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Sagarana IL RACCONTO DELL’ACQUA


Vito Teti


IL RACCONTO DELL’ACQUA



 

 
L’acqua della partenza
 
Non avevo ancora letto i filosofi greci e gli orfici per pensare che l’acqua fosse vita e che tutto il mondo fosse acqua. Non avevo incontrato Talete di Mileto (VI sec. a C.), che vede nell’acqua l’arché, il principio; nemmeno Pindaro (V sec. a. C.) secondo cui il «bene più prezioso è l’acqua», e Anassagora per il quale «tutto scorre, tutto è acqua». Non potevo sapere che l’acqua è l’elemento predominante del nostro organismo costituendo il sessanta per cento del peso di un soggetto adulto e oltre il settanta per cento di un neonato.
Fin da piccolo ho sentito che l’acqua era l’elemento che segnava quotidianamente la vita delle persone. Pioveva e pioveva e sembrava che non dovesse mai smettere, il cielo diventava buio, calavano le tenebre, nonna e mamma) chiudevano la porta e le finestre. Quando arrivavano i fulmini e i tuoni (“lampi e troni”) terribili, rumorosi, accecanti, giungeva alle mie orecchie una voce imperiosa: «Non andare alla finestra». Ho ancora una paura reverenziale dei tuoni e dei fulmini. E pioveva e pioveva e la nonna e la mamma accendevano la candela benedetta della Candelora e pregavano Santa Barbara, che stava in un campo e “lampava e tronava” e lei, l’amara, non aveva paura, “non si spagnava”. Improvvisa la pioggia cessava e mi affacciavo al balcone per vedere uno spettacolo incredibile. La strada in discesa, quella dei giochi e delle corse, era un torrente scuro marrone, come la terra argillosa che trascinava dal “Critaro”, e trasportava pietre, piccole e grandi, rami, piante, oggetti metallici e carcasse di animali. La sorpresa e lo spavento duravano poco. Passato il pericolo, eravamo, noi bambini, immersi in quel fiume, abili a inventare giochi, a costruire barchette di carta e di legno che facevamo andare lontano lontano, là vicino, a Toronto, dove erano i padri che mandavano quelle lettere con le buste colorate. C’era l’acqua dei due fiumi, dove le donne lavavano i panni, e dove noi bambini guardavamo ammirati, e poi l’acqua delle fontane vicino al paese e ancora l’acqua della fontana dove le donne sostavano e litigavano per il turno, con uno o più bambini attaccati alle vesti e in mano i recipienti di creta. Le prese che servivano per abbeverare gli orti e l’acqua non bastava mai: bisognava alzarsi presto, prendere il turno, rispettarlo e non era sufficiente. I litigi e le risse arrivavano puntuali come le piogge e cessavano improvvisi come i temporali estivi. Avevo anch’io, nell’orto vicino alla casa, la fontana personale, una sorgente d’acqua che accudivo e che aggiustavo e accarezzavo come una donna amata. E in una proprietà di mio padre c’era la fontana di Animella, piccola anima, dove, si diceva, chi beveva diventava pazzo e strambo. Mi capita di sorridere pensando a quanta acqua dei pazzi ho bevuto, tanta per non adattarmi alle vere follie del mondo. E il mare - in lontananza si vedeva un ampio specchio - era il confine e l’orizzonte, l’oggetto del desiderio, dove andavo d’estate con mamma. Ma chi è nato in una zona dell’interno non diventa mai fino in fondo un uomo di mare. Superato il mare, laggiù, c’era mio padre. E ancora, l’arsura dei mesi estivi, la grande calura, quando andavamo a frutta, quando giravamo i sentieri lontani e poi arrivavamo sudati alla fonte e bevevamo incuranti delle avvertenze delle donne. L’acqua dei “gurnali” lungo i fiumi, le nostre piscine e vasche da bagni, dove ci spogliavamo e nudi e ci tuffavamo in un’acqua gelida e adesso mi vengono i brividi soltanto a pensarci. E la fontana della piazza, vero e proprio centro del mondo, che ha visto l’infanzia della mia generazione, prima che si mettesse in viaggio. Cercavo sempre acqua e questa ricerca mi ha segnato per sempre.
Conosco tutte le fontane del paese e tutte le fontane della Calabria, quelle più segrete e con i nomi e le leggende più strane. Dovunque vada, mi approprio dei luoghi, familiarizzando in qualche modo con le fontane e le vie dell’acqua. Mamma e nonna tornavano dalla campagna e, come accadeva sempre, domandai cosa mi avessero portato: un oggetto, un frutto, un fiore, un legno. Non avevano avuto tempo per portarmi qualcosa e mi dissero bonarie e amareggiate: «Non c’era niente, cosa potevamo portarti?». Ed io lesto risposi: «Potevate portarmi l’acqua del fiume». La notte ascoltavo i suoni del torrente di Dorico e il rumore delle foglie che mi sembrano le voci delle donne e quelle delle persone che dovevano tornare e accompagnarmi durante la vita. Mio padre lavorava e costruiva, assieme agli altri, l’America guardando le acque del lago Ontario…
 
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La religione dell’acqua
 
L’acqua in Alvaro è metafora di distruzione e di rigenerazione, di devastazione e di purificazione. Nel viaggio le popolazioni affermano il loro sentimento, la loro nostalgia dell’acqua, che avevano appreso nei paesi, nei luoghi di culto, durante i pellegrinaggi. La donna che cammina con l’orcio sulla testa è una figura ricorrente negli scritti di Alvaro e racconta la grande “sete” delle popolazioni del Mediterraneo e della regione. I calabresi «cercano mondo per l’acqua», ma, una volta partiti, l’acqua e il cibo diventano i segni delle loro ferite, dei loro rimpianti, della loro nostalgia. Il desiderio di tornare al paese d’origine, quasi all’innocenza perduta,avviene attraverso il graduale riconoscimento e la lenta riappropriazione del paesaggio, dei prodotti della terra, dell’acqua. In una nota di viaggio, Alvaro scriveva: «Era la religione dell’acqua. Noi siamo di quel popolo che in guerra chiamava: Acqua Acqua, e questo grido di certe notti se lo ricordano ancora quelli che ci stavano di fronte. Chi ci vuol riconoscere, ci guardi in viaggio se ci affacciamo al finestrino per osservare un getto d’acqua, un torrente, un rivo. L’acqua corre, l’acqua è la vita». Nel 1986, all’Università della Calabria, parlai dell’acqua nell’opera dello scrittore. Alla fine mi si avvicinò il figlio, Massimo. Mi strinse la mano in un modo che comunicava consenso. Qualche giorno dopo (4 novembre 1986) ricevetti una lettera, inviata da Roma:
«Gentile professore, trovo non facile fermare sulla carta i rapporti tra mio padre e l’acqua, certo perché si tratta di piccoli episodi, di brevi sensazioni che dette hanno un valore e scritte temono di rivelare un’eccessiva semplicità e frammentarietà.
Che dire del gesto raccolto con cui mio padre portava alla bocca un bicchiere d’acqua? Io me lo ricordo, un gesto sacrale. Rileggevo ieri una delle sue poesie grigio verdi; ne “A un compagno” si raccomanda ad un soldato di dire che il combattente ucciso prima di morire aveva bevuto “bevuto tanta acqua limpida, tanta”. Ricordo che mio padre, in campagna, faceva lunghe camminate quando veniva a sapere dell’esistenza di una fonte nelle vicinanze, le ho già detto [nel nostro incontro a Cosenza]dei momenti di stupore e di gioia quando vide nei Castelli romani, un esile getto incanalato da una foglia di castagno, me lo fece notare come fosse una qualche cosa di straordinario.
Non è che cercasse l’abbondanza. Un anno andammo in vacanza in una vallata alpina e precisamente a Caldonasso, in Val Sugana. Naturalmente le nostre gite si svolgevano tra interminabili ruscelli e cascate e corsi d’acqua come si addice ad ogni buona località alpina. Ebbene, mio padre non aveva su tanta abbondanza l’attenzione, la cura che aveva fu la fonte solitaria, dispensatrice parca di bene. Se le capiterà di arrivare a San Luca, si faccia mostrare la fonte alla quale, un tempo, le donne attingevano l’acqua. Vi si arriva su un ripido sentiero che era poi percorso in salita, con i recipienti pieni sulla testa, il viaggio andava fatto più volte per assicurare la provvista alla casa. Chi si è lavato il viso con quell’acqua penso che abbia avuto di essa altra opinione dell’acqua che scende dal rubinetto…». Letteratura e vita, acqua e vita, letteratura acqua vita. Non a caso confessava Alvaro nel suo diario: «Scrivendo si trova la via come scavando si trova l’acqua».
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L’acqua che abbonda e l’acqua che manca
 
Altri nostri scrittori (Perri, Strati, La Cava, Gambino) e poeti (Lorenzo Calogero) colgono i profondi legami delle popolazioni con le acque. A inizio Novecento un contadino di Rossano dice a Nitti: «Qui abbiamo un Dio, che quando piove ci porta a mare, e quando non piove secca il mondo. Questo anno non ha piovuto da sei mesi e siamo tutti disoccupati e in miseria». Perri in “Emigranti” racconta: «Una volta cominciate le piogge non si sapeva come sarebbe andata a finire; perché in Calabria, o il tempo è secco, e allora bisogna mettere fuori tutti i Santi delle chiese per vedere un po’ d’acqua; o piove, e specialmente quando piove con lo scirocco, non la finisce più».
La vita e la mentalità delle popolazioni sono strettamente legate alla bizzarria del clima, ai forti estremi di due sole contrapposte stagioni; all’alternarsi di lunghi di periodi di piogge torrenziali, quando tutta la terra «sembra navigare sulle acque» e «i paesi diventano essi stessi dei torbidi torrenti» e di non meno lunghi periodi di siccità, in cui tutto brucia e arde. La malaria che ha segnato la vita, il corpo, le menti delle popolazioni prosperava nei luoghi delle acque putride, fetide, e malefiche.
Le grandi piogge tra gli anni cinquanta e settanta sono la causa scatenante dell’abbandono di molti paesi dell’interno (Amendolea, Africo, Casalinuovo, Careri, Natile, Brancaleone) e del lento e progressivo spopolamento di altri (Roghudi e Chorio di Roghudi, Pentedattilo, Badolato, Ragonà e Nardodipace, S. Angelo di Cetraro ecc.). Alluvioni e frane fanno della Calabria una terra in continua riparazione. Ma nella regione che naviga sulle acque, i paesi, le produzioni, le persone e gli animali pativano anche la sete. Le piogge non cadevano da marzo a ottobre inoltrato. Il paesaggio diventava arido, brullo, giallo. Gli osservatori del passato (Galanti, Padula, Nitti) segnalavano come i piccoli paesi e i grandi centri fossero sforniti di fontane pubbliche, di acquedotti, e ricorressero spesso ad acque cattive, fetide, pesanti, mollicce, di cisterna, male custodite, piene di detriti e di sporcizie d’ogni genere, di “materie straniere” che ne alteravano il gusto, nocive, causa di malattie. Spesso si ricorreva ad acqua di neve disciolta e talvolta ad acqua piovana. La mancanza d’acque viene indicata come causa delle malattie, della depressione, della tristezza delle popolazioni. La mappa dei paesi della sete e delle alluvioni, dove i santi e le Madonne venivano pregati, implorati, puniti, legati, gettati nell’acqua per ottenere la pioggia o per farla cessare sarebbe davvero vasta e colorata.
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Acque buone e acque “male”
 
 
I paesi erano segnati nelle loro vie d’uscita o di arrivo da fontane, dove si recavano le donne e dove si fermavano le persone di ritorno dal lavoro. E le campagne, gli orti, le rasule avevano le loro fonti. Le grandi e le piccole viedegli spostamenti contadini, i luoghi del lavoro e della fatica, i monti, le colline, i piani lontani erano posti familiari e addomesticati anche per la presenza di fonti, canali, fontane di acque potabili. Di ogni fonte le persone conoscevano qualità e caratteristiche, frescura e bontà. Le fontane erano luoghi di socializzazione tra donne e d’incontro, di desideri, talvolta di trasgressione. Le fontane in molti luoghi hanno un valore artistico, architettonico ed estetico La fontana del paese, della piazza, come la chiesa e la casa, è stato un luogo centrale nell’organizzazione e nella percezione dello spazio. Non c’è paese che non abbia la fontana dei ricordi e dei rimpianti, la fontana con la migliore acqua del mondo. Ogni fontana ha avuto il suo poeta. Il mio maestro delle elementari, Francesco Mazzé, ha scritto una delle più belle poesie dialettali che io conosca: “La funtana de la chiazza”. Pasolini nella dedica delle poesie a Casarsa scrive: Fontana di aga dal me país./A no è aga pí frescia che tal me país./Fontana di rustíc amòur. Fontana d’acqua del mio paese./Non c’è acqua più fresca che nel mio paese./Fontana di rustico amore.
La laminetta orfica di Hipponion è dedicata a Mnemosyne, la divinità orfica che consente agli iniziati e consacrati, in virtù delle loro esperienze mistiche, di sottrarsi per sempre al ciclo della rinascita. Contrapposta alla fonte di Mnemosyne è quella di Lete, dell’Oblio, con un’acqua stagnante, che placa soltanto per un momento la sete di vita dei non iniziati. Le credenze, i modi di dire, le leggende calabresi sembrano avere memoria di una matrice arcaica, precristiana e cristiana. Nei riti di Pasqua che si svolgevano nei paesi era centrale quello di attingere l’“acqua nuova” alle fontane. L’acqua attinta alla fontana la mezzanotte di Natale era considerata efficace per allontanare i mali e per apportare ricchezza, salute e felicità.
Il ritorno dei defunti doveva avvenire in maniera controllata, in occasioni e in giorni previsti. L’acqua è l’elemento che regola il ritorno, normalizza e placa, secondo forme culturali previste, la nostalgia della vita. Il folklore è ricco di storie di persone che assistono a processioni di defunti che si recano ad acqua, altro segno della loro sete, e che rischiano il contagio e di morire essi stessi. L’acqua rappresenta un ostacolo, un impedimento, un limite per il ritorno dei defunti minaccioso. In molti paesi nella notte di Natale o di Capodanno venivano preparati un piatto e un bicchiere di acqua per i familiari defunti che tornavano. L’acqua, come il cibo, era offerta in suffragio e in memoria dei defunti. Cristo e gli apostoli che girano per il mondo spesso domandano acqua da bere. La vita biologica dell’uomo in fondo consiste nel progressivo prosciugamento del suo corpo. La morte è perdita definitiva dell’acqua. Per questo la nostalgia e la memoria della vita ricalcano la nostalgia e la memoria dell’acqua. I culti e simboli rinviano a una storia concreta, all’ esperienza della funzione vitale dell’acqua, ai grandi contrasti climatici e naturali, ma riconducano, in forme culturali storicamente mutevoli e cangianti, all’acqua come principio naturale e biologico primario.                                                      
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Un nuovo senso dell’acqua
 
Il rapporto con l’acqua, in tutte le società del passato, anche nelle situazioni estreme di penuria, ha dato vita a una ricchezza di tecniche e di saperi, a una conoscenza puntuale del clima, delle stagioni, dei paesaggi. Tutto questo non è ovvio e certificato nella nostra consapevolezza di contemporanei. Nelle nostre società “progredite” –nelle grandi concentrazioni urbane, ma anche nelle città di provincia, nei paesi e nelle più piccole comunità – sono sostanzialmente ignorati i cicli, i ritmi, le fasi, i luoghi dell’acqua. L’acqua tende a essere relegata entro una sfera marginale, smarrisce la sua storica centralità, e con essa la sua stessa “sacralità”.
La perdita del rapporto con i luoghi e con le loro risorse comporta l’affermarsi di una cultura dello spreco, l’illusione che l’acqua sia un bene scontato e illimitato. Non è così. Quasi due miliardi di persone nel mondo non hanno accesso oggi all’acqua potabile; due milioni e duecentomila persone, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, muoiono ogni anno per malattie provocate dall’acqua cattiva che bevono. Tutti i giorni circa seimila bambini muoiono per lo stesso motivo. Tra meno di venti anni più di tre miliardi di persone non avranno la possibilità di pagare un bene primario come l’acqua salubre a un prezzo per loro abbordabile. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri è destinato ad aumentare anche nella disponibilità di acqua. Nel nostro Paese, ogni persona consuma una quantità quaranta volte superiore a quella di un contadino del Sud-est africano. L’errata convinzione che l’acqua sia un bene inesauribile non fa capire che la sete degli altri è all’origine di conflitti, di tensioni, di guerre che, anche a voler dimenticare aspetti etici e morali di equità e di giustizia, riguarderanno fatalmente tutti noi. È questo un fatto inedito: l’acqua è sempre più un bene condiviso, nelle premesse e nelle conseguenze; tutto quello che fanno gli altri ci interessa e quello che facciamo noi, anche nel nostro piccolo ambiente, coinvolge necessariamente altre parti del mondo, in una catena indissolubile di nessi.
La desertificazione e le alluvioni che interessano il Mezzogiorno d’Italia e il Mediterraneo, sono dovute a scelte effettuate altrove, a deforestazioni, a scioglimento di ghiacciai, a disboscamenti di foreste, all’inquinamento dei mari, all’effetto-serra, ai mutamenti del clima provocati da modelli di sviluppo degli ultimi decenni. Questo non sminuisce le responsabilità locali. Gli effetti dei cambiamenti climatici planetari sono amplificati dalle recenti ferite provocate nel territorio, dall’abbandono delle zone interne, dalle grandi speculazioni legate allo sfruttamento intensivo della risorsa turistica. Le catastrofi di Crotone, di Soverato, di Cavallerizzo, di Maierato che hanno provocato morti, lutti, dispersioni sono legate a forme dissennate di utilizzazione del territorio, al progressivo svuotamento delle zone interne, all’incuria del paesaggio, al mancato controllo e all’occultamento delle acque, che cercano le loro vie naturali. Gli incendi, i fuochi, la distruzione dei boschi sono il risvolto del mancato rispetto delle acque. Non dobbiamo rimpiangere il passato della sete, della penuria, dei torrenti perfidi, ma non possiamo sciupare una grande ricchezza.
Le iniziative contro la privatizzazione dell’acqua potrebbero diventare occasione per affermare un diverso modello di sviluppo della Calabria, per esigere la tutela del territorio, per pensare a opere e piani di prevenzione. La risposta al dissesto idrogeologico richiede politiche organiche e mirate, una nuova consapevolezza della bellezza e dell’ambiente. Contrasti, paradossi, inadempienze, “affari” di pochi. La Calabria è la regione italiana più ricca di sorgenti e insieme quella con la maggiore perdita di acque e con acquedotti e reti idriche allo stato “primitivo”, desueti, che trasportano un liquido fetido, imbevibile, velenoso (quanto sta accadendo a Vibo Valentia è davvero inquietante). D’estate (ma anche d’inverno) i rubinetti girano a vuoto e i calabresi, con le bottiglie, come nel passato, si affollano attorno alle poche fontane pubbliche rimaste in funzione. Altro che privatizzazione: bisogna ripartire dal senso del pubblico e da un senso civico inesistenti. 
Si potrebbe partire dall’acqua per affrontare in termini concreti il problema dello spopolamento, che interessa la regione e molte aree del Sud e del Mediterraneo. Certo se, con facili slogan ad affetto, con cedimenti apocalittici e un pessimismo che non lascia spazio alla speranza, si pensa che i “paesi interni sono già morti”, non ci resta che attendere catastrofi, alluvioni, siccità, svuotamento dell’interno e delle coste. Trovo perversa l’ideologia del “non fare” tanto “tutto è accaduto” al pari della “retorica del fare” comunque e senza senso politico e morale, senza un progetto e una visione del bene pubblico. Forse è il momento di pensare a un grande patto per la rinascita delle aree interne, con piani mirati, pensando alle risorse acque, ai fiumi, al paesaggio, alle pietre, ai prodotti, ai beni archeologici e artistici. Ognuno dovrebbe fare la propria parte, nel rispetto di ruoli, competenze, responsabilità. Possiamo compiere interventi necessari e importanti anche nella piccola e piccolissima scala che è più specificamente alla nostra portata. Una modesta, simbolica, proposta: il comitato che, meritoriamente, si oppone alla privatizzazione delle acque potrebbe promuovere una sensibilizzazione per il ripristino di tutte le fontane dei paesi che sono state chiuse, cancellate, sepolte; potrebbe adoperarsi perché le acque dei torrenti e dei fiumi vengano portate a nuova vita. Contrastare la privatizzazione dell’acqua significa, certo, affermare un diritto vitale e inalienabile, ma anche opporsi a chi vuole privarci di beni, valori, tradizioni, simboli, memorie, culture. “Recuperare” acque, fontane, sorgenti, fiumare serve a evitare sprechi e ad affermare un altro uso delle risorse. Recuperare – coinvolgendo tutte le istituzioni e ogni singolo cittadino - luoghi, nomi, vie delle acque; disegnare la mappa delle antiche fontane, riscoprire qualità e virtù delle acque, leggende, storie, racconti. Non è nostalgia sterile; riconoscere, riguardare, salvaguardare memorie e identità: sono imperativi morali e politici che ci consegna il tempo presente. Proviamo a immaginare e a costruire un futuro in cui le risorse naturali diventino elementi di sviluppo, ricchezza, tratti di un’identità aperta e non di degrado e di abbandono.
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L’acqua del ritorno
                                  
…e mio padre tornò una mattina calda d’ottobre. Lo vidi scendere, con l’ impermeabile in mano da una macchina, e mia madre poggiò per terra il secchio dell’acqua che portava dalla fontana della Papa e corse verso mio padre. Si abbracciarono e poi vennero verso me che ero rimasto in disparte. Avevo otto, era il 1958, anni e vedevo per la prima volta mio padre. Aveva detto addio per sempre alle acque dell’Ontario per stare con la moglie e con il figlio. Ogni via d’uscita dal paese, ogni via di ritorno, aveva una sua fontana. La fontana era in prossimità di un fiume, dove ancora fino agli anni cinquanta c’erano diecine di mulini e i frantoi. La fontana della mia ruga, quella da cui si passava per andare nella proprietà paterna si chiamava Dorico. C’erano due fontane: una con l’acqua buona e magica, l’altra con un’acqua molliccia e insapore, dove andavamo a bere e a rinfrescarci. Una versione locale dell’acqua di Mnemosyne e dell’acqua di Lete? Le due fontane avevano delle vasche in pietra costruite negli anni cinquanta dagli americani. Adesso non esistono più: seppellite dal cemento di un inutile slargo, luogo di sporcizie e di carcasse di macchine. 
Al capezzale del letto d’ospedale mio padre continua a chiedere acqua di Dorico. Gli porgo da bere e gli dico: bevi, papà, l’acqua di Dorico. Lui beve, si rasserena per un po’, poi riprende a chiedere acqua di Dorico. Il corpo di mio padre è ormai secco, prosciugato. Dobbiamo tornare a casa. Non voglio che muoia in ospedale, fuori da casa. Sull’ambulanza continua a chiedere acqua di Dorico e stringendogli la mano, lungo i chilometri che ci separano dal paese, gli dico che stiamo tornando a casa e berrà acqua di Dorico. Quando entriamo in paese, gli sussurro: siamo arrivati. A casa, dove ci aspettano familiari, parenti e vicini, mio padre si quieta come se avesse davvero raggiunto l’acqua per l’ ultimo viaggio. Quel viaggio che intraprende poco ore dopo essere tornato nella sua casa e alla sua acqua. Ho pensato mille volte a questo episodio, che per una strana coincidenza, accadeva mentre curavo un libro dal titolo “Storia dell’acqua” (Donzelli, 2003). Pensavo a mio padre, al suo sentimento ultimo, estremo, sacro, dell’acqua dell’infanzia e della gioventù. Il cervello non più alimentato del sangue lo aveva riportato alle sensazioni primarie e infantili? Quella sua richiesta è stata dettata da malattia e da delirio? L’acqua rappresentava il ritorno all’origine, all’infanzia, al grembo materno, alla purezza? Dietro la sua richiesta c’erano la storia di una terra e l’immagine dei moribondi che hanno sete? Bere era un bisogno fisiologico di una persona il cui corpo si sta prosciugando e bere quell’acqua era il bisogno culturale, affettivo, che si era affermato nell’infanzia? O quella richiesta è stata soltanto desiderio di comunicare con me con un linguaggio condiviso e con immagini familiari? Era un modo di dirmi addio congedandosi dell’acqua dell’infanzia? Non riesco a dare una risposta. Se gli scienziati trovassero nel cervello l’emisfero, la zona, dell’acqua, non potrei spiegare ugualmente gli ultimi momenti di vita di mio padre. Il riferimento alla natura, alla storia, alla cultura mi restituiscono solo in parte il mistero e il segreto di una vita. Mio padre mi ha ricordato, forse, anche nell’ultimo istante, il sentimento sacrale dell’acqua, mi ha affidato il senso religioso della vita. Sento una grande sete, una sconfinata nostalgia di quelli che non ci sono più e di tutti quelli che ci sono.




Tratto dal “Il Quotidiano della Calabria”, 16 gennaio 2011.




Vito Teti
Vito Teti è ordinario di Etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo. I percorsi della costruzione identitaria, il motivo della melanconia e della nostalgia, l’antropologia dei luoghi e dell’abbandono, il rapporto antropologia-letteratura sono al centro della sua scrittura. È autore di reportage fotografici e ha realizzato numerosi documentari etnografici in Calabria e in Canada per conto della Rai. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il pane, la beffa e la festa. Alimentazione e ideologia dell’alimentazione nelle classi subalterne, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976 (n. ed. aggiornata 1978); Le strade di casa. Visioni di un paese di Calabria, (in collaborazione con S. Piermarini), Milano, Mazzotta, 1983; La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridonale, Roma, manifestolibri, 1993; La melanconia del vampiro. Mito, storia, immaginario, Roma, manifestolibri, 1994 (n. ed. aggiornata 2007); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Roma, Meltemi, 1999; Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004; Storia del peperoncino, Roma, Donzelli, 2007. Ha curato i volumi Mangiare meridiano. Culture alimentari del Mediterraneo, Catanzaro, Abramo, 2002 e Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Roma, Donzelli, 2003.




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