazioni


You will find me at the end of my identities

Mi troverai alla fine delle mie identità


Beyond my impersonations

Oltre le mie usurpazioni

Je suis ce que le vent sème

Sono quel che semina il vento


Et je pousse pour ne pas sécher,

E cresco per non prosciugare


Fed at the roots by manure

Le mie radici nutrite di sterco


Entretenida por moscas aburridas.

Divertita da mosche annoiate.


(applausi) Parmi le rire (Fra le risate)…


Parmi les rires

Fra le risate


Echi metallici contro le pareti vetrate dell’infanzia protetta


Corri e il tuo vestito a fiori svolazza sul nudo degli anni


Ridi! Eden, verdi frutti, pratoline, corone di pascoli scelti


Et puis la nuit sur la toile humide de ta poupée

E poi la notte sulla tela umida della tua bambola


Le front des sueurs, et ma main qui essuie.

La fronte dei sudori, e la mia mano che asciuga


Oir tu canto de cisne

Udire il tuo canto di cigno


Piangere ancora sul mio cuore di madre consolatrice.


Ieri quando potevo leggere i tuoi segreti nella piega di un sorriso


Stay on, with your words so tall

Rimani ancora, con le tue parole così grandi


And your fears so sweet

E le tue paure così dolci


Un geste de corps pour séduire le vent

Un movimento di corpo per sedurre il vento


I feel your kicks within the placenta of my arms

Sento i tuoi colpi contro la placenta delle mie braccia


El dolor se vuelve inmortál

Il dolore diventa immortale


So I push.

Allora spingo.


(applausi)


Julio Monteiro Martins – Ci sono anche le altre inedite…


Barbara Serdakowski – Sì. Ci sono anche le altre inedite. Comunque, è un’altra cosa. Sono delle piccole storie, si intitolano “Urban Poetry”, e sono piccole storie del quotidiano. Quindi sono delle cose all’apparenza molto leggere. Quinti non in chiave col libro, né con le altre poesie. Credo che comincerò con le “Le candele dell’Ikea” :


Accendo una candela all’essenza di vaniglia e muschio bianco


Ne ho 4 dozzine dentro ad una scatola di plastica trasparente comprate la settimana scorsa all’Ikea.

Avrei dovuto prendere quelle al profumo di mirtillo,

mi piaceva quel loro colore rosso intenso,

avrebbero fatto una bella luce calda, rassicurante.


Prendi quelle bianche avevi detto, vanno sempre bene, magari a volte il rosso disturba.

E poi quel profumo dicesti, essenza di mirtillo, vedrai che poi sarà quella artificiale, che da noia…


Adesso fluttua la fiammetta della candelina bianco latte, insignificante, anonima, dall’aroma timido.

Ne accendo un’altra, in due sembrano più belle e poi tre

Adesso ne ho 4 dozzine accese tutt’intorno a me

Splendide, pallide, mi illuminano a giorno con il loro candido bagliore sulla mia pelle immacolata.


Le rosse avrebbero dato una luce splendida così tutte insieme penso

Ma poi se fossero state rosse,

Proprio quelle che volevo,

Non le avrei mai accese tutte insieme,

Non avrei profumato di vaniglia… e di muschio bianco,

Non sarei stata illuminata a giorno.


(applausi) Allora, l’altro titolo, “I vecchi che non si radano sembrano barboni”:


L’uomo si era girato

Aveva i capelli spettinati

E la barba incolta. Forse era stanco?

Trascurato? Mal amato?

Forse non ci credeva più.. a niente

Forse era solo oggi che era così e di solito invece…

Forse era stato malato, con l’influenza

Forse il figlio non era tornato prima delle cinque dalla discoteca

Forse semplicemente era vecchio e si sa bene che i vecchi se non si radono sembrano barboni.

Mi guardò e mi persi per un istante negli occhi scuri

I nostri corpi in movimento non seppero fermarsi

Fermarsi per chi?

Fermarsi per cosa?

Qui sul marciapiede?

Due sconosciuti senza attrazione, senza conoscenza, senza motivo?

Lui andò, camminava lento

Io andai, camminavo veloce.



(applausi).


Daniele Barbieri – Come hai osato scrivere una poesia su di me senza chiedermi l’autorizzazione? (risate)


Barbara Serdakowski – La prossima volta chiedo il permesso… “Renault Clio argento sporco”:


Ero lì da incontabili secondi

A suonare il claxon e ad agitarmi

La punto grigia proprio lì

Con il finestrino aperto

Dietro la mia macchina.

Era una Punto?

Aspetta guardo

Una Renault Clio argento sporco

Ma che importa

Avresti riso

Lo so non si somigliano proprio ma per me sono un po’ tutte uguali


La gente passava

chi indifferente

Chi scuoteva la testa

Chi si avvicinava per un vano tentativo di aiuto

Ha chiamato i vigili?

Certo, dicevo, arrivano subito, tanto non hanno nient’altro da fare

Ma io non volevo i vigili tra un ora

Io tra cinque minuti ero a casa

Tra le mie cose

Mi toglievo i vestiti

Mangiavo uova e fagiolini al vapore

Dormivo quei pochi minuti tutti miei


E invece ero qui

Prigioniera, impotente

Con una Clio vuota in attesa del padrone


Alla radio c’era uno speciale Woodstock

Joan Baez, Arlo Guthrie, Joni Mitchell, Janis Joplin…

Mi distesi sul sedile e alzai il volume

Socchiusi gli occhi e mi lasciai andare

Davanti a me apparve all’improvviso

Una ragazza jeans e maglia senza forme

Correva a passetti piccoli con gli occhi contriti

Scusa scusascusa scusa

La guardai sconsolata

Liberata non avrei più tempo per Jimi Hendrix e lo speciale 1969.


(applausi)


E questa ‘ “Voglio andare in Francia”. Informo che ci sono andata, poi, dopo… Tre giorni, ma Francia era, ecco…


Ho voglia di parlare francese

Di sentirmi altrove

Con cibi diversi e gente che non si comporta “normale”
Farmi guardare come una sconosciuta dalle abitudini da tollerare

Tutto è permesso perché non si sa da dove vengo

E come si fa’ “da noi”
Quel viso curioso appena appena per così poco,

Tanto sanno che sparirò.


Mi basterebbe solo quel poco per sentirmi di nuovo me stessa apertamente.


Qui, nel mio quotidiano

sono straniera ormai incognito

I dolori non sono più permessi

I disagi devono essere stati superati

Le perdite rimpiazzate da altro

I pianti soppressi

I gemiti controllati

Se no: perché non te ne vai via se sei infelice?


Ma io non sono infelice QUI

Porto le mie ferite inguaribili con me come

Uno si porta dietro la 24 ore

Inseparabili come una foto dei figli, il portatile, un cellulare,

Allora voglio andare in Francia

solo per qualche giorno

Prometto, me lo farò bastare

Così per un po’ non dovrò mantenere l’apparenza dell’appartenere.



(applausi)


Julio Monteiro Martins – Queste ultime poesie lette da Barbara mi piacciono, mi ricordano il meglio della poesia statunitense degli ultimi vent’anni, che hanno a oggetto situazioni considerate normalmente irrilevanti tratte dalla vita quotidiana, che invece brillano in un modo diverso attraverso la scrittura poetica, e poi mi ricordano anche una grande poetessa brasiliana, già molto anziana, Adélia Prado, È magnifica. Per tutta la vita, e già negli anni ’50, scriveva poesie in questo modo, per esempio mi ricordo una in cui un marito, suo marito, era riuscito a pescare nel fiume qualche pesciolino molto modesto, e lei poi li ha presi per pulirli, per poi friggerli, un pasto così modesto, ma il modo come lei nella poesia descrive quel suo atto di pulire i pesci cercando di farli sembrare più grandi con vari strati di farina e uova, perché il marito avesse l’impressione di aver pescato dei pesci un po’ più grandi, è molto bello… Insomma, Adélia è una poetessa che riesce a far brillare, come veri gioielli, i piccoli atti e le piccole abitudini della vita quotidiana. È una strada molto bella, che a me piace tantissimo.


Barbara Serdakowski – Julio, già che menzioni i pesci, avevo scritto una poesia sui gamberi, la leggo, “Gamberi alla paprika”


Il tempo fugge, senza peso ne misura

A volte tutto sembra per molto uguale

Poi all’improvviso sorprende nelle cose più banali

Inaspettate come l’amore che diventa rassegnato

Ancora un po’ increduli

Poi la certezza: non è più come prima.


Oggi cucino gamberi con braccia stanche

Un pizzico di paprika,

Qualche goccia di limone

Una fetta di pane unto di olio di oliva extravergine salato.


Avrei guardato gli occhi prima

Mille occhi sporgenti e morti tra antenne rosa e chicchi di riso basmati.


Oggi stacco le teste con un gesto di polso indifferente e mangio.

Col tempo uno si abitua a certe cose

Succede succede

E senza sapere quando

Tutti lo sanno certo

Ma non pensavo a me.


(applausi)


Anna Frabetti – Vorrei fare qualche domanda. In alcuni saggi che lei ha scritto, testi, ci sono diverse realtà attorno alla lingua, alla scelta della lingua, ai rapporti plurimi con le lingue. La cito, e chiedo poi un commento. Sono passaggi che mi sembrano particolarmente interessanti: “Non ho radici, non ho coerenza, sono qui in terra straniera, straniera forse ormai di natura tra tanti stranieri per costrizione. Non rappresento nulla di rappresentabile, non ho sofferto eppure sono un esule, non incarno la mia patria natale attraverso la lente voyeuristica, non imparerete attraverso di me la sofferenza del mio popolo, la sua diversità, le sue usanze. Per me sono solo memoria attraverso memorie, racconti in terza persona, sofferenze da antenati e terra lontana. Non ne faccio parte , o così poco. Ho pezzi di me in un viaggio personale che si fonde e si confonde, attinge a certe sorgenti da me rivisitate, sminuzzate, idealizzate, non commercializzabili.” E dice poi, in conclusione, “non sarà la parte della nutrice, che offre terre alle mie radici sradicate, nude e tremolanti. Produco foglie anche con le radici all’aria, attecchisco per vivere.” In particolar modo mi aveva colpito da un lato questo essere straniera, ormai di natura, questo produrre foglie con le radici all’aria. Volevo che lei ci parlasse un pochino di questo, del modo con cui lei elabora tutto questo nella sua opera, si potrebbero riconoscere già fasi diverse, come in questo che lei ci ha appena letto.


Barbara Serdakowski – Nei primi anni mi chiedevano tutti “di dov’è ?”. Adesso non me lo chiedono. Erano convinti che magari per il colore dei capelli, il colore della pelle, del volto, i tratti non fossi italiana… non potevo avere una conversazione, a metà frase mi interrompevano,: “ma lei di dov’è? Ma lei non è di qui…” Era una cosa costante. Adesso questo non succede. È successo qualcosa in me ovviamente, ma non posso dire che mi sento più italiana di prima, forse mi sento ancora più a disagio adesso di prima, perché oggi non posso più essere straniera in modo visibile, sono straniera dentro e quindi molto sola, perché ormai non è più uno status riconosciuto. Quello che in Canada chiamano “le minoranze visibili”. Quindi uno di colore, uno guarda il viso e dice “sicuramente sarà di Haiti o di un altro paese… Io non sono più riconoscibile come straniera a priori. Una cosa che mi feriva forse, o mi metteva a disagio. Adesso è tutto il contrario che forse mi mette a disagio. Quindi, non sento che mi stiano crescendo delle radici particolari, sento che potrei andare via, come sono andata via da altri posti, e adattarmi a nuove realtà. Sento una grande stanchezza solo al pensare ogni tanto di ricominciare da capo con un'altra lingua, perché non avevo previsto la perdita della lingua, che è stata una cosa tremenda, anche perché non è una perdita che viene necessariamente capita, è come se a un musicista che suona sempre il violino gli dicessero: adesso non suoni più il violino, adesso ti diamo il pianoforte, lui dice: “Come?” “Ma tanto, sei musicista, le note sono le note, fai. Sarà lo stesso”, rispondono. E invece non lo è, assolutamente. E siccome io sono legata alla verbalità non posso continuare a scrivere in una lingua nella quale non vivo, e qui ho perso la lingua nella quale scrivevo bene. Ho dovuto ricostruirmi. E le foglie sono forse queste nuove cose che nascono, ma come sono nate qui potrebbero nascere anche altrove.


Spettatrice – Ho sentito una leggera emozione quando hai detto “ho perso la mia lingua”.


Barbara Serdakowski – Sì. È stato terribile. Non pensavo… Pensavo in verità a un altro tipo di perdita, quando avevo contato tutte le perdite: la famiglia, le radici, i ricordi, però come avevo già fatto più volte nella mia vita, ho già cambiato più volte amici, più volte posti, più volte ambienti, più volte abitudini, usanze, ed ero già venuta in Italia una volta, per due anni, ma quei due anni non sono stati abbastanza per farmi capire che avrei perso la lingua. E poi, non solo ho perso la lingua, ma ho realizzato che la lingua che avevo, anche mantenendola, non aveva un collocamento geografico diciamo ben piazzato. Perché? Quando ho lasciato la Polonia avevo due anni. Ho vissuto per otto anni in Marocco. In Marocco noi eravamo considerati tutti francesi. Anch’io che ero polacca ero considerata francese. Poi siamo andati in Canada, nella provincia del Quebec, dove i francesi non erano visti molto bene, come non erano visti bene nel Marocco, erano visti come i colonizzatori, come invasori negli anni ’60 e ’70, e in Quebec erano visti come “i maledetti francesi”, legati alla madre-patria, ed io non ero considerata polacca, perché parlavo con un accento francese diverso dall’accento del Quebec. Ero considerata come una francese, ecco. Lasciando la realtà canadese e venendo in Italia, venivo comunque considerata francese, mi sentivano parlare con i miei figli in francese, quindi bollata come francese, però cominciavo a perdere il francese, non riuscivo più a scrivere in francese perché sentivo altre cose, mi sono resa conto che il mio francese era contaminato dal francese sia del Marocco, che era un po’ particolare, sia del Quebec. Quindi, provando a pubblicare in Francia, non me lo permettevano. Cosa rappresenti? Non rappresentavo né una polacca arrivata in Francia… Perché tu vivendo in Italia vuoi pubblicare in Francia? Non c’era una logica. Poi, il fatto è che i ricordi sono ricordi quando possono essere condivisi con qualcuno, di solito. Quando sono ricordi isolati, che non possono essere condivisi con nessuno, o comunque se le pochissime persone con le quali possono essere condivisi vivono altre realtà in altri paesi, diventano inutili.


Spettatrice – Li puoi sempre narrare…


Barbara Serdakowski – Sì, sicuramente. Ed io e la scrittura andiamo d’accordo proprio per questo. Comunque c’è una perdita, una tristezza, un qualcosa dentro che non può mai essere sanato.


Spettatrice – Lei cosa si sente? Chi è?


Barbara Serdakowski – Io mi sento straniera.


Julio Monteiro Martins – Questa ultima risposta di Barbara, “mi sento straniera”, non la intenderei solo come una condizione geografica o sociale, ma soprattutto come una condizione esistenziale, nel senso della premonizione di Albert Camus. Oggigiorno vedo che questa è una condizione molto estesa. In una recente intervista dicevo che tutti noi siamo stranieri, tutti noi siamo migranti, anche quelli che non sono finora mai usciti dal loro piccolo paese natale migrano a ritroso, perché il mondo cambia intorno a loro in un modo tale che la condizione di straniero la vivranno lo stesso. Penso per esempio alla mia città natale, Niterói, una città che si affaccia su Rio de Janeiro nella baia di Guanabara. Quando ero bambino, era una città come Lucca, aveva 60 mila abitanti, oggi è una conurbazione con le città vicine con circa 3 milioni di persone. L’ultima volta che ci sono stato – ed è stata l’ultima davvero, perché non ho più intenzione di tornarci, anche se i miei genitori sono seppelliti lì –, nel quartiere dove sono cresciuto, non sono riuscito a vedere nemmeno una casa, un parco, un negozio, che conoscessi dalla mia infanzia. Di quei tempi non era rimasto più assolutamente niente. Ho camminato per due, tre ore, per le strade di Icaraí, che è il nome di questo quartiere, e non ho visto un unico volto conosciuto. Mi sono sentito a Niterói come mi sarei sentito a Istambul, o a Pechino, o a Sidney. E anche se io ci fossi rimasto per tutta la vita e non avessi fatto questa migrazione, la mia condizione di straniero sarebbe stata la stessa che è oggi, qua. Ho anche scritto, tornando, un racconto su quella esperienza, chiamato “Rimpatrio”, che fa parte del libro “L’onda d’urto”, ancora inedito. Poi, vedo che nel senso comune c’è ancora questo tentativo un po’ goffo, un po’ inutile anche, di conferire un’identità nazionale alle persone, del tipo: tu sei un brasiliano? Sei un brasiliano che ha vissuto negli Stati Uniti? Allora forse sei più americano che brasiliano. Tu invece sei francese? Quando invece stiamo arrivando a un punto – e Barbara Serdakowski è un esempio chiaro, ma anche tanti altri amici miei – in cui non è nemmeno possibile più attribuire questo tipo di etichetta. Cioè, c’è questo “paese natale” che si chiama memoria, ma che quando non è condivisa diventa irraggiungibile, e anche questa è una migrazione interna. E poi, succede non solo nei casi di scrittori o di altre persone che cambiano paese, ma anche all’interno del proprio paese. Pensate a Lula, l’attuale presidente del Brasile, si pensa normalmente a lui qui come a un “brasiliano”, invece no, o non solo: lui è un “nordestino”, del nord del Brasile, un altro paese ancora, che è emigrato a São Paulo, quando aveva l’età di otto anni, viaggiando su un camion che trasportava gente nella carrozzeria, chiamato “pau-de-arara”, e dal Nordeste da dove era venuto a São Paulo, dove ha vissuto e ha iniziato la sua vita sindacale e poi politica, c’è una differenza più grande di uno che è partito da Istanbul per vivere in Germania, o da Madrid per vivere a Stoccolma, come rottura, come contrasto. Lui ha dentro di lui – e questo è solo un esempio, potrei dare tanti altri – tutte le cicatrici, tutti i traumi, tutte le perdite di quello che chiamo “il suicidio amministrato” che è l’immigrazione, lui ce l’ha nonostante non abbia mai “immigrato” ufficialmente, e sono sicuro che in Italia si possono trovare esperienze simili, uno di un piccolo paese della Basilicata che va a vivere e a lavorare a Milano. Quindi, dobbiamo imparare, dobbiamo educare lo sguardo per riuscire a vedere in ogni percorso individuale un processo migratorio a sé stante, cioè un processo che non può più a questo punto essere collegato ad altri, che è una storia che non si trasferisce. O uno riesce ad immedesimarsi in quel percorso esistenziale specifico, oppure non capirà, e fatalmente ricadrà negli stereotipi, nei cliché. Come la vedi questa situaizone, Barbara?


Barbara Serdakowski – La vedo esattamente come dici tu. L’unica differenza forse è che questi periodi li possiamo chiamare “migrazioni” quando succedono durante un periodo abbastanza lungo, come può essere il mio adesso dopo dodici anni in Italia, dove comincio ad avere ricordi, cibi preferiti, persone che conosco, anche modi di fare, per esempio quando vado all’estero e riconosco gli italiani anche senza sentire che parlano italiano, comunque nasce una certa appartenenza. Quando invece questi spostamenti sono troppo ravvicinati, come potevano essere i miei, ho fatto 27 traslochi, e non stiamo parlando di piccoli spostamenti, sono stati 27 traslochi!, su quattro o cinque continenti, quando i periodi sono molto brevi, questi ricordi sono talmente frammentati che mi ricordano un pò quello che è succede negli Stati Uniti, quando ragazzi, figli di discendenti italiani per esempio, dicono a scuola cose tipo: “Io sono italiano. Porto un piatto italiano.”… sono elementi non di cultura, ma di folclore, e sono folclore non più veri ma legati alla tradizione di quella famiglia specifica, una ricetta che può essere italiana ma è stata modificata dalla nonna, quindi uno poi va in Italia e non trova assolutamente quella cosa che è stata tramandata in quella famiglia e spacciata come tipica italiana! Sono cose troppo piccole, troppo frammentate, che non hanno alcun tipo di senso. E quindi quando questi spostamenti sono troppo ravvicinati e troppo brevi, diventano semplicemente caos. L’ultima volta ho fatto un trasloco dopo otto anni, ultimamente, in Italia, e mi sono detta: otto anni in un solo posto! Otto anni… Mammamia! Ho passato otto anni in una stessa casa… Wow!


Julio Monteiro Martins – Sì, sì. Però, collegando questo discorso a quello dell’inizio, quando parlavamo delle leggi, del “pacchetto sicurezza”, eccetera, vedo che la cosa più spaventosa è che ci sono due movimenti epocali simultanei ma opposti, che necessariamente si scontrano come due placche tectoniche, provocando terremoti, vulcani… Uno è il movimento di apertura di ciascuna persona alla mondializzazione, nelle esperienze personali – io a volte scherzo dicendo: chi costruisce l’Europa non è mica Strasburgo o Bruxelles, ma la Ryanair e l’Erasmus, quelli che propongono le esperienze di vera vita europea, e poi c’è Internet, per esempio quando esce un nuovo numero della rivista Sagarana vedo dalle risposte, dagli e-mail che c’è una comunità di persone, di lettori, che non è grandissima ma è assolutamente internazionale, basta dire che il 52% dei contatti della rivista vengono dall’estero – come dicevo, questo è un movimento epocale, questo di creare una sensibilità e una soggettività mondializzata, una sorta di nuovo “ceto medio occidentalizzato” nei suoi valori, internazionale. E allo stesso tempo un movimento, che non è solo dell’Italia, ma è di tanti altri paesi, di chiusura, di protezione della cultura tradizionale delle regioni e di diffidenza del diverso, dell’altro, allora queste due forze, queste due energie, inevitabilmente si scontreranno, perché sono profondamente antagoniste.


Monica Dini – Mi chiamo Monica. Volevo dirle intanto che condivido molto il suo discorso sull’essere stranieri, nel senso che io vivo qui da sempre e sono delle generazioni, tutti i miei parenti hanno abitato qui, e nello stesso tempo mi sento forse altrettanto straniera quanto si sente lei, per questo discorso che ha fatto sulla condivisione. Però, una domanda pratica che le volevo fare è: ha riservato qualche strofa dei suoi versi nella sua lingua madre?


Barbara Serdakowski – Sì, infatti, nelle poesie ho letto due o tre frasi in polacco. C’è. Ma devo dire che ogni anno è più lontano, ogni anno è più doloroso, e ogni anno è più forzato. E quindi, posso parlare tutte le lingue del mondo, a parte il cinese, sto scherzando, ma quella lì ogni anno che passa cresce in un angolo nascosto e occupa sempre più spazio dentro di me, ma uno spazio che per ora non ha sbocco, non sa come uscire.


Loretta Emiri – Volevo esprimere un sentimento di solidarietà. Io sono italiana, sono partita per il Brasile che avevo trent’anni, ho vissuto 18 anni nell’Amazzonia brasiliana, è già da qualche anno che sono rientrata in Italia, e ai miei pochi amici dico che in Italia non mi sento una straniera, in Italia io mi sento una extraterrestre. (risate)


Anna Frabetti – A proposito della risposta che ha dato prima, ben radicale: come si sente? Mi sento straniera. E rispetto al fatto che lei dice: “Scrivo in italiano perché sono estremamente sensibile alla lingua dell’oralità, alla lingua che sento intorno, e mi colpiva questo modo di dirlo, mi faceva pensare a uno scrittore che scrive in francese e scrive in wolof, si chiama Boris Diop, che cercando di spiegare quale fosse la differenza nella scelta delle sue lingue letterarie, dice che per lui scrivere in wolof significa scrivere nella lingua che esce dalla finestra, quando scrive in francese scrive con la finestra chiusa, e quando scrive in wolof, scrive aprendo la finestra, quindi è la lingua intorno, la lingua della strada, che gli arriva. Ma in quel caso si tratta di una madrelingua, quindi io le giro la domanda, che cos’è l’italiano a questo punto, questa condizione di essere straniera è tale anche rispetto alla lingua? Qual è il suo modo di manipolare questo strumento, che è comunque lo strumento del suo quotidiano, uno strumento scelto.


Barbara Serdakowski – Io non ho problemi con l’inglese, lo spagnolo e qualsiasi altra lingua, sono lingue che posso utilizzare, posso scrivere anche poesia e non mi creano alcun tipo di difficoltà. Il mio problema è con tre lingue in particolare, il francese dal quale mi sento “tradita”, l’italiano che si è imposto, e il polacco che è imbottigliato. E quindi sto risolvendo in questo periodo questo conflitto. Non posso fare altro che scrivere nella lingua nella quale vivo, e infatti le mie poesie che erano in cinque lingue riflettevano esattamente la mia realtà quotidiana, io vivevo per anni, tutti i giorni, in cinque lingue. Non passava un solo giorno in cui io non utilizzavo, non adoperavo costantemente le cinque lingue, perché abitando in Canada, con i miei parlavo polacco, e parlavo polacco con i miei figli, avevo una scuola di lingue, dove si parlava francese e inglese tutti i giorni, e io insegnavo spagnolo, avevamo tanti amici spagnoli anche, perché mio marito è italiano ma ha vissuto tanti anni in Venezuela, quindi i suoi parenti, la famiglia parlavano tutti spagnolo, erano cinque lingue tutti i giorni. Quindi, chiaramente mi trovavo a scrivere in ogni lingua. Questo ha durato per un po’, nei primi anni in Italia, e poi era anche un rifugio, come può essere quello che diceva, la lingua del dentro e la lingua del fuori, perché sentivo queste lingue vivere dentro di me. Adesso sono in conflitto con il francese, non so come andrà a finire, chi vincerà, se il francese o io, semplicemente perché… infatti avevo scritto anche una storia, che non ho portato, che si chiama “Contare in francese”, dove mi sono trovata un giorno a contare spontaneamente in italiano. Io, da quando sono nata, avevo due anni quando sono andata in Marocco, ho sempre contato in francese, per me era una certezza fare i conti automaticamente in francese. Quando un giorno mi sono resa conto che avevo saltato il francese e contavo in italiano è stato un tradimento, a questo punto della lingua no, di me stessa, insomma, era un passaggio, una fase, capisco bene tutto il discorso, ma quando comincio a scrivere in francese, che era la lingua che dominavo perfettamente, e vedo che ho delle esitazioni, non lo sopporto, è una cosa che assolutamente non accetto, e preferisco evitare assolutamente il tema, e più evito e chiaramente meno posso accingerci.


Julio Monteiro Martins – Questa espressione “tradimento” che hai usato diverse volte mi sembra molto azzeccata, è la sensazione che ho io quando riprendo improvvisamente il rapporto con la lingua portoghese. Voglio fare una domanda, ma prima voglio raccontarti questa cosa come la vivo io. Cioè, io ancora posso scrivere in portoghese, con un po’ più di difficoltà di quanto non l’avessi 15 anni fa – sono qui da quindici anni. Scrivo oggi più facilmente in italiano, però quello che non riesco in nessun modo è tradurre in portoghese quello che scrivo in italiano, invece tradurre dal portoghese in italiano lo faccio senza alcun problema. Le volte che, nel Portogallo o in Brasile, mi hanno chiesto un testo che era stato scritto originalmente in italiano, ho cercato di fare lo sforzo di tradurre io stesso il testo, e quello che è venuto fuori mi è sembrato scritto in uno stile farraginoso e oltretutto non mi è sembrato autentico, sembrava che non ero io ad averlo scritto, e allora cosa ho fatto – per esempio per un testo, un racconto scritto originalmente in italiano, “Il suddito”, che è poi uscito in una antologia nella Madeira, “Comboio Com Asas”? Ho chiesto a una poetessa che aveva vissuto in Italia per molti anni, di tradurlo, ed è venuta una traduzione bellissima, in un portoghese del Portogallo molto bello, che forse mi piace di più addirittura dell’originale in italiano, ma non avrei mai potuto farla io. Se invece mi dici: scrivi un racconto nuovo, inedito, in portoghese, magari ci riesco bene. Ti sto raccontando questo perché si tratta di uno di quei misteri dell’inconscio che nascono quando si fa questo lavoro con le lingue


Barbara Serdakowski – Per me non è tanto un mistero, è molto chiara la cosa. Forse la mia esperienza è leggermente diversa dalla tua, ma è molto chiaro: io non posso tradurre i miei testi in francese, li posso tradurre in inglese, in spagnolo e in altre lingue, e posso fare il contrario. Prima perché non accetto la mia difficoltà ad usare la lingua che usavo perfettamente, e che perfetta più non è… devi capire, Julio, che per me la lingua francese, e non l’avevo capito prima, era in qualche modo la mia patria, nel senso che non avendo il polacco, non avendo la Polonia, non avendo i parenti, l’unica certezza che avevo era questa lingua che dominavo benissimo da quando ero piccola parlavo in modo molto spontaneo, scrivevo benissimo, tutti mi facevano i complimenti, come scrivi bene, era il mio rifugio, era quello che avevo, la mia scrittura e la mia lingua francese. Quando ho sentito che la stavo perdendo, non sono riuscita né a scriverla, perché è una grandissima irritazione provare a scrivere e vedere che non ti viene nel modo in cui vorresti, e a tradurla non se ne parla proprio. Che io stia lì, a vedere nel dizionario, consultare le frasi o magari vedere che ho fatto un italianismo. Preferisco non metterci neanche le mani.


Mirella Abriani – Riallacciandomi al tuo caso, vorrei ricordare il caso di Antonio Tabucchi che ha scritto un libro in Portoghese e si è rifiutato di tradurlo in Italiano.


Julio Monteiro Martins – Quale era l’opera di Tabucchi?


Mirella Abriani – Requiem.


Barbara Serdakowski – Vuoi sapere in quale lingua mi arrabbio? Mi arrabbio nella lingua nella quale parlo. Con i figli parlo francese, sono passata dal polacco al francese con loro, e con mio marito parliamo o in italiano o in inglese, non ho grossi problemi.


Spettatrice – In che lingua fa l’amore?


Barbara Serdakowski – È lo stesso di domandare in quale lingua penso. Il pensiero o l’amore è diviso dalla lingua, o in me comunque lo è diventato. Perché se sogno qualcosa, e mi sveglio e mi trovo con mia figlia sarà spontaneo raccontarlo in francese, e avrò la sensazione di averlo sognato in francese. Se mi sveglio e lo racconto a mio marito, sarà spontaneo di raccontarlo in inglese, o in italiano, o come viene quel giorno, il mio pensiero, o in questo senso il fare l’amore, credo che sia assolutamente, in me, separato dalla lingua. È un’essenza che viene poi tradotta nella lingua o linguaggio nel quale uno si trova. Poi, voglio aggiungere che ero molto più buffa in francese, avevo un senso dell’umorismo micidiale in francese, che ho perso o smussato comunque nelle altre lingue, non è mai più tornato lo stesso, quindi sicuramente ogni lingua porta il suo carattere. Mi dicono spesso: ma come cambi… per esempio quando sono al telefono con mia madre e parlo in polacco, mi dicono: ma come cambi quando parli un’altra lingua… anche le espressioni del viso…


Julio Monteiro Martins – Questa è una questione che secondo me dovrebbe essere più studiata, più profondamente conosciuta, ossia fino a che punto ci sarebbero spostamenti caratteriali, o di natura psicologica o di auto immagine, quando la stessa persona si manifesta in una lingua diversa. Non saprei dire esattamente cosa, o come, ma sento che sono un po’ diverso, più emotivo e meno razionale in portoghese, e più cartesiano, diciamo così, in italiano. Fare però un’auto analisi e scoprire quali sono le differenze è molto difficile, magari un’altra persona che ti osservi da fuori potrà identificare meglio questo spostamento. Un’altra cosa che mi domandano spesso è: in quale lingua sogni? Ho cercato di ricordare il sogno com’era durante il sogno stesso, e non mi sembra che si sogni in una lingua.


Barbara Serdakowski – No, infatti.


Julio Monteiro Martins – Il sogno non è una lingua, il sogno è una configurazione di concetti, un vissuto, con immagini, e a volte dentro del sogno ci sono spezzoni di dialoghi in una lingua, ma non è la parte più importante del sogno. Il sogno secondo me non è in nessuna lingua, almeno questa è la mia sensazione.


Pina Piccolo – La mia domanda si ricollega un po’ al discorso che aveva fatto Julio rispetto alla scrittura adesso, in questo periodo, e chiedo: la scelta della lingua ha a che fare anche con “per chi scrivi”? Insomma, la scrittura non è soltanto un fatto individuale, uno che scrive per sé stesso, e si mette poi le cose nel cassetto, uno scrive anche con in mente chi lo riceve, e mi chiedevo se, nel suo caso, c’è un progetto dietro la scrittura, se vuole raggiungere qualcuno, convincerlo di qualcosa, non so, far una barriera verso un certo popolo in particolare, per esempio?


Barbara Serdakowski – Nel mio caso questa non è una cosa che dipende tanto da me. Adesso scrivo in italiano perché non posso fare diversamente. Perché prima avevo il problema che le parole mi venivano in altre lingue, e quindi mi trovo sempre a fare delle traduzioni, sono laureata in traduzione, ma non riuscivo a fare a meno di scrivere in quel modo anche se il mio pubblico poi parlava un’altra lingua, quindi non è una scelta per un pubblico o perché mi voglio far capire da un determinato pubblico. È semplicemente che sono molto legata all’ambiente che mi circonda, alla verbalità, a quello che sento nei dialoghi, i miei racconti sono pieni di dialoghi, e sono sicura che se adesso vado a vivere in Africa, dopo tre o quattro anni sarò costretta a scrivere nella lingua del posto, perché sarò legata a quello.


Julio Monteiro Martins – Credo che nella domanda di Pina Piccolo c’era anche un altro aspetto, che è quello del “perché scrivi”, cioè se c’è una motivazione strettamente esistenziale, psicologica oppure se c’è uno scopo più collettivo.


Barbara Serdakowski – Allora, nelle mie prime poesie, che sono raccolte anche abbastanza lunghe, avevo otto anni. Mia madre mi raccontava spesso che un giorno le ho chiesto di comprarmi un quaderno speciale con un bel disegno perché volevo cominciare a essere scrittrice e poetessa, e avevo chiesto se c’erano scuole per poeti, mi avevano detto di no, e quindi ho detto: devo cominciare a praticare adesso perché siccome non ci sono scuole, devo… ecco. Era una cosa più forte di me, semplicemente. Non posso fare diversamente, neanche volendo.


Fulvio Pezzarossa – La mia domanda è un corollario al quesito che Pina Piccolo prima ha posto: che italiano parla e se è lo stesso italiano che scrive.


Barbara Serdakowski – Sì, sicuramente è lo stesso, e questo per me è stato un problema che mi sono posta, poi ho deciso di non approfondire, di semplicemente scrivere come mi veniva, semplicemente perché io ho imparato l’italiano in Canada, all’università, e poi venendo qui, in Toscana, sono sempre stata qui in Toscana, e non ho altri punti di riferimento, quindi parlo e scrivo l’italiano che so. A volte sento che sto in qualche modo tagliando gli angoli, nel senso che mi mancava tutta la formazione, quella che ho avuto in altre lingue, provo ad attingere a quella formazione e trasporla in italiano, ma è inevitabile che io abbia delle carenze di formazione a livello della lingua italiana. Posso soltanto rattoppare di qua e di là, e quando ancora per esempio la bozza dell’editore mi ritorna con le correzioni di certi errori basilari divento rossa ma purtroppo non posso fare diversamente, spero di migliorare col tempo, leggendo e studiando, ma è sempre un problema, che avevo già risolto in francese. Ho dovuto ricominciare a quarant’anni a rifare tutto questo lavoro.


Fulvio Pezzarossa - Ma quanto ai suoi percorsi di apprendimento…


Barbara Serdakowski – Sì, i miei percorsi… ho cominciato a rileggere tutti i miei autori favoriti non nelle lingue originali dei suoi libri ma nelle traduzioni in italiano, semplicemente. Da Sartre a Kafka, a tutti gli altri autori miei preferiti, ho semplicemente riletto tutto in italiano, quindi ho rifatto un po’ la scuola che avevo fatto prima, ecco.


Daniele Barbieri – Anch’io sono un extraterrestre come lei. Mentre studiavi italiano, ti ha colpito qualche scrittore o qualche scrittrice non tanto per la bellezza ma quanto perché il tipo di scrittura, il tipo di linguaggio, il tipo di ricerca delle parole ti scombussolava, ti diceva qualcosa di nuovo, di diverso rispetto alle lingue che allora erano tue?


Barbara Serdakowski – Autore italiani?


Daniele Barbieri – Autori o autrici che leggevi in italiano.


Barbara Serdakowski – Il problema è che leggevo autori non italiani in italiano… Pochi, direi. Pirandello. Altri che leggev li trovavo un po’ pesanti, verbosi, ecco. Quello che ho fatto è stato rileggere i miei autori in italiano, anche perché crescendo una famiglia, figli, lavoro, e tutto il resto, mi sono aggrappata ai miei alberi maestri.


Julio Monteiro Martins – Ringrazio Barbara, tantissimo.


Barbara Serdakowski – Grazie a voi. (applausi)


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