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Sagarana I POETI DI COSTA RICA IN SAGARANA 2007-2010


Tomaso Pieragnolo


I POETI DI COSTA RICA IN SAGARANA 2007-2010



 

Ho iniziato a proporre in Sagarana traduzioni di poeti del Costa Rica nel gennaio 2007, quando ancora in Italia la poesia di questo piccolo paese centroamericano era praticamente sconosciuta ed inedita. Il primo fu JORGE DEBRAVO, morto nel 1967 all’età di 29 anni per un incidente stradale, con le poesie “Gli amanti” e “Poesia dell’amore inevitabile”, intrise di passione celeste, terrena religiosità, fratellanza e amore. Poi seguirono EUNICE ODIO, con la sua raffinata, dolorosa spazialità e punte di personalissimo surrealismo, LAUREANO ALBÁN, con il suo trasparente ed ipnotico onirismo, JULIETA DOBLES, con una commovente e quotidiana umanità, ALFONSO CHASE, con un realismo nostalgico ma fiducioso, e poi molti altri ancora, che troverete in queste pagine con testi già pubblicati in Sagarana ed altri ancora inediti in Italia. Alcuni libri li incontrai durante le mie lunghe permanenze in Costa Rica iniziate nel 1990, altri mi furono donati dai miei amici, poeti autorevoli dell’istmo. Questa antologia vuol essere il compendio di un lungo ed appassionato lavoro cominciato molti anni fa, e perseguito nel tempo con dedizione e riflessione.
La poesia contemporanea del Costa Rica si inserisce pienamente nella scia più ampia della poesia ispanoamericana del novecento, tutta tesa a trovare una propria lingua, una propria dimensione che non sia epigona, lacerto della poesia europea. Più precisamente, a parte pochi autori che hanno intrapreso una strada più avanguardista in direzione del surrealismo e dell’onirismo, questi poeti prediligono un’attenzione acuta e penetrante all’intimità del ricordo, con uno stile colloquiale e quotidiano che però non esclude incursioni nella vitale fantasia dello spirito, giungendo, ognuno a proprio modo, ad un personalissimo crepuscolarismo, a volte urbano, a volte agreste, più spesso esistenziale ed intimo. Nostalgia, memoria, paesaggio, evocazioni di luoghi e tempi reali, ripudio dell’insensatezza, sono nutrimenti di questa poesia, che fluisce sottilmente tra l’effusione del ricordo ed una delicata inquietudine, insistendo spesso su figure suscitate dall’amorosa attenzione al passato, giungendo alla testimonianza di una perdita, di un indefinito ma fiducioso disagio di vivere.
 
 
 
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JORGE DEBRAVO nacque a Guayabo de Turrialba, in Costa Rica, il 31 gennaio 1938 e morì a San Josè, la capitale, nel 1967, a soli 29 anni, a causa di un incidente stradale; un autista ubriaco a bordo di una jeep lo investì mentre viaggiava sulla sua moto. La morte fu istantanea. Debravo nacque in una famiglia molto povera: il padre e la madre erano campesinos e lui il maggiore e unico maschio di cinque figli. Fin da piccolo aiutò i genitori nel lavoro dei campi, alzandosi alle tre del mattino e lavorando spesso fino alle due del pomeriggio. Non essendoci scuola nel suo villaggio, Jorge frequentò saltuariamente quella più vicina nel paese di Santa Cruz, a quattro ore di cammino da casa, fino a che la maestra non conseguì per lui una borsa di studio che gli permise di terminare le primarie a Turrialba e di isciversi al liceo. A Turrialba, ospite della nonna paterna, pubblicò i suoi primi versi nel giornale locale; a causa delle forti ristrettezze economiche, decise però di abbandonare gli studi al terzo anno di liceo per impiegarsi presso il Seguro Social. A ventuno anni, nel 1959, conobbe Margarita, la donna che fu compagna della sua vita e che sposò dopo poche settimane. Dello stesso anno la pubblicazione del primo libro di versi "Milagro abierto" attraverso il "Circulo de poetas Turrialbeño", di cui facevano parte altri poeti di spicco come Laureano Albàn e Marcos Aguilar. Attraverso il "Circulo de poetas" approfondì la conoscenza dei suoi autori preferiti, Vallejo, Neruda, Becker, Withman, Dario, Hernàndez e la Bibbia, leggendo con insaziabile sete moltissimi testi letterari, quasi a colmare il ritardo culturale in cui si era trovato a vivere e la sua crescente inquietudine. Uomo dolce con tormenti improvvisi e profondi, trovò una delle sue maggiori fonti di ispirazione nel rapporto con la moglie Margarita di cui fu molto innamorato e alla quale dedicò i versi migliori della sua produzione. L'esperienza lavorativa gli permise inoltre di conoscere da vicino le miserie e le contraddizioni del suo paese, che spesso divennero l'assillo e il movente di un filone molto prolifico della sua poesia. Pur nelle grandi difficoltà quotidiane, Debravo ripose un costante impegno nella produzione e nell'apprendimento, sacrificando spesso il riposo notturno, stimolato da uno smisurato desiderio di conoscenza e dalla speranza di superare in qualche modo la limitazione culturale dell'epoca e della propria condizione in particolare, che gli facevano percepire la vita come deriva, senza risorse, né aiuto. Riuscì a terminare il liceo frequentando corsi serali; l'anno della morte, il 1967, fu l'anno in cui avrebbe dovuto iniziare l'università. Una morte precoce e tragica, di cui appaiono numerose premonizioni nella sua poesia.
 
GLI AMANTI
Sono grandi, avventurosi, come fatti di luna nel
mezzo della notte.
Ardono come legno. Distillano un'acqua fresca e
deliziosa, come la linfa dei grandi alberi.
Non sembrano venire dalle rocce terrestri: li
immaginiamo germogliati dalle caverne più selvagge e
profonde. O saliti forse da un fosso oceanico
dove hanno appreso dalle sirene l'arte dell'abbraccio
fino ad avere braccia trasformate in serpenti.
Se non avessero nomi come i nostri, non li
crederemmo umani. Li penseremmo abitanti di
stelle sconosciute, di pianeti di frumento.
Nell'ombra si confondono, a volte, con gli
dèi. Scivolano e si spaventano come animali,
assomigliando oltremodo agli dèi.
Non osano la parola: usano il gemito e il sussurro. Le
parole più corte della terra e, ciò nonostante,
più parole.
Quando torno a casa chiederò alla Morte che non
venga per loro. Sarebbe bello che li lasciasse liberi per
sempre e che uscissero per strada abbracciati, come
profeti di un rito vegetale e poderoso.
Noi gli canteremmo canzoni di allegria e gli
metteremmo collari di foglie fresche. Grandi collari
utili come guanciali quando si trovassero
senza cuscini in qualche luogo amaro della
terra.
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di gennaio 2008 di Sagarana)

In lingua originale:
LOS AMANTES
Son grandes, venturosos, como hechos de luna en
medio de la noche.
Arden como maderas. Destilan un agua fresca y
deliciosa, como la savia de los grandes árboles.
No parecen llegar de las rochas terrestres: los
imaginamos brotados de las cuevas más salvajes y
profundas. O salidos tal vez de un foso oceánico
donde han aprendido da las sirenas el arte del abrazo
hasta lograr que los brazos se transformen en culebras.
Si no tuvieran nombres como nosotros, no los
creeríamos humanos. Los pensaríamos habitantes de
estrellas desconocidas, de planetas de trigo.
Entre la sombra se confunden, a veces, con los
dioses. Resbalan y se asustan como animales, que es
otra manera de parecerse a los dioses.
No osan la palabra: usan el gemito y el arrullo. Las
palabras más cortas de la tierra y más palabras, sin
embargo.
Cuando regrese a casa le pediré a la Muerte que no
venga por ellos. Bello sería que los dejara libres para
siempre y que salieran a la calle enlazados, como
profetas de un rito vegetal y poderoso.
Nosotros les cantaríamos canciones de alegría y les
pondríamos collares de hojas frescas. Grandes collares
que les sirvieran como almohadas cuando se hallaren
sin almohadas en algún sitio amargo de la
tierra.
 
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POESIA D’AMORE INEVITABILE
Tu giungesti alla mia anima quando era dimenticata:
le porte divelte, le sedie nel canale,
le tende cadute, il letto sradicato,
la tristezza curata come un vaso di fiori.
Con le tue piccole mani di donna laboriosa
ponesti tutte le cose in fila:
lo sguardo al suo posto, al suo posto la rosa,
al suo posto la vita, al suo posto la stuoia.
Lavasti le pareti con uno straccio bagnato
nella tua chiara allegria, nella tua fresca dolcezza,
collocasti la radio nel luogo appropriato
e pulisti la stanza di sangue e spazzatura.
Ordinasti tutti i libri dispersi
e stendesti il letto nel tuo enorme sguardo,
accendesti le povere lampade spente
e lucidasti i pavimenti di legno consumato.
Fosti d'un tratto enorme, ampia, potente, forte:
sudasti grandi fatiche lavando arnesi vecchi.
Apprendesti che nella mia anima d'avanzo era la morte
e la tirasti all'orto con pezzi di specchio.
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di Sagarana di aprile 2009)
 
In lingua originale :

POEMA DE AMOR INEVITABLE
Tú llegaste a mi alma cuando estaba olvidada:
las puertas desprendidas, las sillas en reguero,
las cortinas caídas, la cama descuajada,
la tristeza cuidada lo mismo que un florero.
Con tus manos pequeñas de mujer trabajosa
fuiste ponendo todas las cosas en hilera:
la mirada en su sitio, en su sitio la rosa
en su sitio la vida, en su sitio la estera.
Lavaste las paredes con un trapo mojado
en tu clara alegría, en tu fresca ternura,
colocaste la radio en el sitio apropriado
y limpiaste la alcoba de sangre y basura.
Acomodaste todos los libros dispersados
y tendiste la cama en tu enorme mirada
encendiste los pobres bombillos apagados
y enceraste sus pisos de madera gastadas.
Fuiste de pronto enorme, ancha, potente, fuerte:
sudaste altas fatigas lavando trastos viejos.
Supiste que en mi alma de sobra era la muerte
y la tiraste al huerto con pedazos de espejos.
 
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RESURREZIONE (inedito in Italia)
 
In questa notte assetata mi sono chiesto
chi sei e chi sei.
Perchè è triste la tua carne come un legno esaurito
e perchè hai colma la bocca di spilli.
E lentamente, questa notte ti ho separata
come un albero d'amore dal resto delle donne
e facendo del mio sangue un'acqua ho battezzato
con essa le tue angustie e i tuoi piaceri.
E ho detto alla morte che non può uccidermi!
E ho detto alla vita che non può vincermi!
E ho detto alla terra che se riesce a seppellirmi
dovunque sia tu andrai a raccogliermi!
E ho detto al nulla che se riesce a spegnermi,
tu, con i tuoi grandi baci, tornerai a incendiarmi!
 
In lingua originale:
 
RESURRECCIÓN                                                                        
 
Esta noche sedienta yo me he preguntado
quién eres y quién eres.                                                                                                                    .
Porque es triste tu carne como un leño apagado                                         
y porque tienes llena la boca de alfileres.                             
Y despacio, esta noche yo te he separado                                       
como un árbol de amor de las demás mujeres                                             
y haciendo de mi sangre un agua he bautizado                                           
con ella tus angustias y placeres.                                                     
Y le he dicho a la muerte que no puede matarme!                          
Y le he dicho a la vida que no puede vencerme!                                         
Y le he dicho a la tierra que si logra enterrarme                                          
a donde ella me entierre tú irás a recogerme!                                              
Y le he dicho a la nada que si logra apagarme,                                           
tú, con tus grandes besos, volverás a encenderme!
 
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GLI ANNODATI (inedito in Italia)
 
Attraverso guanciali, lenzuola, vesti attorcigliate,
navigano; nuotano sudati, a bracciate enormi, come
naufraghi pazzi.
Non sanno dove vanno, però navigano; ruotano verso
qualunque isola nel mezzo della notte.
Un falò azzurrato li chiama come un faro: verso
di esso si lanciano bevendo a grandi sorsi il succo della
vita a cui vanno incontro come se rimanesse loro
un'ora sola e non oltre sulla terra.
E a volte non navigano: d'improvviso sognano, credono
d'essere terra matura e si arano. Uno all'altro si arano
come sinceri aratri lussuriosi. Si irrigano con
sudore come se fossero acqua fertilizzante e buona.
Fanno girare le mani come turbine; tremano,
diventano quasi liquidi e si seminano tormentate
sementi di speranza.
E si addormentano sfiniti, sognando d'essere alberi
tutti rappresi di mele mature e che il vento
li culla e si porta il loro grande odore, carnale. Il loro grande
odore di frutta e raccolto.
 
In lingua originale:
 
LOS ANUDADOS                                                                     
 
Por entre almohadas, sábanas, ropas torcidas,                                         
navegan; bracean sudorosos, a brazadas enormes, como                         
náufragos locos.                                                                                       
No saben adónde van, pero navegan; ruedan hacia                     
cualquier isleta en medio de la noche.                                                     
Una hoguera azulada los llama como un faro: hacia                    
ella se lanzan bebiendo a grandes tragos el jugo de la                             
vida que se encuentra al paso como si les quedara                     
una hora de vida nada más en la tierra.                                                   
Y a veces no navegan: de pronto sueñan, creen que                     
son tierra madura y se aran. Uno al otro se aran                                      
como verdadero arados lujuriosos. Se riegan con                                     
sudor como si fueran agua fertilizante y buena.                                       
Hacen girar las manos como turbinas; tiemblan, se                       
vuelven casi líquidos y se siembran atormentadas                                    
semillas de esperanza.                                                                               
Y se duermen vencidos, soñando que son árboles                        
todos cuajados de manzanas maduras y que el viento                             
los mece y se lleva su olor grande, carnal. Su gran                       
olor a fruto y a cosecha.        
 
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APPUNTO INTERIORE (inedito in Italia)
 
Oggi la mia vita non ha peso alcuno:
è una brezza, meno di un vento, meno
di un raggio di luce.
Ora nessuno
può essermi oneroso.
Non ci sono tormenti terreni sotto la mia anima.
 
Il mio sangue è una rossa armonia viva.
Sono in armonia con la brace e la calma,
con la voce amorosa e la voce vendicativa.
 
Pare che le mie mani non esistano, pare
che il mio corpo nuoti in un’acqua innocente.
Come un vento nudo il mio cuore si versa
e fa suonare le campane dolcemente.
 
In lingua originale:
 
APPUNTO INTERIORE
 
Hoy mi vida no tiene peso alguno:
es un viento, menos que un viento, menos
que una raya de luz.
Ahora ninguno
puede serme oneroso.
No hay terrenos resquemores debajo de mi alma.
 
Mi sangre es una roja armonía viva.
Estoy en armonía con la brasa y la calma,
con la voz amorosa y la voz vengativa.
 
Parece que mis manos no existieran, parece
que mi cuerpo nadara en un agua inocente.
Como un viento desnudo mi corazón se mece
y hace sonar campanadas dulcemente.
 
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NOI UOMINI (inedito in Italia)
 
Vengo a cercarti, fratello, perché porto la poesia,
che è come portare il mondo sulle spalle.
Sono come un cane che ruggisce solo, latra
alle belve dell’odio e dell’angustia,
manda all’aria la vita nella metà della notte.
 
Porto sogni, tristezza, allegria, mansuetudini,
democrazie rotte come anfore,
religioni ammuffite fino all’anima,
ribellioni in germe che gettano lingue di fumo,
alberi che non hanno
sufficienti resine amorose.
 
Siamo senza amore, fratello mio,
ed è come essere ciechi in metà della terra.
 
Porto morti per impaurire tutti
coloro che giocano con le morti.
Vite per rallegrare i mansueti e i teneri,
speranze e uve per i dolenti.
 
Ma prima di tutto porto
un violento desiderio di abbracciare,
assordante e infinito
come una tormenta oceanica.
 
Voglio fare con le braccia
un solo lungo braccio
che circondi la terra.
 
E desidero che tutto, che la vita sia nostra
come l’acqua e il vento.
Che nessuno abbia altra patria che il vicino.
Che nessuno dica più la terra mia, la barca mia,
bensì la terra nostra, di Noi Uomini.
 
In lingua originale:
 
NOSOTROS LOS HOMBRES
 
Vengo a buscarte hermano, porque traigo el poema,
que es traer el mundo a las espaldas.
Soy como un perro que ruge a solas, ladra
a las fieras del odio y de la angustia,
echa a rodar la vida en mitad de la noche.
 
Traigo sueños, tristezas, alegrías, mansedumbres,
democracias quebradas como cántaros,
religiones mohosas hasta el alma,
rebeliones en germen echando lengua de humo,
árboles que no tienen
suficientes resinas amorosas.
 
Estamos sin amor, hermano mío,
y esto es como estar ciegos en mitad de la tierra.
Traigo muertes para asustar a todos
los que juegan con muertes.
Vidas para alegrar a los mansos y tiernos,
esperanzas y uvas para los dolorosos.
 
Pero traigo ante todo
un deseo violento de abrazar,
atronador y grande
como tormenta oceánica.
 
Quiero hacer con los brazos
un solo brazo dulce
que rodee la tierra.
 
Y deseo que todo, que la vida sea nuestra
como el agua y el viento.
Que nadie tenga nunca más patria que el vecino.
Que nadie diga más la finca mía, el barco mío,
sino la finca nuestra, de Nosotros los Hombres.
 
 
 
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EUNICE ODIO nacque a San Josè in Costa Rica il 9 ottobre 1919 da una famiglia piccolo borghese della capitale e morì a Città del Messico il 23 marzo 1974 in completa solitudine, a causa del carattere collerico e dei problemi di alcolismo che accompagnarono gli ultimi anni della sua inquieta esistenza e che la resero infrequentabile anche ai suoi stessi amici. Sembra a volte che il destino di una persona sia legato fatalmente al suo stesso nome; così può apparire infatti per la poetessa Odio, la cui vita fu segnata inizialmente dal mutuo disprezzo che divise con i suoi concittadini e che la allontanò definitivamente dalla sua patria, in seguito da una esistenza errabonda e impulsiva alla ricerca di un equilibrio che contenesse un sentire sempre estremo e una passione bruciante, caratteristiche che la resero per la società di allora una donna spigolosa e problematica, spirito libero e creatore, anticipatrice dei tempi in quanto padrona di se stessa, non sottomessa alle convenzioni piccolo borghesi e maschiliste dell'epoca. Dopo aver frequentato le scuole primarie e secondarie a San Josè mettendosi in evidenza per la vivacissima intelligenza e la rapida capacità di apprendimento, arricchì la propria formazione con lo studio approfondito della poesia moderna, viaggiando per tutta l'America Centrale, Cuba e gli Stati Uniti. Di ritorno in Costa Rica nei primi anni quaranta, alcune sue poesie furono lette alla radio nazionale con lo pseudonimo di Catalina Mariel; dal 1945 al 1947 pubblicò i suoi testi nel Repertorio Americano di J.G. Monge e nei periodici La tribuna e Mujer y Hogar . Nel 1947 vinse il premio di poesia “15 di Settembre” con la raccolta Los elementos terrestres e dopo essersi recata in Guatemala per ritirarlo, decise di fermarsi a vivere in quel paese, lavorando come funzionario del Ministero dell' Educazione e come giornalista per riviste e periodici. Continuò comunque a viaggiare frequentemente per l'America Latina, specialmente in Argentina dove pubblicò nel 1953 il secondo libro Zona en territorio del alba , selezionato per rappresentare il Centro America nella collezione Brigadas Liricas . Fu del 1957 il suo libro di maggiore esito, El transito de fuego che vinse il “Certamen de Cultura de El Salvador”. Nello stesso anno si trasferì in Messico dove visse fino alla morte (tranne una permanenza di due anni negli Stati Uniti) e dove lavorò come giornalista culturale, critico d'arte e traduttrice dall'inglese, pubblicando racconti, saggi e rassegne in riviste specializzate, sviluppando per questo paese e la sua storia mitica un amore profondo e creativo, tanto da farle rifiutare diverse e ben retribuite offerte di lavoro in altri paesi, compresa l'Italia. Nel 1962 diventò cittadina messicana e dal 1964 collaborò con la rivista venezuelana Zona Franca . I suoi ultimi anni furono amareggiati dall' aspra polemica con la sinistra messicana che mal reagì ai suoi critici articoli nei confronti di Fidel Castro, isolandola professionalmente e ostacolando la sua carriera giornalistica. Alimentò quel periodo della sua esistenza con l'alcol e una collera lacerante che ancor più la separarono dal mondo; morì nel 1974 mentre preparava una antologia dei suoi migliori testi ( Territorio del alba y otros poemas ) che ebbe edizione postuma nello stesso anno. La morte la colse in assoluta solitudine, tanto che il suo corpo fu trovato nel bagno di casa dieci giorni dopo il decesso. Ebbe grandi amici fra gli intellettuali del Messico (come ad esempio Octavio Paz, suo grande ammiratore) uomini e donne che vedevano con distanza e disapprovazione la costante battaglia e il luccichio sempre pronto dei coltelli della signora Odio, ma che non smisero mai di ammirare e riconoscere l'importanza della sua opera letteraria, riscoperta negli ultimi anni dopo un lungo periodo di oblio grazie all'interesse del suo grande amico Juan Liscano. La poesia di Eunice Odio si può a grandi linee situare nella transizione tra realismo e avanguardia, specialmente dentro la corrente surrealista, coniugata a quel realismo magico che ha prodotto alcune delle opere migliori del secolo scorso. Cercò di ricreare nella sua opera la visione duttile e inappagata di un mondo spesso gravoso, trasmettendo nei suoi versi la stessa intensa passione con cui visse i suoi giorni. Da una prima produzione più tradizionale ( Los elementos terrestres ) di cui l'erotismo esplicito e delicato e la celebrazione della consegna fisica tra amato e amata sono gli argomenti portanti, ricreati con echi letterari di San Juan de la Cruz e del Cantico dei Cantici, Eunice sviluppò in Territorio del alba una maggiore audacia lessicale con immagini forti e originali ed una punta di surrealismo come apporto all'avanguardia del periodo. In Transito de fuego praticò una sorprendente intelligenza creatrice, capace di materializzare il nominato mediante la parola scritta in forma allegorico-drammatica, con versi spesso indecifrabili ed ermetici, fino ad arrivare nell'ultima produzione ( Pastos de sueños ) ad una poesia più metafisica e concettuale, più distaccata e di più ampia estensione. Un aspetto importante che pervase quasi tutta la sua opera è l'importanza che concesse al corpo umano, descritto e cantato come parte inscindibile della natura, come un uccello o una montagna; e spesso in piena natura mitica situò i personaggi, fusi con il resto degli elementi in uno spazio aperto e terrestre. Ma per capire più a fondo la poesia di Eunice Odio probabilmente è necessario comprendere la solitudine che sempre accompagnò la sua vita, un senso di perdita costante che la portava a celebrare ogni aspetto dell'esistenza come ricerca estenuante dell'amore totale e mortale con visceralità stremata e bruciante, come dono naturale e unico consegnato interamente in ogni gesto e parola; quel genere di amore certo a volte estremizzato, ma che solo può esistere nella anime illuminate e che spesso è destinato a eludersi e deludersi per il ripudio timoroso che nel mondo può incontrare. Se a questo aspetto si aggiungono il fastidio e il sospetto che la figura indipendente ed emancipata di Eunice sempre provocò nella società conservatrice del tempo, il suo isolamento professionale e da un certo punto in poi sociale risultano il perno di una vita che mai si adattò alla convenienza e alla convenzione, ma che sempre cercò di costruire un ponte tra un sé vitale e impetuoso e una società impreparata ad accoglierlo.
 
 
IMPRIGIONATA DALLA SPUMA
 
I

Imprigionata in carceri di spuma
nella misura del tuo corpo,
non vedo passare la notte,
solo vedo il giorno
che entra dalle tue ascelle trasparenti
e ti denuda.
 
Vedo, amore mio,
il letto dove stiamo
e dividiamo i doni,
i cieli…
Tutto quello che ci negò e affermò per ciò che siamo:
mille anni di allegria corporale
e materia senz'ombra
e parole
che si dicono diurnamente perché vengono dall'aria
e bisogna udirle e pronunciarle
attraverso gli alberi
e in ciò che non si scrive perché ancora non si inventa il suo
nome;
perché il suo giubilo
tuttavia non è stato scoperto
e i fiori del suo intorno
ancora non sono cose del vento
(ancora non sono andati a un inverno né tornati alla primavera).
 
II

Giungo al tuo corpo come se andassi ai fiumi,
come vanno i fiumi agli uccelli
e questi allo spazio slegato e florido.
 
Vengo da te all'era
in cui tutto è di tutti:
quelli che arrivano, quelli che se ne sono andati,
quelli che ancora non sono giunti,
quelli che non torneranno…
 
Perché questo è il tuo corpo:
un dentro, un fuori condiviso
da me e dal vento,
dal mare e dagli esseri che lo guardano;
dal colore e dagli assalti dell'autunno
e dalle avventure dell'estate
che indossa cose silvestri
ed è custode della api
e fonde le erbe in un crogiolo mattutino,
in un prolungamento di gigli. 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di aprile 2008 di Sagarana)
In lingua originale:
APRISIONADA POR LA ESPUMA
 
I
 
Aprisionada en cárceles de espuma,
en la medida de tu cuerpo,
no veo pasar la noche,
sólo veo el día
que entra por tus axilas transparentes
y te desnuda.

Veo, amor mío,
el lecho donde estamos
y compartimos
las dádivas,
los cielos...
Todo lo que nos negó y afirmó como lo que somos:
mil años de alegría corporal
y materia sin sombra
y palabras
que se dicen diurnamente porque vienen del aire
y hay que oírlas y decirlas
a través de los árboles
y en lo que no se escribe porque aún no se inventa su
nombre;
porque su júbilo
todavía no ha sido descubierto
y las flores de su alrededor
aún no son cosas del viento
(aún no han ido a un invierno ni regresado a la primavera).
 
II

Voy a tu cuerpo igual que ir a los ríos,
igual que van los ríos a los pájaros
y ellos al espacio desatado y florido.

Vengo de ti a la era
donde todo es de todos:
los que llegan, los que se han ido,
los que aún no han venido,
los que no volverán...

Porque eso es tu cuerpo:
un adentro, un afuera compartido
por mí y por el viento,
por el mar y los seres que lo guardan;
por el color y las embestidas del otoño,
y las andanzas del verano
que viste cosas silvestres
y es custodio de las abejas
y funde las hierbas en un crisol matutino,
en una prolongación de azucenas.
 
 
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RICEVIMENTO DI UN AMICO
 
Lo seguo,
lo precedo nella voce
perché ho,
come il fumo spopolato,
vocazione di acquerello.
 
Raccontami
come sono lì le cose di consumo:
 
libri,
rose,
tintinnii di rondini.
 
A parte tutto questo
gli domando
 
dei manghi geologici
che lo bordeggiano di polpa,
 
e di un nuovo fiume,
senza guardarlo,
 
con popoli di suono
e longitudine di Arcangelo.
 
Dimmi anche qualcosa del piccolo litorale
dove recentemente il giorno,
come un celeste animale bifronte,
si accampò in due acquari
e si colmò di pesci.
 
O se lo ricevettero unanimi gli alberi
come quando elessero la prima allodola dell'anno
e il giorno della fioritura.
 
Riassumimi ora che tremo
benignamente
dietro una rondine,

ora che mi propongono pubblicamente
per nudo di farfalla
 
e sto come le rose
disordinando l'aria.

(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di gennaio 2009 di Sagarana)

In lingua originale:

RECEPCIÓN A UN AMIGO

 
Lo sigo,
lo precedo en la voz
porque tengo,
como el humo despoblado,
vocación de acuarela.

Cuénteme
cómo son ahí las cosas de consumo:

libros,
rosas,
tintineos de golondrina.

Aparte de todo eso
le pregunto

por los mangos geológicos
bordeándolo de pulpa,

y por un rio nuevo,
sin mirarlo,

con pueblos de sonido
y longitud de Arcángel.

Dígame algo también sobre el pequeño litoral
donde recientemente el día,
como un celeste animal bifronte,
acampó en dos acuarios
y se llenó de peces.

O si lo recibieron unánimes los árboles
como cuando eligieron a la primera alondra del año
y el día de florecer.

Resúmame ahora que tiemblo
benignamente
detrás de una golondrina,

 
ahora que me proponen públicamente
para desnudo de mariposa

y estoy como las rosas
desordenando el aire.
 
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VORREI ESSERE BAMBINA
 
Io vorrei essere bambina
per accoppiare le nubi a distanza
(alte claudicanti della forma),
 
per giungere all’allegria delle piccole cose
e domandare,
come chi non lo conosce,
il colore delle foglie.
Com’era?
 
Per ignorare ciò che è verde,
il verde mare,
la risposta salubre del tramonto in ritirata,
il timido gocciolare degli astri
sul muro del vicino.
 
Essere la bambina
che cadeva d’improvviso
dentro un treno con angeli,
che arrivavano così, in vacanza,
a correre brevemente tra le uve,
o attraverso notturni
fuggiti da altre notti
di geometrie più alte.
 
Però adesso, che cosa devo essere?
Se mi sono nati questi occhi così grandi
e questi chiari desideri di sbieco.
 
Come potrò essere ora
quella che voglio io
bambina di verdi,
bambina vinta di contemplazioni
che cade da se stessa rosea
 
... se mi dolse moltissimo dire
per raggiungere nuovamente la parola
che fuggiva,
saetta scappata dalla mia carne,
 
e mi ha addolorato molto amare a tratti,
impenitente e sola
e parlare di cose incompiute,
tinte cose di bimbi,
di candore dissimulato,
o di semplici api
aggiogate a tristi rosari.
 
O essere colma di questi scatti
che mi cambiano il mondo a grande distanza.
 
Come potrò essere ora,
bambina in tumulto,
forma mutevole e pura,
o semplicemente, bambina alla leggera,
divergente in colori
e adatta per l’addio
in ogni momento.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel volume “Questo è il bosco” di Eunice Odio, 2009 Edizioni Via del Vento, a cura di Tomaso Pieragnolo)
 
In lingua originale:
 
YO QUISIERA SER NIÑA
 
Yo quisiera ser niña
para acoplar las nubes a distancia
(claudicadoras altas de la forma),
 
para ir a la alegría por lo pequeño
y preguntar,
como quien no lo sabe,
el color de las hojas.
¿Cómo era?
 
Para ignorar lo verde,
el verde mar,
la respuesta salobre del ocaso en retirada,
el tímido gotear de los luceros
en el muro del vecino.
 
Ser niña
que cayera de pronto
dentro de un tren con ángeles,
que llegaban así, de vacaciones,
a correr un poquito por las uvas,
o por nocturnos
fugados de otras noches
de geometría más altas.
 
Pero ya, ¿que he de ser?
Si me han nacido estos ojos tan grandes
y esos rubios quereres de soslayo.
 
Cómo voy a ser ya
esa que quiero yo
niña de verdes,
niña vencida de contemplaciones,
cayendo de sí misma sonrosada
 
...si me dolió muchísimo decir
para alcanzar de nuevo la palabra
que se iba,
escapada saeta de mi carne,
 
y me ha dolido mucho amar a trechos
impenitente y sola
y hablar de cosas inacabadas,
tintas cosas de niños,
de candor disimulado,
o de simples abejas,
enyugadas a rosarios tristes.
 
O estar llena de esos repentes
que me cambian el mundo a gran distancia.
 
Cómo voy a ser ya,
niña en tumulto,
forma mudable y pura,
o simplemente, niña a la ligera,
divergente en colores
y apta para el adiós
a toda hora.
 
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 EPIGRAFE (inedito in Italia)
 
I
 
La tua mano in cui si sdoppiano usignoli,
la sua pallida nudità,
il suo ampio petto di muschio coronato,
è mano che apre al vento reclinato
chiaro gelsomino tra le tempie cupe.
Sì, sfogliata l’acqua sulla fronte,
coltiva piccola placidità di lirio
e tra le dita spicchi di violini.
 
II
 
Tendi l’udito e ascoltami questa canzone
che è come semente di stagioni.
 
Che è come la casa d’estate
dove mi cresce dalla mano un bimbo
e l’anima spinge la riva
ed è come pelle l’anima, non si sente.
 
Entreremo d’un tratto nell’estate come alberi
vegetalmente aperti di uditi e di polvere,
perché tutto rifluisce verso l’arrivo,
ascende il ventre a capitale del frutto
e l’aria verso equazione di rondine.
 
Germogli sacramentali dell’erba,
oh, doni che salgono dalle viscere,
somma di transitati alimenti!
 
E all’altezza del petto e della coltura
seme di silenzio e luce deserta.
 
Tutto ritorna alla sua forma esatta.
La vita riprende la sua ambizione piccola
d’essere, del tutto, vegetale profondo,
recondito edificio e luce aperta.
 
In lingua originale
 
EPÍGRAFE

I

Tu mano en que desdoblan ruiseñores
su pálido desnudo,
su ancho pecho de musgo coronado,
es mano que abre al viento reclinado
claro jazmín entre la sien oscura.

Sí, deshojada el agua entre la frente,
labra pequeña placidez de lirio
y entre los dedos gajos de violines.

II

Tiende el oído y óyeme esta canción
que es como semilla de estaciones.

Que es como la casa de verano
donde me crece de la mano un niño,
y el alma da empujones a la orilla,
y es como piel el alma -no se siente.

Entraremos de pronto en el verano como árboles
vegetalmente abiertos de oídos y de polvo,
Porque todo refluye hacia el arribo,
asciende el vientre a capital de fruto
y el aire hacia ecuación de golondrina.

¡Brotes sacramentales de la hierba,
oh, dádivas subiendo de la entraña,
suma de transitados alimentos!

Y a la altura del pecho y la labranza
semilla de silencio y luz desierta.

Todo regresa hasta su forma exacta.
La vida retoma su ambición pequeña
de ser, del todo, vegetal profundo,
recóndito edificio y luz abierta.
 
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POEMA PRIMO - Possessione nel sogno - (inedito in Italia)
 
Vieni
Amato
 
Ti proverò con allegria.
Ti sognerò con me questa notte.
 
Il tuo corpo finirà
dove comincia per me
l’ora della tua fertilità e della tua agonia;
e poiché siamo pieni di angoscia
il mio amore per te è nato nel tuo petto,
è che ti amo in principio per la tua bocca.
 
Vieni,
mangeremo nel luogo della mia anima.
 
Prima di me ti si aprirà il mio corpo
come mare precipitato e colmo
fino al crepuscolo di pesci.
Perché sei bello,
fratello mio,
eterno mio dolcissimo.
 
I tuoi fianchi in cui il giorno batte le palpebre
colmando con il suo odore tutte le cose,
la tua decisione di amare,
da subito,
sfociando inatteso alla mia anima,
il tuo amore mattutino
in cui riposa il bordo del mondo
e si dilata.
 
Vieni.
Ti proverò con allegria.
 
La tua voce ai miei piedi sarà un mazzo di lampade.
 
Parleremo del tuo corpo
con allegria purissima,
come bambini svelati nel cui precipizio
fu scoperto a stento un altro bimbo
e spogliato il suo incipiente arrivo
e conosciuto nella sua futura età, totale, senza diametro,
nella sua corrente genitale più prossima,
senz’alveo, in opprimente solitudine.
 
Vieni,
ti proverò con allegria.
 
Tu sognerai con me questa notte
e la nostra bocca annoderà aromi caduti.
 
Ti popolerò di allodole e settimane
eternamente oscure e nude.
 
 
In lingua originale:
 
POEMA PRIMERO - Posesión en el sueño -

Ven
Amado

Te probaré con alegría.
Te soñaré conmigo esta noche.

Tu cuerpo acabará
donde comience para mí
la hora de tu fertilidad y tu agonía;
y porque somos llenos de congoja
mi amor por ti ha nacido con tu pecho,
es que te amo en principio por tu boca.

Ven
Comeremos en el sitio de mi alma.

Antes que yo se te abrirá mi cuerpo
como mar despeñado y lleno
hasta el crepúsculo de peces.
Porque tú eres bello,
hermano mío,
eterno mío dulcísimo.

Tu cintura en que el día parpadea
llenando con su olor todas las cosas,
tu decisión de amar,
de súbito,
desembocando inesperado a mi alma,
tu amor matinal
en que descansa el borde del mundo
y se dilata.

Ven
Te probaré con alegría.

Manojo de lámparas será a mis pies tu voz.

Hablaremos de tu cuerpo
con alegría purísima,
como niños desvelados a cuyo salto
fue descubierto apenas otro niño,
y desnudado su incipiente arribo,
y conocido en su futura edad, total , sin diámetro,
en su corriente genital más próxima,
sin cauce, en apretada soledad.

Ven
Te probaré con alegría.

Tú soñarás conmigo esta noche,
y anudarás aromas caídos nuestras bocas.

Te poblaré de alondras y semanas
eternamente oscuras y desnudas.
 
 
 
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LAUREANO ALBÁN è nato a Turrialba, in Costa Rica, nel 1942. Ha studiato Filologia e Linguistica all’Università di San José e si è laureato a New York. Nella sua prolifica ed unica carriera è stato fondatore di importanti associazioni di scrittori, come il Círculo de Poetas Costarricenses (1960) e il Movimiento Literario Trascendentalista (1973). Professore di Teoria e Pratica della Creazione Letteraria all’Università di Costa Rica (1990-1998) e Membro Permanente della Academia de la Lengua Española, ha svolto diversi incarichi diplomatici per il suo paese: Ministro Consigliere all’ambasciata di Madrid (1981-1983), ambasciatore presso le Nazioni Unite a New York (1983-1986), ambasciatore Plenipotenziario in Israele (1987-1990), ambasciatore presso l’UNESCO a Parigi (1998-2002). E’ coautore del “Manifiesto trascendentalista” (1974). Con i suoi libri ha ottenuto riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il premio Adonais (Madrid, 1979), il premio Nazionale di Poesia (1980 e 1993), il Premio di Cultura Ispanica (Madrid, 1981), il premio Ispanoamericano di Letteratura (Huelva, Spagna, 1982), il premio della VII biennale di Poesia (León, 1983). Nel 2006 ha ottenuto il premio Nazionale di Cultura Magón, il maggiore riconoscimento dato dal governo del Costa Rica per una vita dedicata alla cultura. I suoi libri più importanti sono Herencia del otoño (1980), Geografia invisible de america (1982), Aunque es de noche (1983), Autorretrato y transfiguraciones (1983), El viaje interminable (1983), Suma de claridades (1992) e la vasta Enciclopedia de maravillas, in edizione bilingue inglese e spagnolo, iniziata più di vent’anni fa e composta da 4 volumi con più di 2000 poesie illustrate da oltre trecento pittori latinoamericani.
“Crediamo definitivamente che la poesia, lungo il tempo, non abbia fatto altro che nascere, che tuttavia stia nascendo ed ancora non abbia compiuto la luminosa funzione che avrà nella futura evoluzione dell’uomo” (dal Manifiesto Trascendentalista, 1974). Quando penso a Laureano Albán sempre mi sovviene la sua figura di poeta controcorrente, di inesauribile trascendentale che da oltre trent’anni colma le sue pagine di trasparenza, di immagini ineffabili sorte dagli elementi terrestri, in un’epoca in cui la poesia ha cercato di spogliarsi di figurazioni e avvicinarsi al linguaggio quotidiano, quasi disgregandosi in esso. . L’intenzione della sua poesia fondamentalmente non è cambiata nel corso degli anni, la sua musa rimane l’immaginazione poetica, la facoltà poetica stessa, una forma di comunicazione non mediata in cui la potenza e l’atto poetico si considerano indistinguibili. “La poesia non ha altra motivazione che se stessa; né intelligenza, né ragione la assistono. Inerme è il suo immutabile splendore di stella unica”. Albán condivide alcuni aspetti del romanticismo, ma trasfigura ed eleva la problematica romantica in un contesto linguistico più alto, spogliandola del pedante classicismo. Per Albán la metafora è secondaria, prevalgono metonimia e ossimoro; la superficie dei suoi versi si colma di antinomie, il vivere è conflagrazione, svanire è la missione della nostra vita. La sua poesia si può definire metafisica della presenza, quasi una struttura d’orme che restituiscono sia l’esistenza che l’assenza, dove la parola e il suo destino si succedono. L’onirismo presente nella sua opera è una forma di memoria ancestrale, storica e personale, che si riappropria delle cose quando già sono pura mancanza, una restaurazione della facoltà immaginativa della poesia mediante il modo intenzionale del sogno; attraverso la precarietà del vivere le cose si trovano sempre nel nucleo ardente della loro stessa fine dove, bruciando, si redimono nella propria distruzione. Il mondo reale solo ottiene la pienezza nell’assenza, sull’abisso indifferente dell’omogeneo nulla. “Vivere è estinguersi, caricare il corpo verso la sua solitudine”; la trasparenza è ciò che sempre resta dopo qualunque distruzione. Forse è proprio questa la potenza della poesia di Albán, “sombra y asombro entrelazados”, ombra e stupore indissolubilmente intrecciati.
 
 
 
GLI INFIMI CREPUSCOLI
A Conchita e Rafael Morales
 
Amo le cose che consumate brillano
come se i crepuscoli fossero
fermi in esse ardendo per sempre.
 
I bordi delle sedie raffinati
dalla devozione chiara delle dita.
I bicchieri trasparenti per servire
sorgenti distanti.
I selciati sottomessi alle ombre.
Le vesti sfilate dall’aria.
 
Amo la loro affaticata servitù
di diamante appagato,
la sommessa passione dei loro silenzi.
 
Amo la loro anima d’autunno che fu alta
e condivise gli occhi del miracolo.
Il loro modo di darci l’oblio,
senza pianto né violenza,
come una saggia prossimità che splende,
come la mano dell’amore senza nessuno.
 
Amo i libri vecchi
manipolati dalla luce,
i ciottoli che stanno nella mano
dove ardono paesaggi lontanissimi.
 
Perchè va verso l’addio la loro lenta musica,
si abbracciano all’ombra senza gemere,
silenziose come il fuoco scordato delle lampade
che restano sole nel giungere all’alba.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di luglio 2009 di Sagarana)
 
In lingua originale
 
Amo las cosas que gastadas brillan
como si los crepúsculos se hubieran
quedado en ellas para siempre ardiendo.
 
Los bordes de las sillas afinados
por la devoción clara de los dedos.
Los vasos transparentes de servir
manantiales distantes.
Los pisos sometidos a las sombras.
Los trajes deshilados por el aire.
 
Amo su fatigada servidumbre
de diamante apagado,
la sumisa pasión de sus silencios.
 
Amo su alma de otoño que fue alta
y compartió los ojos del milagro.
Su manera de darnos el olvido
sin llanto ni violencia,
como una sabia cercanía brillando
como la mano del amor sin nadie.
 
Amo los libros viejos
manoseados por la luz,
los guijarros que caben en la mano
donde brillan paisajes lejanísimos.
 
Porque va hacia el adiós su lenta música
se abrazan a la sombra sin gemir
callando como el fuego olvidado de las lámparas
que quedan solas al llegar al alba.
 
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INVOCAZIONE DOLENTE
 
Il dolore è sempre
maggiore dell’uomo,
e ciò nonostante deve
entrargli nel cuore.
(Vladimir Holan)
 
Padre, come mi sta mancando
la tua forma di cadere,
la tua parcella di paura,
e questa ragione senza tregua d’essere villaggio
che sale dai tuoi occhi alla notte.
 
Come sanno d’erba deposta
il tuo nome senza città,
le reti screpolate delle tue mani.
 
Io, in solitario, ti dichiaro eroe,
ti nomino capitano delle dolcezze
smarrite e dolenti della terra,
ti abbraccio con la fretta dell’assenza,
e chiedo il tuo dolore, la tua piaga, il cieco
dono d’essere uomo rotto che mi manca.
 
Ho bisogno di cadere come cadesti
nella lenta atmosfera senza canti.
Ruotare sopra la terra
sotto i colpi continui
di cui nessuno conosce l’artefice.
E tacere, tacere
sotto la certezza della furia.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel volume “Gli infimi crepuscoli” di Laureano Albán, 2010 Edizioni Via del Vento, a cura di Tomaso Pieragnolo)

In lingua originale
 
INVOCACIÓN DOLIENTE
 
El dolor siempre es
mayor que el hombre,
y sin embargo tiene
que caberle en el corazón.
(Vladimir Holan)
 
Padre, cómo me está faltando
tu forma de caer,
tu parcela de miedo,
y esa razón sin tregua de ser pueblo
que sube de tus ojos a la noche.
 
Cómo saben a yerba destronada
tu nombre sin ciudades,
las redes agrietadas de tus manos.
 
Yo, en solitario, te declaro héroe,
te nombro capitán de las ternuras
perdidas y dolientes de la tierra,
te abrazo con la prisa de la ausencia,
y pido tu dolor, tu llaga, el ciego
don de ser hombre roto que me falta.
 
Necesito caer como caíste
entre la lenta atmósfera sin cantos.
Rodar sobre la tierra
bajo golpes continuos
que nadie sabe quién los da.
Y callarme, callar
bajo la certidumbre de la furia.
 
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PERSISTENZA DELL’ACQUA
 
Dalla sua architettura commossa
si alza l’abisso
tracciando innumerabili solitudini.
 
E’ un furore. Sentitela.
La sua placidità
è solo un artificio
della fugacità.
 
L’acqua impera e lega
con il suo cristallino fervore.
Abitazione totale. Certezza prossima
che inonda il cuore o la parola.
 
Non c’è scappatoia dal suo stupore,
né sogno in cui non irrompa. Nessuno
può evitare il suo freddo incommutabile.
Sola, impulsa
con gesto irriflessivo
la vita verso il caso
e la scioglie.
E’ una soglia di diafani intenti
dove tutto ritorna
alla prima levità:
le braci baciate, le aurore
lanciate a morire sulla sua ombra,
le pulsazioni aggredite, sangue a sangue,
fino a mutarle nell’oscurità.
 
E l’uomo,
povero luogo che si brucia
nelle sue lente fiamme corporali,
nonostante la luce che disabita,
trasparente come il tempo
cede ormai la sua brama e la presenza,
nel flusso e riflusso ingovernabili
della totalità dell’acqua insonne,
come un dio che cambia
il suo regno per la morta trasparenza.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel volume “Gli infimi crepuscoli” di Laureano Albán, 2010 Edizioni Via del Vento, a cura di Tomaso Pieragnolo)

In lingua originale:
 
PERSISTENCIA DEL AGUA
 
Desde su arquitectura conmovida
se levanta el abismo
trazando innumerables soledades.
 
Es un furor. Sentidla.
Su placidez
es sólo un artificio
de la fugacidad.
 
El agua impera y ata
con su cristalino fervor.
Habitación total. Certeza próxima
que inunda el corazón o la palabra.
 
No hay escapatoria de su asombro,
ni sueño en que no irrumpa. Nadie
puede evitar su frío inconmutable.
Sola, impulsa
con gesto irreflexivo
la vida hacia el azar
y la deshace.
Es un umbral de diáfanos designios
donde todo regresa
a la primera levedad:
los rescoldos besados, las auroras
lanzadas a morir sobre su sombra,
los pulsos agredidos, sangre a sangre,
hasta trocarlos en la oscuridad.
 
Y el hombre,
pobre sitio que se quema
entre sus lentas llamas corporales,
a pesar de la luz que deshabita,
hialino como el tiempo
cede ya su deseo y su presencia,
entre el flujo y reflujo ingobernables
de la totalidad del agua insomne,
como un dios que cambiara
su reino por la muerta transparencia.
 
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LE LINGUE INVISIBILI             
Omaggio a M. Hernandez
 
Tacete, qui qualcuno ha taciuto.
Restano parole sotterrate. Ululano
con il loro fino collo di cristallo.
Ammutoliscono vinte,
crepuscolo a crepuscolo,
senza un labbro nel sangue
dove salire alla lingua.
 
Sono minuti rombi,
minute campane,
vocali rinchiuse in totali segreti,
consonanti rotte come rami d’oblio.
 
Nemmeno ci sono parole, né rumore:
solo un’eco che si dibatte sola,
dove cresce il ponente,
dove passa l’erba con ondate illimiti
ed esplode l’artificio
di un’altra parola e un’altra,
e un gesto ridente
e un altro come di fuga o pianto.
 
Nemmeno il fragore della quiete.
Solamente, dopo la persecuzione
costante della musica,
gli uccelli e il vento;
in cui precipita la chiarità,
in cui termina esaurita
la verità del silenzio:
nemmeno c’è il silenzio
dove qualcuno ha taciuto.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel volume “Gli infimi crepuscoli” di Laureano Albán, 2010 Edizioni Via del Vento, a cura di Tomaso Pieragnolo)


 
In lingua originale:
 
LAS LENGUAS INVISIBLES
Homenaje a Miguel Hernández
 
Callad, aquí ha callado alguien.
Quedan palabras soterradas. Aúllan
con su delgado cuello de cristal.
Enmudecen vencidas,
crepúsculo a crepúsculo,
sin un labio en la sangre
donde subir al habla.
 
Son diminutos rumbos,
diminutas campanas,
vocales encerradas en secretos totales,
consonantes quebradas como ramas de olvido.
 
Ni siquiera hay palabras, ni rumor:
sólo un eco che se debate solo,
donde crece el poniente,
donde pasa la hierba en oleadas ilímites,
y estalla el artificio
de otra palabra y otra,
y un gesto riente
y otro como de fuga o llanto.
 
Ni siquiera el fragor de la quietud.
Solamente, tras la persecución
constante de la música,
los pájaros y el viento;
en donde se despeña la claridad,
en donde agotada termina
la verdad del silencio:
ni siquiera hay silencio
donde ha callado alguien.
 
 
 
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ALFONSO CHASE è nato in Costa Rica nel 1945. Poeta, saggista e critico, è noto anche per le novelle e i racconti, ambientati solitamente nelle piccole città e scritti con linguaggio semplice e quotidiano, e per i libri per bambini e ragazzi, che hanno incontrato ampio consenso tra gli educatori e le famiglie. Dal 1965 inizia il suo percorso poetico sotto l’influenza dell’avanguardia spagnola e della letteratura beatnik degli Stati Uniti, contribuendo a introdurre in Costa Rica la poesia colloquiale degli anni sessanta con l’appoggio di autori come Eunice Odio, Pablo Antonio Quadra, Carlos Martinez Rivas. La sua poesia ha avuto nel tempo cambiamenti sostanziali, dibattendosi tra il simbolismo ermetico degli inizi e una poesia più diretta e realista, sempre comunque sospesa tra ironia e dramma, imbrigliata nella trama di una percettibilità che non può rinunciare all’influenza congiunta dei due corpi poetici, quello spirituale e quello terrestre.
Forse proprio queste due opposte forze di formazione, diverse tra loro e antagoniste per lo meno negli intenti, hanno costituito le basi della materia di Chase, capace di produrre testi forti ed espliciti diretti contro il muro della corruzione, dell’immobilismo e dell’ingiustizia sociale, e testi altrettanto intensi sul sentire umano, personale e collettivo, anelante all’infinito nella sua tensione ultraterrena e nello stesso tempo alla ricerca di un luogo visibile umanamente proficuo e imparziale; come dice lo stesso poeta di “uno spazio libero per la donna e per l’uomo, vicino alle mani e al fuoco delle labbra”. Forse proprio in questa dimensione di ricerca dell'equità, la poesia che per Chase “è l'anima dei giusti” può contenere come una goccia di sangue “il limite di tutto l'universo” e, cosa ancora più importante, mostrare agli uomini il proprio confine troppo spesso travalicato dagli eccessi.
 
UNA GOCCIA DI SANGUE
 
Una goccia di sangue, oggi,
può contenere
il limite di tutto l'universo.
Uno schiaffo, nel suo rumore metallico,
non potrebbe mai domare il dolce abisso di alcuni occhi
e il colpo, magistrale sopra i timpani,
non ci priva di udire il suono
di questi cavalli, che percorrono sicuri il deserto
sopra i propri elmi sereni.
La pioggia anelata e impossibile,
dilata qualsiasi cella,
creata per contenerci.

Una lacrima espulsa,
verso il dentro del pianto,
è più poderosa delle bombe che cadono
sopra città inerti.

La speranza è definita nei corpi
saltando in mille atomi vendicatori,
in questo essere nella morte
che è uguale ad Essere per la resurrezione.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di gennaio 2009 di Sagarana)

In lingua originale
 
UNA GOTA DE SANGRE
 
Una gota de sangre, hoy,
puede contener
el límite de todo el universo.
Una bofetada, en su rumor metálico,
no podría nunca domar el dulce abismo de unos ojos
y el golpe, magistral sobre los tímpanos,
no nos priva de oír el sonido
de esos caballos, recorriendo firmes el desierto
sobre sus cascos serenos.

La lluvia, anhelada e imposible,
dilata cualquier celda,
creada para contenernos.

Una lágrima expulsada,
hacia el adentro del llanto,
es más poderosa que las bombas cayendo
sobre ciudades inertes.

La esperanza está definida en los cuerpos
saltando en miles de átomos vengadores,
en ese ser en la muerte
que es igual a Ser para la resurrección.
 
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PARLO DI CIÒ CHE NON SI DICE (inedito in Italia)
 
Sempre fui il danzatore di marimba, il pugile,
il burattinaio, il mendicante.
Non seppi mai la linea perfetta
tra la ragione e il dubbio. Commisi peccati
nella solitudine del mio sangue. Crimini
contro l’ombra, grida sopra l’aria.
Sempre fui l’equilibrista
fino a che caddi di schiena contro il suolo.
Non potei giungere per tempo allo spettacolo.
Mi cessarono. Da allora scrivo con parole
sozze, contaminate di cantina, di ombre,
di albe abbandonate nel cardine
di qualche chiesa solitaria. Sempre fui
ciò che mi toccava essere: l’equilibrista
che trema di fronte alla corda, il domatore
dentro le fauci. Fui a scuola
e non appresi nulla, se non
il colore delle montagne, il nome esatto
di quei fiumi che non vedrò mai. La festa finì.
E continuo a colpire la pentola, gli occhi bendati,
incoraggiato solo dallo spasso di alcuni amici imprevisti.
 
In lingua originale
 
HABLO DE LO QUE NO SE DICE

Siempre fui el marimbero, el boxeador,                     
el titiritero, el mendigo.                                 
Nunca supe la línea perfecta                               
entre la razón y la duda. Pecados cometí                   
en la soledad de mi sangre. Crímenes                       
contra la sombra, gritos sobre el aire.                     
Siempre fui el equilibrista                                 
hasta que me di de culo contra el suelo.                   
No pude subir a tiempo al espectáculo.                     
Me cesaron. Desde entonces escribo con palabras             
sucias, contaminadas de cantina, de sombras,               
de madrugadas abandonadas en el quicio                     
de alguna iglesia solitaria. Siempre fui                   
eso que me tocaba ser: el equilibrista                     
temblando ante la cuerda, el domador                       
adentro de las fauces. Estuve en la escuela                 
y nunca aprendí nada, cuando no fuera                       
el color de las montañas, el nombre exacto                 
de esos ríos que no veré nunca. Se acabó la fiesta.         
Y sigo golpeando a la piñata, los ojos vendados,           
alentado sólo por el gozo de algunos amigos imprevistos.   
 
 
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ELEGIA (inedito in Italia)
 
Quando due che si sono amati si separano
- per sempre -
qualcosa si spezza nell’ordine interno
della notte.
Una mano chiama il guanto ormai perduto
e un alito
si posa teneramente nell’eredità
dell’albero.
Quando due si dicono addio davanti allo specchio
- senza toccarsi -
appoggiando le dita nelle ombre
la forma trattiene il tempo,
e nell’acqua
la luce acquista immagine di finestra.
Può essere che quella luce
in forma abbagliante si faccia ampia
come il mondo
e un uccello multicolore cada crollato,
ferito dalla sete
che trascorre nell’istante
di quei due che un tempo si amarono per sempre.
Quando due che si amano ancora
- si separano -
qualcosa li copre soavemente
e un linguaggio tacito nasce
nel luogo in cui quei due lasciarono
la reciproca tortura di dimenticarsi.
Qualcosa invecchia per sempre nell’aria.
Probabilmente si suicida un angelo di tristezza
nel vedere questi due sparire
- separati da passi e da baci -
inventando storie e cantando,
bagnati e oscuri di una pioggia
che riflette il rumore delle loro parole.
Quando due che si amarono si separano,
l’estate sale sulle ali della notte
e una foglia, sopra l’azzurro del cielo,
apre gli occhi e occulta il suo stupore
con uno scongiuro.
Quando due che si amano si separano
- senza rancori e spade -
un fantasma incantato riscuote la vita
e s’inclina a raccogliere
quelle due labbra,
nude per sempre di linguaggi.

In lingua originale:
 
ELEGÍA

Cuando dos que se han amado se separan             
- para siempre -                                     
algo se quiebra en el orden interno                 
de la noche.                                       
Una mano llama al guante ya perdido                 
y un hálito                                         
se posa tibiamente en la heredad                   
del árbol.                                         
Cuando dos se dicen adiós ante el espejo           
- sin tocarse -                                       
apoyando los dedos en las sombras                   
la forma detiene el tiempo,                         
y en el agua                                       
la luz adquiere imagen de ventana.                 
Puede ser que esa luz                               
en forma deslumbrante se haga ancha                 
como el mundo                                       
y un pájaro multicolor caiga desplomado,           
herido por la sed                                   
que media en el instante                           
de esos dos que alguna vez se amaron para siempre. 
Cuando dos que se aman todavía                     
- se separan -                                       
algo los cubre suavemente                           
y un lenguaje tácito se nace                       
en el sitio en que esos dos dejaron                 
la recíproca tortura de olvidarse.                 
Algo envejece para siempre sobre el aire.           
Posiblemente se suicide un ángel de tristeza       
al mirar cuando esos dos desaparecen               
- separados por pasos y por besos -                   
inventando historias y cantando,                   
mojados y oscuros de una lluvia                     
que refleja el rumor de sus palabras.               
Cuando dos que se amaron se separan,               
el verano sube sobre las alas de la noche           
y una hoja, sobre el azul del cielo,               
abre los ojos y oculta su estupor                   
con un conjuro.                                     
Cuando dos que se aman se separan                   
- sin rencores o espadas -                           
un fantasma encantado cobra vida                   
y se inclina a recoger                             
a esos dos labios,                                 
desnudos para siempre de lenguajes.       
          

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IO SCRUTO (inedito in Italia)
 
Io scruto un mondo che si leva
sul potere della propria importanza.
 
Una nuova terra ed un nuovo cielo
qui, tra noi,
e non in lontani mondi accessibili
solo dalla stoltezza telematica.
 
Io parlo con Dio ad ogni ora.
 
È come dire: parlo con me stesso senza necessità
di reti spettrali controllate dal Maligno.
 
Vivo la mia stessa apocalisse tutte le mattine
leggendo le notizie nei giornali.
 
Intravedo il marchio della Bestia nei sorrisi
e sulla fronte di bei modelli indigesti.
 
Io esigo un mondo costruito
senza cielo e senza inferno. Uno spazio
libero per l’uomo e per la donna.
 
Qui, sulla terra, vicino alla mia mano
e propizio al fuoco delle mie labbra.
Un regno corpo, mani, cervello, mente
e germe, uniti nell’abbraccio del seme
e degli ovuli. Il regno della carne per la carne.
 
Un regno neurone per l’intelligenza.
 
Uno spazio di luce, radicale e glorioso,
sopra l’oscurità di questi giorni nefasti.
 
In lingua originale:
 
YO AVIZORO

Yo avizoro un mundo alzándose                     
sobre el poder de su propia importancia.           
                                                   
Una nueva tierra y un nuevo cielo                 
aquí, entre nosotros,                             
y no en lejanos mundos accesibles                 
sólo por la necedad telemática.                   
                                                   
Yo hablo con Dios a toda hora.                   
                                                   
Es decir: hablo conmigo mismo sin necesidad       
de redes espectrales controladas por el Maligno.   
                                                   
Vivo mi propio Apocalipsis todas las mañanas       
al leer las noticias en los diarios.               
                                                   
Entreveo la marca de la Bestia en las sonrisas     
y sobre la frente de bellos modelos indigestos.   
                                                   
Yo exijo un mundo construido                       
sin cielo y sin infierno. Un espacio               
libre para la mujer y para el hombre.             
                                                   
Aquí, en la tierra, cercano de mi mano             
y propicio al fuego de mis labios.                 
Un reino cuerpo, manos, cerebro, mente             
y germen, unidos en el abrazo de los semenes
y los óvulos. El reino de la carne para la carne. 
                                                   
Un reino neurona para la inteligencia.             
                                                   
Un espacio de luz, radical y glorioso,             
por sobre la oscuridad de estos días nefastos.     

 
 
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JULIETA DOBLES è nata a San José in Costa Rica, l'11 marzo del 1943. Si è laureata in Filologia Spagnola, con specializzazione in Letteratura Ispanoamericana, all'Università di New York, Campus di Stony Brook (1986) e in Scienze Biologiche all'Università di Costa Rica (1965), dove attualmente insegna Letteratura nella Scuola di Studi Generali. E' membro della Associazione Casa de Poesía. Fu coordinatrice del Laboratorio Letterario "Círculo de Poetas Costarricenses" (1967-1978) con figure di spicco come Laureano Alban, che fu suo marito per 37 anni, e Ronald Bonilla. E' stata professoressa di scienze e biologia nella scuola secondaria (1964-1978), e professoressa di Letteratura, Comunicazione e Linguaggio nella Scuola di Studi Generali dell'Università di Costa Rica (1990-1998). Rappresentante diplomatica del Costa Rica a Madrid e Gerusalemme e presso l'ONU e l'UNESCO. Ha publicato tredici libri di poesia, tra i quali: Reloj de siempre (1965); El peso vivo (1968); Los pasos terrestres (1976); Hora de lejanías (1979); Los delitos de Pandora (1987); Una viajera demasiado azul (1990), Costa Rica poema a poema (1997); Poemas para arrepentidos (2003) y Amar en Jerusalem; Hojas Furtivas (2005). E' stata inclusa in diverse antologie di poesia centroamericana e costaricense, tra le quali, la Antología Crítica de la Poesía de Costa Rica, di Carlos Francisco Monje, 1992. Tra i molti premi ottenuti figurano: Premio Nacional Aquileo J. Echeverría, El peso vivo (San José, 1968); Premio Editorial Costa Rica Los pasos terrestres. (San José, 1976); Premio Nacional Aquileo J. Echeverría, Los pasos terrestres (San José, 1977); Rosa Finale del Premio Adonais Hora de lejanías (Madrid, 1981); Premio Nacional Aquileo J. Echeverría, Amar en Jerusalén (San José, 1992); Premio Nacional Aquileo J. Echeverría, Costa Rica poema a poema (San José, 1997), Premio Nacional Aquileo J. Echeverría, Poemas para arrepentidos, (San José, 2003). La sua poesia si è sempre distinta per la visione realista e quotidiana, per lo stile colloquiale complice e fluido che accompagna i suoi versi, privi di ermetismi ed eccessive introspezioni, colmi di umanità ed amore per la vita nei suoi molteplici percorsi.
 
 
FUGA DI MORTE
A proposito di un video sulle vittime indigene
di Alteal, Chiapas, filmato in dicembre del 1997.
 
Ma, dove vanno?
Percorrendo monti alieni di solitudine,
caricando peso a peso il proprio abbandono,
attraverso gli ostili deserti in cui la morte annida,
il passo molto piccolo e lo sguardo allungato
per tutte le fatiche e il freddo di questo mondo,
dove vanno?
Dove il loro riparo, il loro mais, il loro canto?
La mano fraterna che li restituisce
alla roccia materna, anteriore alla ferita?
Apolidi perenni,
quando terminerà il loro errare di secoli
attraverso le terre dove i loro nonni
fecero déi il colibrì e il puma,
perpetuarono l'aquila
nei suoi cieli di fango policromo
e colmarono di rane
gli specchi dell'acqua e della pietra?
Oppressi sotto il peso della fame,
partorendo nella pioggia,
singhiozzando per le case distrutte
e il grido agonico
dei loro morti recenti
che li perseguitano come un cattivo sogno.
Trascinando i propri figli
fuori dall'uragano e dalla febbre,
sotto il riparo triste di una foglia annegata,
dove vanno?
Indietro lasciarono tutto:
i güipiles fioriti di rosso
grazie ad abili mani
rimasero nel fango dell'odio.
La pietra per la molitura, spezzata,
non tornerà a cantare sopra il mais prezioso.
E della casa, solo
uno sciame di latta e ossidi
sostiene la memoria.
Si nascondono dall'esercito,
dalla sua maschera violacea e dissanguata.
Si nascondono dalla mano del vicino,
inaspettatamente crudele.
E fuggono, fuggono perchè la lontananza
è la dubbiosa porta verso la vita,
dove non giunge il tradimento,
né la tortura cova le sue dolorose larve,
né le domande portano il timore e il sangue.
Ma, per Dio, dove vanno
sotto la pioggia cieca
e la notte ancor più cieca
dell'uomo?
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di luglio 2009 di Sagarana)
 
In lingua originale:
 
FUGA DE MUERTE
A propósito de un video sobre las víctimas indígenas
de Alteal, Chiapas, filmado en diciembre de 1997.
 
Pero, ¿a dónde van?
Atravesando ajenos montes de soledad,
cargando peso a peso su propio desamparo,
por los hostiles páramos en que la muerte anida
el paso muy pequeño y la mirada larga
por todas las fatigas y los fríos de este mundo,
¿a dónde van?
¿Dónde su albergue, su maíz, su canto?
La mano fraternal que los devuelva
la roca materna, anterior a la herida?
Apátridas perennes,
¿cuando terminará su errar de siglos
por las tierras en donde sus abuelos
hicieron dios al colibrí y al puma,
perpetuaron al águila
en sus cielos de barro policromo
y llenaron de ranas
los espejos del agua y de la piedra?
Aplastados bajo el peso del hambre,
pariendo entre la lluvia,
sollozando por sus casas derruidas,
y por el grito agónico
de sus muertos recientes
que los persigue como un mal sueño.
Arrastrando a sus hijos
fuera del vendaval y de la fiebre,
bajo el abrigo triste de una hoja anegada,
¿a dónde van?
Atrás dejaron todo:
los güipiles florecidos en rojo
por manos primorosas
quedaron en el barro de los odios.
La piedra de moler, despedazada
no volverá a cantar sobre el maíz precioso.
Y de la casa, sólo
un enjambre de latas y de óxidos
sostiene su memoria.
Se ocultan del ejército,
de su antifaz violáceo y desangrado.
Se ocultan de la mano del vecino,
inesperadamente cruel.
Y huyen, huyen, porque la lejanía
es la dudosa puerta hacia la vida,
donde no llegue la traición,
i la tortura incube sus dolorosas larvas,
ni las preguntas lleven el pavor y la sangre.
Pero, por Dios, ¿a dónde van
bajo la lluvia ciega
y la noche, aún más ciega,
del hombre?
 
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L’INVENTATO (inedito in Italia)
 
Ogni mattina, puntualmente,
con la morosa esattezza
di un’ossessione di pendoli
sul bordo del sogno,
lì dove i desideri e le paure
penzolano, si separano, gocciolano
come lente lacrime impure,
appari.
 
Sei l’inventato,
l’immagine senza specchio,
il doloroso oggetto dei miei sogni
e approfitti del mio sopore
per colarti, clandestino,
fino a dove non ti permetto nelle mie veglie.
 
Sei l’inventato,
la mia creatura tenace,
quella che andai armando lentamente
durante tanti anni,
rammendando, amorosa,
ad ogni colpo della realtà.
 
In lingua originale:
 
EL INVENTADO
 
Cada mañana, puntualmente,
con la morosa exactitud
de una obsesión de péndulos
en el borde del sueño,
allí donde los deseos y los temores
cuelgan, se desprenden, gotean
como lentas lágrimas impuras,
apareces.
 
Eres el inventado,
la imagen sin espejo,
el doloroso objecto de mis sueños
y aprovechas mi sopor
para colarte, clandestino,
hasta donde no te permito en mi vigilias.
 
Eres el inventado,
mi criatura tenaz,
la que fui armando despacito
durante tanto años,
remendando, amorosa,
a cada golpe de realidad.
 
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da LA CASA DELL’OBLIO (inedito in Italia)
 
Percorsi la grande casa della mia prima infanzia.
Permane incorrotta come bolla
di tempi sostenuti.
Mantiene i suoi silenzi di legno assopito
nell’occhio marrone del vortice
della città confusa, rumorosa, tormentata.
 
Dal suo marciapiede si ravvisa, lontano,
trascinando negli occhi l’orizzonte sud,
un tratto di montagna che somigliava, bordo
di un cuore antico, alla mia infanzia di immagini.
Ancora è azzurro, come lo sono le nitide
ed elevate, incandescenti montagne della mia terra
nello loro complicità di lontananze e cieli,
però appiattito e diviso,
non so ancora da quale mano di erosione e martirio.
 
Sopra i muri di quel meschino patio urbano
pareti dipinte di canne e fango si disfano lente,
le stesse che frugavo golosa, di nascosto.
E la luce chiama ancora dalla vecchia fessura
tra il pavimento di cera e mogani
e il bordo della porta, rosicchiata ed umile
come un albero antico,
fessura che fu a volte
magnifica finestra dei miei sogni
di bimba di città prigioniera nelle ombre,
di fronte alle sere impossibili.
Quelle stordite d’azzurro nelle estati,
o inondate di mari
nelle fauci furiose dell’inverno,
di acquazzoni che zittiscono qualunque voce
nel rauco tamburo del tetto.
 
In lingua originale:
 
LA CASA DEL OLVIDO
 
Recorrí la casona de mi primera infancia.
Permanece incorrupta cual burbuja
de tiempos sostenidos.
Mantiene sus silencios de madera dormida
en el ojo marrón del remolino
de la ciudad confusa, ruidosa, atormentada.
 
Desde su acera se divisa, lejos,
arrastrando en los ojos el horizonte sur,
un trozo de montaña que semejaba, borde
de un corazón de antaño, a mi infancia de imágenes.
Aún es azul, como lo son las nítidas
y elevadas, candente montañas de mi tierra
en sus complicidades de lajanías y cielos,
pero chato y partido,
no sé aún por qué mano de erosión y martirio.
 
Sobre los muros de aquel mezquino patio urbano
bajareques pintados se desmoronan lentos,
los mismos que yo hurgaba golosa, a hurtadillas.
Y la luz llama aún por la vieja rendija
entre el piso de cera y caobas
y el borde de la puerta, carcomida y humilde
como un árbol antiguo,
rendija que fue a veces
magnífica ventana de mis sueños
de niña de ciudad prisionera en las sombras,
frente a las tardes imposibles.
Aquellas aturdidas de azul en los veranos,
o inundadas de mares
en las fauces furiosas del invierno,
de aguaceros que acallan cualquier voz
en el ronco tambor de la techumbre.
 
 
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da LA CASA DEI MIRACOLI (inedito in Italia)
 
Ai miei genitori, Jorge Dobles e Angela Yzaguirre,
questo intento di restituirgli qualcosa della loro opera d’amore.
Alle mie sorelle, Cecilia, Vera, Georgina e Ileana,
le “cinque colombe libere”.
 
Avere nove anni,
tutta la sete del mondo negli occhi
e giungere alla casa nuova,
quella che vedemmo sorgere
da fosse aperte come fauci
dell’umidità terrestre.
Quella che andò ergendosi e crebbe
mattone su mattone,
in un garbuglio di malta e cemento
paralleli all’aroma plenario
di legno piallato alla vigilia,
tra gioioso effluvio di pitture,
ed echi di abitazioni vuote, come prati,
dove la luce irrompeva senza avviso,
e installava il suo trono di mattine totali.
 
Casa della mia seconda infanzia
e della mia adolescenza di vetta e campanile.
Un San Pedro remoto di puledri
dove la casa era l’ultima finestra
del villaggio tranquillo e polveroso.
A volte, laggiù,
biancheggiava il campanile di Zapote,
se il vento scarmigliava
la cortina verde oro degli alberi,
all’addentrarsi nel sussurro fresco
degli ombrosi cafetales del sud.
 
E noi, le bimbe di città,
cinque colombe libere, svolazzando, lente,
nei cieli assoluti di marzo,
ubriacate di libertà e di estate,
di brezze azzurrine e di estate,
di veraneras lilla e di estate.
 
In lingua originale:
 
LA CASA DE LOS MILAGROS
 
A mis padres, Jorge Dobles y Angela Yzaguirre,
este intento de devolverles en poesía algo de su obra de amor.
A mis hermanas, Cecilia, Vera, Georgina e Ileana,
las “cinco palomas sueltas”.
 
Tener nueve años,
toda la sed del mundo entre los ojos
y llegar a la casa nueva,
la que vimos alzarse
desde zanjas abiertas como fauces
de la humedad terrestre.
La que fue irguiéndose y creciendo
ladrillo por ladrillo,
en un lío de argamasa y cemento
paralelos al aroma plenario
de maderas cepilladas en la víspera,
entre gozoso vaho de pinturas,
y ecos de habitaciones vacías, como prados,
donde la luz irrumpía sin aviso,
e instalaba su trono de mañanas totales.
 
Casa de mi segunda infancia
y de mi adolescencia de cima y campanario.
Un San Pedro remoto de potrero
donde la casa era la última ventana
del pueblo sosegado y polvoriento.
A veces, allá abajo,
blanqueaba el campanario de Zapote,
si el viento despeinaba
la cortina verdeoro de los árboles,
al adentrarse en el susurro fresco
de los umbríos cafetales del sur.
 
Y nosotras, las niñas de ciudad,
cinco palomas sueltas, revoloteando, torpes,
en los cielos absolutos de marzo,
embriagadas de libertad y verano,
de brisas azulinas y verano,
de veraneras lila y verano.
 
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da LA CASA SENTENZIATA (inedito in Italia)
 
Voglio l’aria di quella casa,
quella che mi si accosta senza fretta nella memoria
e nel bananeto segreto,
scarmigliato appena dalle ombre,
dove nessuna foglia turba i suoi verdi.
Quasi irreale, come un profumo
di colori rotondi e silenziosi.
 
La casa della nebbia e del legno
illuminata da vecchie lampade ad olio
che mai conoscemmo.
Quella delle finestre addolorate
e delle povertà più sottili ancora.
Quella dei soffitti alti,
impalcature di qualche sogno sciolto,
dove l’aria discorre a suo piacere del passato.
 
Quella odorosa di umidità e di cedri perseguiti,
di pavimenti prima rossi e di cedro angosciato,
di fessure occulte che solo il vento conosce
e di cedri vittoriosi nella loro ferita totale.
 
Voglio le brezze di quella casa,
la sentenziata allora
con il suo spossato palpitare di tempi
e il suo patio di meraviglie
e il suo solenne acquaio, altare di pietra
colmo d’acque rotte,
specchi mansueti però mai quieti
in cui affondare le nostre pene
sotto l’aroma irreale del limoneto.
 
In lingua originale:
 
LA CASA SENTENCIADA
 
Yo quiero el aire de la casa aquella,
la que se me arrecuesta sin prisa en la memoria
y en el bananal sigiloso,
despeinado apenas por las sombras,
donde ninguna hojas estremece sus verdes.
Casi irreal, como un oléo
de colores rotundos y silentes.
 
La casa de la niebla y la madera
iluminada por viejas lámparas de aceite
que nunca conocimos.
La de la ventanas adoloridas
y las pobrezas más sutiles aún.
La de los cielos altos,
andamios de algun sueño desatado,
donde el aire discurre a su placer de antaño.
 
La olorosa a humedades y a cedros perseguidos,
a pisos antes rojos y a cedros agobiados,
a rendijas ocultas que sólo el viento sabe
y a cedros victoriosos en su herida total.
 
Quiero los aires de la casa aquella,
la sentenciada entonces
con su cansino palpitar de tiempos
y su patio de asombros
y su solemne pila, altar de piedra
lleno de aguas quebradas,
espejos mansos pero nunca quietos
donde hundir nuestras penas,
bajo el aroma irreal del limonero.
 
 
 
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CARMEN NARANJO è nata a Cartago, in Costa Rica, nel 1928. Si è laureata in Filologia all'Università del suo paese, ed ha compiuto specializzazioni all'Università Autonoma del Messico e all'Università di Iowa City. Tra gli incarichi rilevanti che ha occupato, la ricordiamo ambasciatrice in Israele, Ministro della Cultura, Vicepresidente dell'Associazione Mondiale di Scrittori e Giornalisti, rappresentante dell'UNICEF in Messico, Direttrice del Museo d'Arte Costaricense e della Casa Editrice Centroamericana EDUCA. Ha ricevuto innumerevoli premi per la sua opera letteraria e la sua traiettoria culturale: nel 1966 e 1971 il premio nazionale Aquileo Echeverría, nel 1977 il premio Orden Alfonso X El Sabio dal Governo di Spagna e il premio Orden Simón Bolívar dal Governo del Venezuela, nel 1986 il premio Magón di Cultura dal Governo del Costa Rica, nel 1996 Medalla Gabriela Mistral dal Governo del Chile e nel 2006 Laurea Honoris Causa dall'Università del Costa Rica. Ha una vasta opera in prosa e poesia con più di trenta libri pubblicati. Carmen Naranjo è senza dubbio una delle voci più chiare e importanti dell'America ispanica. Coronel Urtecho disse che la sua poesia è l'esperienza anteriore di tutti i poeti, la lontana ascendenza di Quevedo, il remoto ricordo dei canti di Maldoror, la solidarietà di tutta la poesia del mondo. E nel suo ultimo libro “Oficio de oficios” (Mestiere dei mestieri) da cui sono tratti questi testi, la poetessa conferma la sua inclinazione ad una salda moralità umana, ad una limpida passione per la cultura della vita e per il rifiuto dell'ipocrisia e dell'arroganza, un “passo nell'aria e l'altro per terra” per “vedere più in là del fallimento e dello sconforto”, in una vita in cui “dubitare è saggio e vitale”.
 
 
 
MESTIERE DI NAVIGARE
 
Sopra questo letto d'acque
così esteso profondo inaspettato
tutto ciò che è incerto naufraga
fino a diventare rifiuto
in una spiaggia aperta all'esilio.
Il mare ha un genio malevolo
soffre di furie
e i suoi capricci gridano pericolo
prendimi sul serio
sono signore padrone di ribellioni
convulsioni e guerre mondiali
posso il meglio e il peggio.
Io sopravvissuta di tante cose
di altre innumerevoli faccende di coscienza
confido nel mare e al mare mi consegno
vado al mare nel mare
perchè vivendo pienamente
mi attrae con intensità la morte.
Non navigo in verità
vado alla ventura
senza timone né vele
innamorata di pesci luminosi
di conchiglie e stelle marine
persa completamente in grotte
dense di sale iodio e alghe
in questo mondo che conoscono solo gli affogati.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di ottobre 2009 di Sagarana)
 
In lingua originale:
OFICIO DE NAVEGAR

Sobre esa cama de agua
tan extensa profunda inesperada
todo lo incierto naufraga
hasta hacerce basura
en una playa abierta al exilio.
El mar tiene mal genio
padece de arrebatos
y sus rabietas gritan peligro
tómenme en serio
soy señor dueño de rebeldías
convulsiones y guerras mundiales
puedo lo mejor y lo pejor.
Yo sobrevivientes de tantas cosas
y de otros innumerables asuntos de conciencia
confío en el mar y a la mar me entrego
me voy a la mar en el mar
porque plenamente viviendo
me atrae con intensidad la muerte.
No navego en verdad
voy a la ventura
sin timón ni vela
enamorada de peces luminosos
da caracolas y estrellas marinas
perdida por completo en grutas
densas de sal yodo y algas
en ese mundo que sólo conocen los ahogados.
 
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MESTIERE DI INCENDIARSI (inedito in Italia)
 
Non di lingue con quel fuoco che cresce
assorbe e precipita
non di caldi spazi che bruciano
bensì di vette con aria congelata
dove respirare risulta impossibile.
Così voglio incendiarmi
con lo stile di Clemente Orozco
incendiarmi in compiti di volontà e passione
in lavori con la parola
in artigianato con suoni
in occhi tristi intelligenti
in profondità di visioni.
Per questo guardo da lontano e da vicino
mi approssimo e mi allontano
mi tolgo dalle spalle equipaggi
mi colmo d’amore
e mi nascondo.
Incendiarsi sembra crudele
perché ciò che brucia duole
ma è necessario ed essenziale
per credere di vivere.
Quelli che fuggono dal fuoco
fuggono dall’aria dalla luce
e dalla terra con il suo manto verdino
dove la pioggia spegne ciò che arde.
 
In lingua originale:
 
OFICIO DE INCENDIARSE
 
No de lengua con ese fuego que crece
absorbe y derrumba
no de calientes espacios que queman
sino de cumbre con aire congelado
donde respirar resulta imposible.
Así quiero incendiarme
al estilo de Clemente Orozco
incendiarme en tareas de voluntad y pasión
en trabajos con la palabra
en artesanías con sonidos
en ojos tristes inteligentes
en profundidades de visiones.
Por eso miro de lejos y de cerca
me aproximo y me distancio
me quito de encima equipajes
me lleno de amor
y me escondo.
Incendiarse parece cruel
porque lo que quema duele
pero es necesario y esencial
para creer que se vive.
Los que huyen del fuego
huyen del aire de la luz
y de la tierra con su manto verdoso
donde lo que arde la lluvia lo apaga.
 
 
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MESTIERE DI SVEGLIARSI (inedito in Italia)
 
Sempre mi sveglio tardi molto tardi
con una enorme pigrizia
di fare la stessa cosa una volta e un’altra.
Lenta mi sveglio
con fonda rabbia
di scordare il sogno
e raccogliere pezzi
di qualcuno che qualcun altro
chiama con nome lontano.
Mi sveglio fragile
propensa al pianto
magnificando insignificanze
per crescere in diminuzioni
sul desiderio di gattonare.
Oscura mi sveglio
con la mente stanca
con paura in mano e nello sguardo
con un desiderio infinito
che giunga presto la notte
e sia una notte eterna.
Mi sveglio vuota
di parola e pensiero
seminata di silenzi e limitazioni
con la pelle asciutta fatta in briciole
e un sorriso di pietra
nel labirinto della mia storia.
Sono invecchiata senza apprendere
il mestiere di svegliarmi.
 
In lingua originale:
 
OFICIO DE AMANECER
 
Siempre amanezco tarde muy tarde
con una enorme pereza
de hacer lo mismo una y otra vez.
Torpe amanezco
con honda rabia
de olvidar el sueño
y recoger pedazos
de alguien a quien otro
llama con nombre ajeno.
Frágil amanezco
propensa al llanto
magnificando insignificancias
para crecer en disminuciones
sobre un deseo de gatear.
Oscura amanezco
con la mente cansada
con temor en manos y mirada
con un deseo infinito
de que llegue pronto la noche
y sea una noche eterna.
Vacía amanezco
de palabra y pensamiento
sembrada de silencios y limitaciones
con la piel reseca hecha boronas
y una sonrisa de piedra
en el laberinto de mi historia.
He envejecido sin aprender
el oficio de amanecer.
 
 
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MESTIERE DI COLTIVARE (inedito in Italia)
 
Nei cardini e nei battenti
non si trattiene l’umidità
a contemplare paesaggi
a condolersi per il crepuscolo
in cui naufragano le luci
né si trattiene la termite
nel suo lavoro di caverne
per la semplice ragione
di terminare il suo orario.
Esiste un lavoro costante
di fiori e sementi
che la terra raccoglie
il sole concima
e la pioggia colma di meraviglie
in cui non si ammette il riposo
né il castigo di ciò che è infruttuoso.
L’erba si espande senza contadino
l’albero cresce senza altimetri
i fiori esplodono senza giardiniere
la pennellata del verde non si trattiene
il conflitto delle liane si risolve
nel concilio degli intendimenti
senza patti o documenti o atti
perché qualunque cosa ha il suo posto
nell’abbondanza di una semina infinita.
In quella giornata di tempo immerso
nel daffare dominato dal sempre
e nel presente con futuro
si vive il prodigio di pianti allegri
e di esplosioni animate che aiutano
a distribuire il tutto tra tutti.
Senza necessità di mestiere alcuno
si coltivano la montagna e la prateria
le rive dei fiumi
le terre libere dalle mani
pianificatrici degli uomini
e le pianure asciutte di sole.
Vorrei avere quella forza
per seminarmi dentro
di speranze e dolcezze.
 
In lingua originale:
 
OFICIO DE CULTIVAR
 
En las bisagras y en las aldabas
no se detiene la humedad
a contemplar paisajes
y condolecerse por el crepúsculo
en que naufragan las luces
ni se detiene el comején
en su labor de cavernas
por la simple razón
de terminar su horario.
Existe un trabajo constante
de flores y semillas
que la tierra recoge
el sol abona
y la lluvia llena de maravillas
en que no se admite el descanso
ni el castigo de lo infructuoso.
La hierba se expande sin labrador
el árbol crece sin altímetros
las flores revientan sin jardinero
la pincelada del verde no se detiene
el conflicto de los bejucos se resuelve
en el concilio de los entendimientos
sin pactos o documentos o actas
porque cada cual tiene su sitio
en la abundancia de una siembra infinita.
En esa jornada de tiempo inmerso
en el quehacer dominado por el siempre
y el ahora con futuro
se vive el prodigio de llantos alegres
y de estallidos alentadores que ayudan
a distribuir el todo entre todos.
Sin necesidad de oficio alguno
se cultiva la montaña y la pradera
las orillas de los ríos
las tierras libres de las manos
planificadoras de los hombres
y las llanuras resecas de sol.
Quisiera tener esa fuerza
para sembrarme por dentro
de esperanzas y dulzuras.
 
 
 
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MIA FALLEGOS è nata a San Josè, in Costa Rica, nel 1953. A ventitrè anni vinse il Premio Joven creación 1976 per il suo libro “Golpe de Albas”, poi il premio Alfonsina Storni nel 1977 e il Premio Nacional Aquileo Echeverría nel 1985. Sue poesie sono state tradotte in inglese e incluse in varie antologie di poesia latinoamericana. Ha lavorato nel giornalismo per molti anni ed è stata incaricata delle relazioni pubbliche del Teatro Nacional . E’ autrice di numerose raccolte, tra le quali ricordo “Los reductos del sol” del 1985, “El claustro elegido” del 1989 e ”Los sueños y los días” del 1995. La poesia di Mia Gallegos sembra una miscellanea sapiente di onirismo e consueto, intimismo colloquiale e tensione verso l’esterno, verso la totalità del significato; nasce forse dalla faticosa ricerca del luogo comune dove un’accesa passione, pagata sempre con l’isolamento, possa infine riconoscersi nella materia quotidiana, sentita sempre più spesso come circolare ripetizione di pratiche terrene, necessarie per ancorare lo strappo dell’essere e del sentire a una stabilità abituale, per quanto provvisoria. Il pensiero si traduce frequentemente in versi frammentari, come piccole illuminazioni o reminescenze, richiama differenti livelli di percezione in un colloquio stretto con se stesso (ma non fine a se stesso), che è al contempo volontà di aderenza del personale all’universale, come un “vivere a pezzetti anelando alla totalità”. Anche il donarsi alla persona amata è uno spiraglio nella solitudine eletta, che ha comunque breve estensione, perché nel medesimo compiersi respinge l’autrice nella sua realtà infrangibile, che non è esclusivamente solitudine spirituale, ma anche fisica e intellettuale. Leggendo i versi di Mia Gallegos è come se intorno al suo pensiero si elevasse un silenzio quasi religioso, una barriera di difese innalzate perché il raccoglimento e l’anelito non siano turbati dalla disillusione costante, che comunque è riconosciuta e combattuta; dal mondo esterno giungono sempre bagliori che non sono ignorati, né trasfigurati, perché l’autrice sempre individua qual è il suo luogo e la sua predilezione, cercando di trasformare per converso gli oggetti quotidiani e cari in un approdo sicuro dove l’esistenza sia nuovamente palpito ed essenza. La sua poesia onirica e intima è un prezioso esempio della resistenza femminile a un mondo ostile e a volte incomprensibile.
 
 
 
IL CHIOSTRO ELETTO
 
Non cerco nulla.
Non attendo nessuno in questo giorno.
 
Attendere è uno dei rari
stratagemmi di Dio
per trattenerci in un punto.
 
Il mio paese:
montagna verde e pioggia.
Un cavallo si perde nella pianura
immaginata,
che ora è vietata ai miei occhi.
 
Cerco l’intensa riflessione:
quella dei libri amici,
la luce interna che mi occorre per vivere,
il lume d’oro,
l’Ecclesiaste e la pazienza di Giobbe.
 
Alla mia età e in un paese di pioggia,
il chiostro è un’elezione.
 
Lì si perdono i contorni.
La vita si diluisce in un andirivieni
dal lavoro al caffé,
dal caffé alla taverna.
 
Cerco l’infanzia che sono:
la pianura, l’ombra dell’albero gigantesco,
l’unico mare senza fondo,
il cavallo sfociato nella sua furia,
la verdezza della montagna insieme al cielo.
 
Mi piace rimanere sola
sentendo come il sangue mi nutre di nuove vestiture.
 
Da sola mi appartengo.
Non c’e dicotomia tra me e lo specchio.
Una vive e l’altra sogna.
Insieme ricordiamo un uomo.
Insieme abbiamo scritto questi versi.
 
(testo tradotto per la prima volta in Italia nel numero di Sagarana di 0tt0bre 2008)
 
In lingua originale:
 
EL CLAUSTRO ELEGIDO
 
No busco nada.
A nadie aguardo en este día.

Esperar es una de las raras
estratagemas de Dios
para detenernos en un punto.

Mi país:
montaña verde y lluvia.
Un caballo se pierde en la llanura
imaginada,
que ahora está vedada a mis ojos.

Busco la intensa reflexión:
la de los libros amigos,
la luz interna que preciso para vivir,
el candil de oro,
el Eclesiastés y la paciencia de Job.

A mi edad y en un país de lluvia,
el claustro es una elección.

Ahí se pierden los contornos.
La vida se diluye en un ir y venir
del trabajo al café,
del café a la taberna.

Busco la infancia que soy:
la llanura, la sombra del árbol gigantesco,
el único mar sin fondo,
el caballo desbocado en su furia,
el verdor de la montaña junto al cielo.

Me gusta quedarme a solas
sintiendo como la sangre me nutre de nuevas vestiduras.

A solas me pertenezco.
No hay dicotomía entre el espejo y yo.
Una vive y la otra sueña.
Juntas recordamos a un hombre.
Juntas hemos escrito estos versos.
 
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TORNO ALLA NOTTE (inedito in Italia)
 
D’improvviso torno
alla notte
con le mie scarpe d’acqua.
 
Mi spoglio
nel lento
esercizio delle mie mani
e cerco
solamente
un oggetto mio,
una piccola barca,
una cometa,
un circo di cose inventate,
figure quotidiane,
tue e mie,
che amo.
 
Ma so
che d’improvviso
mi ritrovo inaccessibile
e torno a essere silenzio
e fiamma oscura,
dove la mia barca
fugge dalla tua riva.
 
 
In lingua originale:
 
VUELVO A LA NOCHE

De pronto vuelvo
a la noche
con mis zapatos de agua.

Me desnudo
en el lento
ejercicio de mis manos
y busco
solamente
un objeto mío,
un pequeño barco,
un cometa,
un circo de inventadas cosas,
figuras cotidianas,
tuyas y mías,
que amo.

Pero sé
que de pronto
me vuelvo inaccesible
y vuelvo a ser silencio
y llama oscura,
donde mi barco
se escapa de tu orilla.
 
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COREOGRAFIA (inedito in Italia)
 
Per il mio amico Carlos Cortés
 
Infine
non ho vissuto nulla.
Non so cosa sia una guerra
ed ho come prigione il corpo
e l’anima come campo di battaglia.
 
Mi dibatto tra il dubbio
di meditare o fluire;
questo è situarsi nel palco degli spettatori,
o stare
in ogni intimo istante del miracolo.
 
Vivo di piccoli pezzi,
ma aspiro alla totalità,
come dire a Mozart e alla poesia che mi redima
e mi riveli gli spazi assoluti
e il nulla.
 
Percepisco di me
i luoghi più segreti:
la colpa,
una terza coscienza delle cose,
la dualità del pensiero,
la piccola ira
per ciò che è già accaduto.
Ma ho vissuto poco. Trent’anni.
Due amori di pelle
e una voglia di abbandonare
questa attesa che mi segnala la vita.
 
Anelo l’anarchia,
il più tenero disordine dell’amore,
la cabala,
gli orologi di sabbia ed una casa semplice.
 
Voglio avere un destino tracciato in anticipo,
incontrarmi con Dio
e gli abissi
e non avere coscienza della fiamma.
Essere la fiamma stessa e l’avventura.
 
Ma giungo da solitudini ultime,
da conversazioni che mai si conclusero,
da specchi che mi guardarono dall’infanzia fino ad ora,
da armadi di mogano abbandonati che furono
di zie o di nonne remotissime.
 
Quanto poco ho vissuto.
Non conosco la guerra. E nemmeno la pace.
Mi duole l’orfanità,
lo sradicamento,
il sentirmi straniera in qualsiasi luogo,
il non appartenere
a una famiglia o a una patria.
 
Non posso narrare una battaglia;
né parlare della fame e della peste,
né scrivere le canzoni di qualche soldato ferito,
né parlare di donna violata,
né dire com’è un cimitero dopo una pioviggine.
 
Ma anelo a dire in poesia
che la vita mi commuove,
che respiro meglio quando mi dono,
che necessito amare nel modo più semplice e primitivo.
Che mi piace la pace e la difendo
e la guerra quando è giusta,
e il sapore dei mandarini quando giunge l’estate,
che mi piace essere una e radicarmi al cosmo,
e sentire che la mia vita palpita al tempo stesso della vita,
benché non abbia vissuto,
benché la mia fame sia d’infinito,
benché non sappia esprimere
che per qualche precisa ragione sono qui,
sul punto di scadere,
sul punto di morire,
di vivere.
 
In lingua originale:
COREOGRAFÍA

Para mí amigo Carlos Cortés

En fin
que no he vivido nada.
No sé qué cosa es una guerra
y tengo como prisión al cuerpo
y alma como campo de batalla.

Me debato entre la duda
de reflexionar o fluir;
esto es situarse en el palco de los espectadores,
o estar
en cada íntimo instante del milagro.

Vivo de pedacitos,
pero aspiro a la totalidad,
es decir a Mozart y al poema que me redima
y me revele los espacios absolutos
y la nada.

Percibo de mí
los sitios más secretos:
la culpa,
una tercera conciencia de las cosas,
la dualidad del pensamiento,
la ira pequeña
por lo que ya ocurrió.
Pero he vivido poco. Treinta años.
Dos amores de piel
y un querer abandonar
esta espera que me señala la vida.

Anhelo la anarquía,
el más tierno desorden del amor,
la cábala
los relojes de arena y una habitación sencilla.

Quiero tener un destino trazado de antemano,
encontrarme con Dios
y los abismos
y no tener conciencia de la llama.
Ser la llama misma y la aventura.

Pero vengo de soledades últimas,
de conversaciones que nunca concluyeron,
de espejos que me miraron desde la infancia hasta ahora,
de abandonados armarios de caoba que fueron
de tías o de abuelas remotísimas.

Cuán poco he vivido.
No conozco la guerra. Y tampoco la paz.
Me duele la orfandad,
el desarraigo,
el sentirme extranjera en cualquier sitio,
el no pertenecer
a una familia o a una patria.
No puedo narrar una batalla;
ni hablar del hambre y de la peste,
ni escribir la canción de algún soldado herido,
ni hablar de mujer violada,
ni decir cómo es un cementerio después de una llovizna.

Pero anhelo decir en el poema
que la vida me conmueve,
que respiro mejor cuando me entrego,
que necesito amar de la manera más simple y primitiva.
Que me gusta la paz y la defiendo
y la guerra cuando es justa,
y el sabor de las mandarinas cuando llega el verano,
que me gusta ser una y arraigarme en el cosmos,
y sentir que mi vida palpita al mismo tiempo que la vida,
aunque no haya vivido,
aunque mi hambre sea de infinito,
aunque no sepa expresar
que por alguna razón precisa estoy aquí,
a punto de vencer,
a punto de morir,
de vivir.
 
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da “LE RIDOTTE DEL SOLE” (inedito in Italia)
 
III
 
Mi afferro al corpo
come unica ridotta permessa.
 
Manco di luoghi di tenerezze e pianti.
Nuovamente palpo la fiamma dell’uccello spezzato.
Cerco rifugi di lana.
 
Ho posto i miei piedi sotto le acque
e per la pressione
delle mie palpebre silenziose
so che non sono nemmeno un’isola.
 
VIII
 
Vivere, già ho detto:
tenere tra le mani un fascio di carte:
una matita, libri, disegni, sogni.
 
L’anima allo scoperto
vulnerabile.
Stare così. Bere se stessi.
Singhiozzare.
 
Prendere l’inverno per tessere
una magione di lino.
Vigilante il petto,
nascosto nella pelle.
Vibrare.
Ripassare le camicie, accomodare i sogni,
lasciare in perfetta armonia i chiodi di garofano, la cannella,
lo zucchero e gli aromi.
 
Lasciare l’anima spopolata,
borbottare piccoli versi di Sor Juana,
dimenticare castighi e sconfitte.
 
Aggrottare le ciglia per piacere,
sorridere per malizia.
Vivere,
piegata tra ombre,
facendo occhi infantili
e dimenticare, dimenticare.
 
In lingua originale:
de “LOS REDUCTOS DEL SOL”

III
Me aferro al cuerpo
como único reducto permitido.

Carezco de sitios de ternuras y llantos.
De nuevo palpo la llama del pájaro quebrado.
Busco abrigo en lana.

He puesto mis pies debajo de las aguas
y por la presión
de mis párpados callados
sé que no soy ni siquiera una isla.

VIII
Vivir, ya he dicho:
tener sobre las manos un fajo de papeles:
un lápiz, libros, dibujos, sueños.

El alma al descubierto
vulnerable.
Estar así. Beberse a uno mismo.
Sollozar.

Tomar el invierno para tejer
una mansión de lino.
Vigilantes los senos,
escondidos en la piel.
Vibrar
Repasar las camisas, acomodar los sueños,
dejar en perfecta armonía los clavos, la canela,
el azúcar y los aromas.

Dejar el alma al despoblado,
musitar pequeños versos de Sor Juana,
olvidar castigos y derrotas.

Fruncir el ceño por placer,
sonreír por malicia.
Vivir,
acodada entre sombras,
aniñando los ojos
y olvidar, olvidar.
 
 
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Tomaso Pieragnolo
Tomaso Pieragnolo




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