Torna alla homepage

Sagarana IL ROMANZO MAI SCRITTO SUGLI ANNI SETTANTA


Un articolo del 2007, ma di grande attualità nelle questioni che solleva


Walter G. Pozzi


IL ROMANZO MAI SCRITTO SUGLI ANNI SETTANTA



L’incapacità di fare i conti con la propria storia, in Italia è un’abitudine consolidata; il tempo trasforma in leggenda i vincitori, degrada a fantasma sociale i vinti e ossifica in luogo comune i fatti. Una dinamica che non poteva risparmiare gli anni Settanta. Segreti, omissis, stragi impunite, scontri tra manifestanti e poliziotti, operai e studenti in piazza, fascisti, comunisti, stragi di stato, strategia della tensione, Aldo Moro, Brigate rosse e, su tutto, lei, la parola magica: terrorismo! Tutti elementi frettolosamente stipati nell’immaginario collettivo degli italiani e riportati alla ribalta dall’arresto di Cesare Battisti, avvenuto lo scorso marzo a Copacabana.
I giornalisti hanno fatto a gara per mostrarlo come un grande atto di giustizia. Impettiti nelle loro certezze, hanno cavalcato la parola terrorista, fingendo di dimenticare le complesse implicazioni politiche dell’arresto.
Un medesimo atteggiamento hanno mostrato i politici. Il ministro Mastella, dimentico dei vari mandati di arresto da spedire negli Stati Uniti, si è affrettato a chiamare il Brasile e chiedere di accelerare i tempi dell’estradizione. Un solo parlamentare, l’onorevole Giovanni Russo Spena, ha provato a spostare il dibattito su un’ipotesi di amnistia, con il risultato di venire seppellito dalle urla dei colleghi, alcuni dei quali, trent’anni fa erano soliti menare le mani e saettare al cielo orgogliosi saluti romani.
Più docili e discreti, gli scrittori sono rimasti in silenzio, a dimostrazione del totale disinteresse che nutrono per la storia del loro Paese. La stessa storia che nella testa degli italiani si riassume ormai in una grottesca baruffa tra opposti. Un’ambiguità che la politica non fa che alimentare continuamente. Che cosa è stato il Risorgimento? L’afflato patriottico di un’intera popolazione o una conquista armata dei Savoia? E il fascismo? Dittatura da operetta o sanguinoso regime totalitario? E i partigiani? Spietati assassini o eroi? E Tangentopoli? Un complotto delle toghe rosse o l’espressione democratica di una magistratura libera? E le stragi mafiose del 1992? Un conto chiuso con i propri nemici, o un tentato golpe della mafia con la complicità della massoneria e di gruppi neofascisti?
E che cosa è stata Piazza Fontana?
Il contraddittorio, che dovrebbe rappresentare la ricchezza di una democrazia, in Italia dimostra di essere solo confusione costruita ad arte; il risultato non casuale della brutta abitudine accennata all’inizio. A Milano ogni anno si organizza per il 12 dicembre un ritrovo in Piazza Fontana, in occasione del quale sindaco ed esponenti della destra regolarmente non si presentano, salvo poi caldeggiare la costruzione di una stele in memoria del commissario Calabresi. E sempre a Milano gli oppositori chiedono, per dovere storico, di erigerne una anche in memoria del suo oppositore teorico, l’anarchico Pinelli, dove anche è la vera parola chiave, con il risultato di confermare l’assunto che vuole due volti per ogni verità.
Doppiezza tutt’altro che neutra. Uno Stato che non sa se riconoscersi nei valori fascisti o in quelli dei partigiani, se in quelli dei giudici di Tangentopoli o in quelli di politici e imprenditori corrotti, se nei depistaggi strumentali del commissario Calabresi o nella morte dell’anarchico Pinelli, che di quei depistaggi è stato vittima, in realtà è uno Stato che dimostra di avere scelto eccome. E la strage resta là, innominata, rimossa nei suoi significati; quasi che gli anni Settanta non fossero iniziati con quel boato devastante.
La storia, quella che ci educa a scuola, che imperversa in programmi televisivi, che ci chiama dalle targhe delle vie che ci orientano in città, che leggiamo a frammenti sui giornali, è solamente uno dei mezzi con cui il Sistema conferma se stesso; con cui vengono donati ai cittadini un’identità nazionale e sani principi in cui credere. È il linguaggio della verità, parlato dai telegiornali, dai quotidiani, da tutti quegli strumenti atti a rendere credibili le parole dei politici. E quando accade di leggere il resoconto di un fatto, raccontato in maniera superficiale come nel caso di Cesare Battisti, è normale che sorga una sottile pena per il suo estensore e per il lettore comune. Pena e dispiacere per l’ennesima conferma dell’esistenza di argomenti che non possono essere trattati per intero. L’affaire Battisti è uno di questi.
La sua vicenda, infatti, se analizzata e inserita in un contesto storico più ampio, conduce nel dominio della verità illegittima; dritto nei corridoi del Palazzo, laddove, a partire dai giorni dell’Autunno caldo, sono stati organizzati i piani per la restaurazione e la conservazione politico-economica del Paese. Piani eretti su tre colonne portanti: la provocazione dei movimenti di protesta, l’alleanza con il Pci attraverso l’attuazione del compromesso storico, e la repressione mediatica, militare e giudiziaria.
Cesare Battisti, l’uomo, l’individuo Battisti, è il personaggio perfetto per un romanzo sugli anni Settanta; perché è proprio dal caso personale che uno scrittore sceglierebbe di partire. Non c’è alcun dubbio che l’uomo, solo e sfinito, arrestato a Copacabana dopo due anni di latitanza, contenga in sé due persone: il terrorista di ieri, condannato per due omicidi politici, e lo scrittore di oggi, rifattosi una vita grazie a una promessa politica. Chiedersi quale delle due persone stia andando in carcere a scontare un ergastolo implica (per uno scrittore, naturalmente, non certo per l’onorevole Castelli e il suo degno successore, il ministro Mastella) il confronto con un triplice problema (umano, politico e storico), al quale si aggiunge il silenzio che grava da trent’anni sugli anni Settanta. Nessun buon romanzo può essere scritto senza che il suo autore si proponga di sviluppare le tre dimensioni. Non serve altro: una piccola storia di uomini, sentimenti ed emozioni, una società civile e politica e, su tutto, la grande Storia. Sugli anni Settanta, questo romanzo oggi non è ancora stato scritto.
La generazione di scrittori post-sessantottina si è spesa assai poco sugli anni Settanta. Al contrario, ha preferito (vuoi per ignoranza, vuoi per congenita consunzione interna del mondo editoriale) adagiarsi su una stucchevole introspezione o su inutili romanzi di genere. Persino oggi che gli anni Settanta sono di moda (ogni anno è il trentennale di qualche episodio – adesso il famigerato '77, il prossimo toccherà alla morte di Moro…), la narrativa non pare in grado di sottrarsi ai fattori passionali, che li hanno animati. È vero che qualche autore si è dato da fare per stemperare il grigiore della definizione Anni di piombo inventata dal linguaggio di regime, ma solamente nei confini della falsa ottica divisoria tra buona sinistra e cattiva sinistra, inevitabilmente destinata a condurre il lettore tra le calde braccia della verità istituzionale. Esclusi pochi casi isolati, quindi, ancora gli scrittori non sono riusciti ad allontanarsi dagli scontri di piazza, dal lancio di sampietrini, dalle pistolettate, dal racconto di vite desolate, da storie di droga e di disperati caduti nella rete della lotta armata, e dal risultato di restituire, di quel periodo, un aspetto molto suggestivo per quanto secondario. Marginale, addirittura, nel momento in cui si vuole allargare il raggio d’azione della riflessione. In realtà il continuo battere sul tasto del terrorismo di strada, non fa che infittire la nebbia. Gli scrittori sembrano non capire che scontri feriti e morti, giovano al potere e continuano a dargli credito; che insistere a parlarne decuplica questo vantaggio. Gli anni Settanta diventati materia di libri gialli, di noir, di mercato, rendono fuffa la verità.
Il vero limite di tutta questa narrativa consiste nell’incapacità di verticalizzare l’analisi, nel non riuscire a porre interrogativi di responsabilità più generale. Chi sono i mandanti delle bombe? Quali elementi appartenenti allo Stato? Quali uomini dei servizi segreti?
Domande che potrebbero essere un ottimo punto di partenza per un romanzo, oltre che l’occasione di una riflessione approfondita su altre figure che potrebbero diventare altrettanti personaggi: giudici istruttori, per esempio, procuratori generali, procuratori della Repubblica, sostituti procuratori generali, capi di polizia, generali dei carabinieri, ministri, presidenti del consiglio, industriali che finanziano movimenti neofascisti. È dietro queste istituzioni che vanno cercati i creatori di Piazza Fontana e delle altre stragi, e che, in seguito, si sono preoccupati di organizzare la conseguente e necessaria repressione militare e giudiziaria. Si annidano lì dentro le ragioni dogmatiche del potere, quelle che hanno avuto bisogno di nutrirsi di sangue innocente, di creare omissioni e reticenze che si trascinano ancora oggi.
Per cui si può affermare che la parte narrabile di Cesare Battisti, quella suggestiva e buona per movimentare il mercato editoriale e la verità istituzionale, è già stata raccontata da altri romanzi. Cose già scritte e che, nel romanzo che adesso ci accingiamo a progettare, fungeranno per questo da semplice contorno.
Il primo problema narrativo da risolvere consiste nel trovare un equilibrio tra storia e Storia. Ciò che poco fa abbiamo rimproverato alla Storia italiana è la sua ambiguità. La mancanza di volontà politica (o l’interesse nascosto dietro tale immobilismo) di stabilire in maniera netta e chiara i fatti. Il che non significa soffermarsi sulla loro consequenzialità, comunque importante, bensì analizzare le motivazioni che vi si nascondono dietro, i moventi, pragmatici o etici che siano, le influenze, gli obblighi, le proibizioni, le seduzioni, le intimidazioni… La Storia è soprattutto storia di uomini, oltre che movimento di apparati.
È difficile infatti comprendere le motivazioni e le influenze sociali e politiche che hanno condotto migliaia di giovani, molti dei quali appartenenti alla classe borghese, a prendere le armi e a sparare; che li hanno spinti a rinunciare a una vita comoda e normale (come si suole dire), giocandosi tutto a un tavolo in cui il banco è un inafferrabile baro come lo Stato.
È difficile, se si estrapola l’esperienza armata dalla complessità del contesto sociale, come fanno superficialmente gli scrittori che oggi ambientano i romanzi negli Anni di piombo, e come fanno molti giornalisti ogni volta che parlano di terrorismo.
È difficile capire la loro scelta, senza analizzare le dinamiche del boom economico nella loro completezza; gli esclusi dal grande miracolo, la grande produzione di plusvalore degli operai, in cambio di un’illusoria mobilità sociale per loro e per i loro figli; dimenticando l’interesse di Fiat e americani nel restaurare le forze di produzione, licenziare gli operai politicizzati, aumentare la meccanizzazione del lavoro e chiamare dal sud un nuovo modello di lavoratore, l’operaio di linea, meno sindacalizzato e più sfruttabile; senza parlare dell’inefficienza dello Stato riguardo l’organizzazione di strutture urbane di accoglienza per fronteggiare l’immigrazione (indotta e funzionale alla grande industria), di strutture scolastiche e sanitarie.
È difficile se non si valuta il peso della protesta studentesca nata in seno alla borghesia e a quella determinante degli operai, ancora più grave per il capitale perché strutturale.
È difficile se ci si limita a guardare la strage di Piazza Fontana come un fatto tra gli altri, senza considerarlo parte di un progetto eversivo e, come tale, una dichiarazione di guerra che lo Stato lancia alla società che protesta, utilizzando come leva il peso di un’opinione pubblica ignara di quanto stia accadendo.
È difficile se si dimentica la rinascita del fascismo con la complicità di movimenti quali la Lega dei colonnelli greci, attiva in molte città per organizzare un golpe anche in Italia.
Un romanzo non è un saggio. Per sviluppare una trama tematica ha bisogno di personaggi e di una storia. E dal momento che lo scrittore ha individuato in Cesare Battisti il personaggio simbolo ideale, non gli rimane che individuare l’antagonista. Sarebbe sbagliato consegnare un tale ruolo a parole astratte come Stato, Chiesa, Fascismo o Padroni; senza cioè incarnarle in caratteri che, attraverso l’azione, assumano molteplici significati. E dal momento che, riguardo alla verità sulle stragi, le sentenze o la verità istituzionale non aiutano, lo scrittore è costretto a costruirli secondo criteri di verosimiglianza. Nel caso della bomba di Piazza Fontana, non dovrebbe mancare un generale, a capo del Sid (Servizio informazione della difesa), che funge da mediatore nel passaggio di 500.000 dollari dalle casse dell’ambasciata americana alle mani di gruppi neofascisti; così come non mancheranno alcune morti misteriose di alcuni possibili testimoni e un altro agente del Sid nei preparativi per la strage di Milano, insieme a membri appartenenti agli Affari riservati del ministero degli Interni.
In questo modo viene dato un volto e ben tre astrazioni: il terrorismo neofascista, con il quale sono in combutta l’Msi, alcuni ambienti della Dc e parti dell’apparato statale, oltre che aprire la strada ai depistaggi che seguiranno, dietro le figure di un commissario e di un giudice istruttore; tre o quattro personaggi, non di più.
Episodi del passato cui ispirarsi non mancano: lo squadrismo fascista, le aggressioni, gli attentati a membri delle Camere del Lavoro e a oppositori di sinistra, degli uomini di Mussolini tra il 1919 e il 1926, in complicità con proprietari terrieri e industriali. Infatti, nel 1969 come allora, la risposta al diffondersi dell’insoddisfazione nel Paese è stato proprio il terrorismo nero.
Per scrivere, uno scrittore deve conoscere, informarsi il più dettagliatamente possibile, pur nella consapevolezza che buona parte del lavoro svolto non troverà sede all’interno della propria macchina narrativa. L’importante è che si immerga nell’atmosfera in cui si muovono i suoi personaggi. Per esempio non gli farà male conoscere fatti che soli meriterebbero un romanzo a parte, come il tentato colpo di stato del 1964 del generale dei carabinieri De Lorenzo, appena dopo la formazione del primo governo di centro-sinistra. I tanti finanziamenti provenienti da industriali, albergatori, agrari, banche, distribuiti in grandi flussi al partito fascista e alle organizzazioni minori sin dalla fine degli anni Sessanta. Soldi che permettono il proliferare di giornali e riviste neofasciste, di Leghe e di movimenti i cui reclutamenti attingono nell’universo dei giovanissimi; e che contribuiscono al crescendo di aggressioni, culminato con la bomba esplosa nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana. Non gli farà male conoscere, se vuole dare maggiore incisività alla scrittura, altri due tentativi di Golpe: quello di Valerio Junio Borghese (graziato dall’amnistia del 1948 che ha rimesso in circolo i fascisti nel sistema politico italiano) del 1970, e quello di Edgardo Sogno e della congiura della Rosa dei Venti del 1974.
Tuttavia, la vera lezione di Piazza Fontana è legata alla sua funzione strategica: creare insicurezza e caos per spostare l’opinione pubblica a destra e così suscitare il desiderio di un governo forte in grado di riportare l’ordine, visto che il sistema democratico non è in grado di farlo. Una strategia antioperaia e liberticida, di cui la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura è stata solo un primo atto della costruzione di un luogo comune, tutt’ora vivo, che vuole il terrorismo essere unicamente di sinistra. Lo stesso termine stragismo, utilizzato da storici e analisti, crea una distinzione sospetta da ciò che viene chiamato, senza esitazione, terrorismo. Idee più simili a sentimenti che non a concetti, che tuttavia stridono con le cifre degli anni Settanta.
Le statistiche accertano complessivamente, tra il 1969 e il 1980, 12.690 attentati politici. Su un totale di 362 vittime, 92 morte tra il 1969 e il 1974, mentre 270 negli anni che vanno dal 1975 al 1980. Nel primo periodo, 63 vengono uccise da attentati terroristici di destra, 9 da attentati di sinistra e 10 cadono in conflitti a fuoco con le forze dell’ordine. Di dieci non è stata accertata la paternità degli attentati.
Nel secondo periodo, 115 persone vengono uccise da terroristi di destra e 110 da terroristi di sinistra, 29 dalle forze dell’ordine (dalle quali sono escluse quelle legate a leggi speciali che lasciavano loro mano libera di sparare anche sui manifestanti) e 16 di padre ignoto. Nella seconda metà degli anni Settanta cresce anche il numero dei feriti, soprattutto in attentati senza un obiettivo preciso che non fosse il terrore, che sono una specialità del terrorismo di destra (551, di cui 200 solamente a Bologna nel 1980), ma anche in attentati mirati (172 feriti, di cui 147 vittime di sinistra, 6 di quelli di destra e 19 senza paternità).
Numeri che aiutano a capire perché ancora oggi l’opinione pubblica sia tanto sensibile al richiamo della parola magica, ma che dimostrano la perfetta riuscita di quella strategia se perdura ancora oggi simile a un archetipo junghiano, in immediato ed esclusivo abbinamento alla parola comunismo. Dei paramilitari neofascisti e della violenza di Stato, la cui connivenza nelle stragi resta tutt’oggi inconfessabile, chissà perché, non si parla mai.
Il protagonista è uno dei giovani che in questo contesto storico decidono di armarsi. Di coloro, cioè, che pensano il Parlamento come un nucleo compatto costruito con i voti dei cittadini in difesa di interessi privati e che da quel luogo niente di buono per i lavoratori potrà mai uscire. Di giovani che, dopo avere tentato la via della contestazione nelle piazze e avere assaggiato la violenza dello Stato, delle sue sanguinose provocazioni e delle leggi speciali, decidono di rispondere con le armi. Cadono nella trappola, accettano la provocazione e si tuffano nell’impazzimento di quegli anni. È una strada senza uscita e di difficile comprensione per il lettore-massificato di oggi, addomesticato da anni di martellamento mediatico, e che ha assorbito in maniera acritica il linguaggio della verità. Lo scrittore deve essere pienamente consapevole dei censori creati da questo linguaggio e dell’uso strumentale che esso fa del sostantivo terrorista; un sempreverde utilizzato ancora oggi dagli Stati capitalisti per impostare anche la politica estera.
Deve tenerne conto quando ricostruisce le motivazioni dei protagonisti: perché uomini dell’apparato statale decidono di costruire sul sangue di persone innocenti la loro strategia? Perché scelgono di allearsi con la peggiore feccia politica? Perché un giovane decide di prendere le armi lungo una strada che conduce all’inevitabile autodistruzione? Sono queste le domande che portano avanti la vicenda e il percorso intimo dei personaggi. E proprio quest’ultimo è la grande scommessa con il lettore; scandagliare quel tratto di terra di nessuno che si situa tra le motivazioni e l’azione che solamente la narrativa è in grado di attraversare. Condannare o assolvere è compito dei giudici, non di un romanziere, al quale, semmai, spetta il compito dell’analisi, di liberarsi di ogni pregiudizio e di ogni interesse di parte. La parola mostro può circolare sulla bocca di giornalisti e politici, ma non può trovare asilo nella penna di chi scrive. E se c’è qualcosa che il nostro scrittore avverte, di fronte all’arresto finale del suo personaggio avvenuto con ventisette anni di ritardo, è la sensazione di assistere a una ideale prosecuzione di una trama iniziata con la bomba di Piazza Fontana - di una condotta politica che lo Stato non ha intenzione di chiudere. E vuole riprodurre sulla pagina la sensazione di angoscia che adesso lo pervade. Non riuscire in questo, non trasmettere dubbi al lettore, rappresenterebbe il fallimento del romanzo.
È bene ricordare che, poco più di trent’anni fa, quando apparvero sulla scena genovese i primi attentati del gruppo gappista XXII ottobre, i suoi componenti non vennero definiti come terroristi contro i quali mobilitare le masse. Ancora non si identificava il terrorista come nemico dello Stato democratico, e una simile etichetta, che oggi appare assai scontata e di immediato effetto, non sarebbe stata necessariamente accolta nel tessuto sociale con assoluta riprovazione. In Parlamento sedevano ancora politici di vario orientamento politico, che avevano operato con azioni di stampo terroristico durante e dopo la Resistenza, quando non contro di essa. E nella memoria degli individui erano ancora presenti le imprese dei partigiani.
Tuttavia, tante premure sono venute meno con lo svilupparsi degli eventi. In fondo, detto senza ipocrisie, coloro che sparavano e i morti, inseriti in un contesto come quello italiano, in cui l’amore per il governo non era certo la fede più diffusa, non rappresentavano per i politici il problema più grave. Negli ultimi dieci anni sono state uccise dalla mafia 2.500 persone. Eppure, nessuno in parlamento avverte una simile strage come una tragedia sociale.
La violenza, quindi, non è mai stata di per sé un problema per lo Stato, e anche allora lo era solo in parte; non grave, almeno, quanto la massiccia pressione del dissenso generato dalla controinformazione di alcuni intellettuali e accademici, della quale le proteste studentesche, la gente in piazza e gli scioperi operai erano solo la manifestazione più visibile. Ciò che faceva paura ai padroni del vapore era la strisciante sfiducia e il malcontento diffusi nell’intero tessuto sociale. Tuttavia, i politici sapevano che chi sparava era un ottimo terreno su cui costruire un’offensiva per colpire il dissenso a 360 gradi. Nasce così il processo 7 aprile 1979.
Uno dei meriti dei governi di allora è stato l’uso dei media per raggiungere i propri obiettivi, la spettacolarizzazione del problema, la cui performance più riuscita è stata il rapimento di Aldo Moro. Pur tuttavia, il consenso dell’elettorato è fondamentale in una democrazia. Per uno Stato dal bilancio fallimentare, in cui non una sola istituzione funzionava, a partire dalla scuola per finire alla sanità, in cui gli stipendi erano tra i più bassi d’Europa e la sicurezza sul lavoro un lusso, era divenuto vitale trasformare agli occhi del cittadino quello che era un grave problema sociale ed economico in una questione di ordine pubblico. Ed è stato questo il grande capolavoro dei politici. Una recita che non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di stampa e televisione. Proprio come oggi non sarebbe possibile la caccia al terrorista in Medio Oriente senza le menzogne dell’intero apparato mediatico. Tant’è che giornali, radio e televisione, si sono mansuetamente assestati sulla linea della solidarietà nazionale, con un surplus di impegno forcaiolo da parte dei giornali di sinistra come L’unità, La Repubblica e Paese sera.
Accadde così quel che Leonardo Sciascia descrive ne L’affaire Moro: “È come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse alla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi. [...] Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità?”
La definitiva repressione dello Stato, per come si è verificata e per le anomalie democratiche di cui è stata portatrice, pone allo scrittore un complicato problema narrativo. Come spiegare fatti le cui logiche vanno ricercate nella ragione di Stato e non in quella di una normale routine democratica? Come dire che gli anni Settanta si sono svolti politicamente all’insegna di un perenne colpo di Stato mai confessato? Come vincere l’incredulità del lettore? Non è un caso che il 7 aprile 1979 sia una data opportunamente rimossa, a differenza del 12 dicembre, dalla coscienza degli italiani, i quali, dell’istruzione di tale processo, hanno saputo solamente ciò che faceva comodo sapessero: il lancio dell’arresto con il trionfalismo dei titoli (catturato il vertice delle Brigate rosse!), le colossali menzogne seguite dal silenzio e la loro lenta caduta nell’oblio. Eppure, se ancora oggi il sostantivo terrorista può inglobare chi parla e chi scrive (l’abbiamo visto proprio nella settimana che ha preceduto le manifestazioni spontanee contro il raddoppiamento della base americana a Vicenza), lo si deve in buona parte all’operato di un pugno di giudici in occasione di quella che si può definire la più grande montatura mediatico-giudiziaria della Repubblica italiana. Un caso talmente eclatante da suscitare l’interesse di Amnesty International e da costringere il presidente francese Mitterrand a una decisione politicamente grave e importante, oltre che molto discussa.
Si tratta del momento in cui lo Stato, incarnato nei suoi tre poteri, sviluppa i principi d’attacco all’opposizione politica extraparlamentare di sinistra, della cui riuscita il Pci si rende garante. Dopo avere accettato lo Stato delle stragi, per realizzare il compromesso storico in cambio della propria presentabilità politica, il partito comunista si fonde con esso nei panni dell’istituzione giudiziaria, per arrivare in futuro a trasformarsi il quel sarchiapone politico di oggi.
Il punto di ancoraggio è la parola terrorismo. Riuscire a estendere il suo significato a chi scrive, a chi insegna nelle università, a chi parla in radio, a intellettuali, accademici, scrittori e direttori di giornali; in poche parole, riuscire a cambiare nome al reato d’opinione.
Nasce così il Teorema Calogero, dal nome dal sostituto procuratore che l’ha inventato. Il capolavoro di alchimia penale che porterà quest’ultimo ad affermare di avere incastrato il Grande Vecchio e i capi supremi del terrorismo italiano. Il teorema è semplice, persino banale nella sua formulazione: il terrorismo è una specie di cupola, una piramide al cui vertice siedono intellettuali, scrittori e accademici, nella fascia centrale stanno i loro libri e i direttori dei giornali di controinformazione, il cui compito consiste nel pubblicare ordini criptati dei capi, destinati ai gruppi armati che formano la base. Basta togliere di torno i capi per tagliarne la testa. Con quali prove arrestarli? Non ce n’è bisogno. Essendo capi non lasciano certo tracce, ma proprio questa è la prova della loro colpevolezza. Sarebbe come dire: Si fidi, lei è colpevole! E con questo prodigio giuridico-giudiziario, la contiguità/partecipazione e una serie di forzature del diritto riguardo all’allungamento artificioso della carcerazione preventiva – che per alcuni è durata fino a cinque anni – Calogero riesce a mettere in carcere e a tenere dentro, in attesa di giudizio, 140 persone.
Si può a questo punto comprendere perché la costruzione di un personaggio da inquisizione medioevale come il sostituto procuratore Calogero possa presentare non pochi problemi allo scrittore, tra tutti la difficoltà di renderlo credibile, nonché di spiegare al lettore come un individuo del genere possa agire indisturbato in una democrazia moderna. D’altro canto, questo è quanto è accaduto in Italia alla fine degli anni Settanta, ed è ciò che lo scrittore ha scelto di raccontare.
Il tema del ritorno è il filo che lega il presente al passato, non solo in narrativa. L’arresto nel 2007 del personaggio Cesare Battisti e il salto indietro fino al 12 dicembre 1969, diventano l’espediente narrativo che permette di risalire il tempo e la Storia. L’Italia è cambiata da allora, la differenza si sente, anche se non è cambiato il modo di fare politica. Diversa, semmai, è la partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. Ognuno per sé, compresi gli scrittori che hanno smesso di incontrarsi per discutere sulla società. Trent’anni fa, su un episodio come questo si sarebbe sollevato un dibattito tra contrari e favorevoli all’arresto. Gli scrittori ne avrebbero scritto, parlato. Nessuno avrebbe avuto paura di esprimere la propria opinione. Mentre adesso Cesare Battisti è un uomo solo che entra in carcere nell’indifferenza generale, tra la propria proclamazione di innocenza e gli sberleffi di alcuni giornalisti che senza vergogna hanno descritto la sua latitanza a Copacabana come una piacevole vacanza. In questa sua prospettiva di ritorno si avverte la fine della speranza di chiudere un vecchio contenzioso che esca dalle esperienze personali, dai desideri di vendetta dei parenti delle vittime e dello Stato. Si sente che un atto di giustizia sia qualcosa di più complesso di un semplice arresto, che oggi dovrebbe avere un respiro più ampio, più vicino a una verità che, evidentemente, a troppe persone costerebbe cara.

E che Cesare Battisti non abbia a che vedere con il processo 7 aprile, per il romanzo conta relativamente. Lo scrittore ha scelto di narrare quel processo, tra tanti altri, per il suo valore simbolico. D’altro canto, nemmeno la sentenza che condanna Battisti in contumacia, così come è accaduto per molti altri processi di quel periodo, è priva di vizi di forma e di ombre. E i giornalisti lo sanno, tant’è che, nel riportare sommariamente la notizia del suo arresto, hanno accennato alla legge Mitterrand, tacendone però i termini. Eppure la spiegazione non avrebbe occupato molto spazio: analizzati gli atti, i giudici francesi hanno ritenuto che Cesare Battisti fosse stato condannato nel 1987 sulla base della legislazione d’emergenza – un tribunale militare – riservata ai processi contro i militanti dell’estrema sinistra. Senza cioè che gli venissero riconosciuti gli elementari diritti di difesa che qualunque codice di diritto penale garantisce all’imputato. Basti pensare che nell’istruttoria precedente al processo per l’omicidio Torreggiani, tredici indiziati hanno denunciato torture e ci sono state molte confessioni in seguito ritrattate. Tra i testimoni dell’accusa figurano una minorenne psicolabile e un pentito con turbe mentali. La contraddittoria condanna per due omicidi commessi nel febbraio 1979, lo stesso giorno e alla stessa ora, uno a Milano e l’altro a Venezia. E allo stesso modo che per Battisti, e per gli stessi motivi, la Francia ha deciso di garantire tolleranza anche ad altri latitanti, dietro promessa di ripudiare la lotta armata. Tra questi figurano alcuni condannati nel processo 7 aprile. Tolleranza, naturalmente, e non asilo politico; lo scrittore deve ricordarlo durante la stesura del romanzo. In fondo l’Italia era pur sempre una democrazia. Tolleranza scaduta nel 2004, quando il presidente Chirac ha dato il consenso all’estradizione.
Da qui, arrivare a chiudere la vicenda è oramai solamente una questione di mestiere. Giunto a questo punto, lo scrittore può scegliere se far estradare il protagonista dal Brasile dove si trova adesso, o se inventare una soluzione diversa; per il romanzo poco cambierebbe. Quello che doveva dire, ormai l’ha detto.





(Testo tratto dal sito internet Carmilla.)




Walter G. Pozzi
Walter G. Pozzi, nato a Monza nel 1962, è scrittore e docente di scrittura creativa. Ha curato l’edizione italiana di “Personaggi” di Marcel Proust e di “Gatti, lupi e altri animali” di Saki. Promotore di iniziative letterarie quali il “Ronchi’78” e il “One-Man-Book”. Oltre alla Scuola di Scrittura Creativa “Paginauno” è responsabile e docente di numerosi altri laboratori di scrittura nel nord Italia. Nel 2006 fonda, insieme a Giovanna Cracco, la rivista “Paginauno”, bimestrale di cultura, letteratura e analisi politica, di cui è anche direttore editoriale. Nel 2010, sempre insieme a Giovanna Cracco, fonda la casa editrice “Paginauno” (che non pubblica a pagamento né richiede, sotto qualsiasi forma, alcun contributo all'autore).




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo