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Sagarana IN PIANTA STABILE


Brano tratto dal romanzo L’urlo


Robert Graves


IN PIANTA STABILE



 

(…) A questo punto Crossley mi ha chiesto se fossi in grado di segnare i punti e al tempo stesso di ascoltare una storia. Gli ho risposto di sì. Il gioco andava a rilento.
“La mia è una storia vera,” ha proseguito “dalla prima all’ultima sillaba. Guardi quando dico che la mia è una storia “vera” mi riferisco se non altro al fatto che la racconto sotto una nuova veste. La storia è sempre la stessa ma certe volte modifico il momento culminante e arrivo perfino a ridistribuire le parti. Variazioni che ne conservano la freschezza e perciò stesso la verità. Se mi servissi sempre della stessa formula, non ci metterebbe molto a tediare e diventare falsa. È mio interesse invece mantenerne la vivacità, ed è una storia vera, dalla prima all’ultima sillaba. Conosco personalmente i protagonisti. Gente di Lampton”.
Abbiamo stabilito che mentre io tenevo il conto dei run e degli extra, lui avrebbe seguito i lanci, e alla caduta di ogni paletto avremmo copiato i rispettivi risultati. Ciò ha reso possibile la narrazione.
 
Una mattina Richard si era svegliato dicendo a Rachel: “Ma che razza di sogno strampalato”.
“Raccontamelo, caro, ” fece lei “ma sbrigati, perché voglio raccontarti il mio”.
“Ero lì che chiacchieravo” lui riprese “con una persona di notevole acume (o forse più d’una, perché cambiava aspetto di continuo) e ricordo ancora l’argomento. Eppure questa è la prima volta che mi riesce di ricordare un argomento scaturito dal sonno. Di solito i miei sogni sono così diversi dallo stato di veglia che per descriverli posso soltanto dire questo: “È come se la mia vita e i miei pensieri fossero quelli di un albero o di una campana, di un si bemolle o di una banconota da cinque sterline; come se non fossi mai stato un essere umano”. Non che manchi la vita, ricca a volte, a volte grama, ma comunque sia così diversa, ripeto, che se dicessi: “Ho fatto una chiacchierata” o “Ero innamorato” o “Sentivo una musica” o “Ero arrabbiato”, mi allontanerei dal vero come se cercassi di spiegare un problema filosofico strabuzzando gli occhi e storcendo la bocca, come fa il Panurge di Rabelais con Thaumaste”.
“Lo stesso vale per me” disse lei. “Quando sono addormentata divento, almeno credo, una pietra, con tutti gli appetiti naturali e le convinzioni di una pietra. “Insensibile come una pietra” vuole il detto, ma forse c’è più senno in una pietra, più sensibilità, più sensitività, più sentimento, più assennatezza, che in tanti uomini o donne. E non minore sensualità” aggiunse meditabonda.
Era domenica mattina: una scusa per prendersela comoda e restare a letto abbracciati; non avendo figli, la colazione poteva aspettare. Lui le raccontò che nel sogno passeggiava sulle dune con quella certa persona, o persone, che gli aveva detto: “Queste dune non fanno parte né del mare che abbiamo davanti né dei poggi coperti di vegetazione alle nostre spalle, tantomeno si collegano ai rilievi montuosi oltre i poggi. Sono una cosa a sé. Basta camminare sulle dune e avvertire un sentore nell’aria per rendersene conto, e se ci si astenesse da cibo e bevande, da sonno e discorsi, da pensieri e desideri, si potrebbe continuare a traversarle ininterrottamente senza alterazioni. Non c’è vita né morte sulle dune. Sulle dune può succedere di tutto”.
Rachel disse che si trattava di assurdità e domandò: “Ma si può sapere qual era l’argomento? Ti decidi a dirmelo?”
Lui disse che riguardava l’ubicazione dell’anima ma che adesso, mettendogli fretta, glielo aveva fatto passare di mente. Ricordava soltanto che l’uomo era dapprima un giapponese, poi un italiano e infine un canguro.
Al che lei, quasi mangiandosi le parole, si affrettò a riferirgli il proprio sogno. “Passeggiavo sulle dune; c’erano anche i conigli; come si concilia questo con quanto lui andava dicendo della vita e della morte? Ho visto te e quell’uomo che mi venivate incontro tenendovi a braccetto e sono scappata via da tutti e due ma ho notato che lui aveva un fazzoletto di seta nera; mi è corso dietro e mi si è staccata la fibbia della scarpa, ma non potevo fermarmi a raccoglierla. L’ho lasciata in terra e quello si è chinato e l’ha messa in tasca”.
“Come fai a sapere che si trattava della stessa persona?” chiese il marito.
“Perché” ribatté lei ridendo “aveva la faccia scura e indossava un giaccone blu come il capitano Cook del ritratto. E poi perché è successo sulle dune”.
Baciandola sul collo Richard le disse: “Non solo noi due viviamo insieme, insieme parliamo e insieme dormiamo; adesso a quanto pare sogniamo perfino insieme”.
E risero.
Poi lui si alzò e le portò la colazione.
Verso le undici e mezzo lei gli disse: “Adesso, caro, vai a fare una passeggiata e riportami qualcosa che mi dia da riflettere: e vedi di tornare per l’ora di pranzo, all’una”.
Era una calda mattinata di metà maggio e lui, tagliando per il bosco, si portò sulla litoranea, che dopo meno di un chilometro arrivava a Lampton.
(“Conosce Lampton?” mi ha chiesto Crossley. “No” ho risposto. “Sono qui solo per le vacanze, ospite di amici”).
Fatti un centinaio di metri lungo la litoranea, cambiò direzione e risalì i poggi: pensava a Rachel, mentre con lo sguardo seguiva le farfalle azzurre e contemplava le rose di brughiera e il timo, per tornare col pensiero sempre a lei, alla stranezza di quella loro singolare comunanza; e poi, raccolto e annusato un ciuffo di ginestrone, studiandone il profumo aveva pensato: “E se lei dovesse morire, di me che ne sarebbe?” e presa una scheggia di ardesia dal muricciolo l’aveva lanciata facendola rimbalzare sullo stagno e aveva pensato: “Per essere suo marito sono un tipo troppo goffo”; e volti i passi alle dune per subito tornare ad allontanarsene, con una certa qual paura forse di incontrare la persona del loro sogno, aveva finito per descrivere un semicerchio in direzione della vecchia chiesa situata oltre Lampton, ai piedi della montagna.
Il servizio mattutino era finito e la gente si era riversata alle spalle della chiesa, fra i resti megalitici, a passeggiare in gruppi di due o tre, secondo consuetudine, sul liscio tappeto erboso. Il maggiorente del paese discorreva a voce alta di re Carlo, il martire: “Grand’uomo, quello, grandissimo, ma tradito da coloro che più amava”, mentre il medico discuteva di musica per organo con il pastore. Un gruppo di bambini giocava a palla. “Passamela, Elsie! No, a me, Elsie, Elsie, Elsie!”. Allora era sopraggiunto il pastore e aveva requisito la palla, dicendo che era domenica, non dovevano scordarlo. Quando si era girato per allontanarsi, gli avevano fatto le boccacce.
Ed ecco spuntare uno sconosciuto che aveva chiesto a Richard il permesso di sedersi accanto a lui; avevano attaccato a parlare. Lo sconosciuto aveva assistito alla funzione religiosa e aveva voglia di discutere del sermone. L’argomento in questione era l’immortalità dell’anima: ultimo di una serie di sermoni inaugurata a Pasqua. Disse che la premessa del predicatore, stando alla quale l’anima risiede in pianta stabile nel corpo, gli riusciva inaccettabile. Perché mai dovrebbe essere così? Quale missione svolgeva l’anima nel monotono tran tran quotidiano del corpo? L’anima non era né il cervello né i polmoni né lo stomaco né il cuore né la mente né l’immaginazione. Insomma era una cosa a parte. Era perciò più probabile che risiedesse fuori dal corpo anziché dentro. Non che avesse prove, in un senso o nell’altro; diceva però questo: La nascita e la morte sono un mistero così strano che il principio vitale potrebbe benissimo sussistere fuori dal corpo, che poi è la dimostrazione evidente dell’esistenza. “Non possiamo neanche stabilire con precisione” proseguì “quale sia l’istante della nascita o della morte. In Giappone, per dire, dove ho avuto occasione di recarmi, ritengono che alla nascita un essere umano abbia già compiuto un anno; e di recente in Italia un morto … ma andiamo a camminare sulle dune, così potrò riferirle a quali conclusioni sono arrivato. Parlare mi riesce più facile se cammino”. A udire quelle parole e a vederlo asciugarsi la fronte con un fazzoletto di seta nera Richard si era spaventato. Balbettò qualcosa. In quel mentre i bambini, arrampicatisi furtivamente dietro il cromlech, all’improvviso, a un segnale convenuto avevano urlato a squarciagola nelle orecchie dei due uomini, per poi scoppiare a ridere. Lo spavento aveva fatto infuriare lo sconosciuto, che aveva aperto la bocca come per imprecare, scoprendo i denti fino alle gengive. Tre dei bambini avevano strillato e se l’erano data a gambe. Ma quella che chiamavano Elsie, per la paura era caduta in terra e singhiozzava. Il medico, che si trovava lì nei pressi, cercò di consolarla. “Ha una faccia che pare un demonio” l’avevano intesa dire.
Lo sconosciuto sorrise bonariamente: “E infatti non tanto tempo fa ero un demonio. È stato nel Nord dell’Australia, dove ho vissuto per vent’anni con la popolazione indigena. “Demonio” è la parola che più si avvicina al rango che mi hanno attribuito in seno alla tribù; e mi hanno anche dato una divisa della Marina britannica del diciottesimo secolo da indossare come costume da cerimonia. Venga, camminiamo sulle dune, così le potrò raccontare tutta quanta la storia. Camminare sulle dune è una mia passione: perciò sono venuto in questa cittadina … Mi chiamo Charles”.






Brano tratto da L’urlo, a cura di Ottavio Fatica. Adelphi editrice, Milano, 2010.




Robert Graves


Di Robert Graves (1895-1985), poeta, romanziere e mitografo immensamente dotto e dalla vastissima produzione, sono stati pubblicati in Italia La Dea Bianca (1992). Dall’Urlo (1929) Jerzy Skolimowski ha tratto, nel 1978, il film The Shout (L’australiano), con Alan Bates.





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