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Sagarana NATALI ILLUSTRI


Robert Musil


NATALI ILLUSTRI



 

I
 
Uno dei punti più oscuri nella vita dell'uomo è la nascita. Non ne sappiamo nulla, solo che un qualcosa di imbozzolato in materie primordiali, strillante, paonazzo, lustro come una pelle di salsiccia, viene spinto nel mon­do con un dirompente ululato di dolore, — un processo, da qualunque lato lo si osservi, che infrange in ogni senso il codice delle buone maniere — eppure diciassette o vent'anni più tardi vieni a sapere che si è trattato di un natale illustre, o insigne o nobilissimo. Perché allora si comincia a interpellare quella pelle di salsiccia, che nel frattempo ha iniziato a riempirsi delle consuete fol­lie e bassezze umane, con un «Vostra Signoria», o «Signoria Illustrissima» o «Eccellentissimo», a seconda del lustro. E invero non si è mai capito bene perché e in base a quali leggi misteriose ciò accada.
C'è chi afferma che la nobiltà dei natali comincereb­be col barone, altri sostengono che parta dal maggiore. La differenza non è così grande come si potrebbe pensare, dato che per vivere tanto a lungo da raggiungere il grado di maggiore si deve per forza essere di ottimi genitori. C'è poi gente che scrive «Signoria Illustrissi­ma» quando deve fare una richiesta, e «Vostra Signoria» quando le si richiede qualcosa. C'è chi scrive «Si­gnoria Illustrissima» quando è di luna buona e «Vostra Signoria» quando ha i nervi. C'è chi, per non offendere nessuno, scrive sempre e comunque «Signoria Illustrissi­ma», e «Vostra Signoria» solo quando non può soffrire qualcuno e vorrebbe potergli dire «Signoria dei miei stivali». C'è chi scrive sempre «Vostra Signoria». E molti altri. Infine c'è chi dispensa questo titolame all'uno e all'altro con spietata freddezza, seguendo una misteriosa legge interna, senza guardare né a destra né a sinistra, né quelli che potrebbe offendere, né quelli che dovrebbe riverire. Stranamente, le autorità non fanno parte di questi imparziali ripartitori di illustrezze. Succede che la stessa persona, se mette a confronto le lettere ricevute dall'autorità militare, giudiziaria, dall'erario, dalla Camera di Commercio, dalle autorità mu­nicipali, dalla provincia ecc. — sembra aver avuto natali diversi a seconda delle diverse autorità. Insomma, tutto conferma l'assunto da cui siamo partiti: uno dei punti più oscuri nella vita dell'uomo è la nascita.
 
II
 
Non dobbiamo illuderei che la vita nella quale ci immette l'atto del venire alla luce, il cosiddetto «presen­te», sia una casa provvista di tutte le comodità moderne già inserite nella stesura del progetto, una casa costruita ieri e pronta ad accoglierci oggi. Il presente è piuttosto un casermone carico d'anni e di rappezzi, le cui fondamenta sono antiche quanto il tempo e le cui pareti hanno subito modifiche da ogni generazione che ha apportato tutti i cambiamenti ritenuti assolutamente indispensabili, e il risultato finale è la struttura odierna. Abbiamo «l'eguaglianza di tutti i cittadini», ma accanto abbiamo anche l'espressione «elevare qualcuno al ceto nobiliare» e il costume di degradare un nobile a borghe­se quando venga condannato per qualche crimine. Abbiamo la riparazione cavalleresca e accanto il processo per oltraggio all'onore. La libertà di opinione e la censu­ra teatrale, che certo lascia passare le scurrilità di un vaudeville parigino, ma di solito mette i bastoni tra le ruote a una seria convinzione artistica. Abbiamo ricono­sciuto per legge la libertà di confessione, in realtà prefe­riamo tollerare la libertà di miscredenza; cioè, permet­tiamo a chiunque non sia un buon cristiano o un buon ebreo di essere tiepido quanto gli pare; ma gli poniamo subito grosse difficoltà qualora non voglia essere tiepi­do, al punto che non potrà più essere un «buon» qualco­sa. Facciamo anche molte cose a metà, di cui l'altra metà è da tempo sprofondata nel passato. Conferiamo l'onore di appartenere a ordini che non esistono. Ci meravigliamo perché una volta a fumare in pubblico ti beccavi la multa, però non permettiamo alle donne di farlo. Ci sentiamo superiori ai tempi del regolamento sul vestiario, ma la nostra morale è disturbata da una donna che fa sport in calzoni. Si potrebbe andare avanti per giorni interi a elencare contraddizioni, senza trovare una fine. Mai un'epoca ha avuto la forza di apporre il sigillo della sua volontà a tutte le manifestazioni della vita pubblica; ognuna ha lasciato dietro di sé i resti del periodo precedente e già superato, e in tempi più vicini è sembrato non valesse ormai la pena di riscattarli. Così si sono mantenuti, se non altrove, nelle forme e nelle
formule, anzitutto in quelle della cortesia e delle buone maniere. Anche la nostra terminologia epistolare affonda le radici in quel lontano passato, e il modo in cui ce ne serviamo è una specie di fossile guida che permette di stabilire l'età degli strati. Chi si rifiuta tassativamen­te di scrivere a un borghese appellandolo «Signoria Illu­strissima», vive per qualche minuto in un tempo in cui esistevano ancora ceti rigidamente suddivisi, diritto nobiliare e diritto borghese. Ma chi non resiste alle tenta­zioni di estendere questa riverenza anche ai funzionari di un certo grado, si inchina all'epoca in cui tutto era sudditanza e sottomissione e chiunque, in mancanza di controprove, era guardato con sospetto; chi allora non poteva legittimarsi né con una patente di nobiltà né con un diploma impiegatizio, veniva definito un «indivi­duo» un «certo» Tal dei tali, accuratamente tenuto sotto controllo da un occhiuta polizia.
Poco alla volta anche questa usanza verrà scomparen­do e sarà sostituita da qualcosa di meno sclerotico, che però al momento sarà già vecchio. Sono piccole distra­zioni che ci si trascina appresso. perché simili usanze tanto meglio si conservano quanto meno sono sfiorate dalla riflessione. Ma nel loro intorpidimento emanano comunque un lieve sentore si putrefazione.
 
III
 
Sono usanze che hanno qualcosa — come si può defini­re il contrario di ambizioso? —, qualcosa che livella ogni ambizione, perché in fondo contengono, ammantata di gentilezza, l'assicurazione data alla maggioranza del ge­nere umano di essere, nel vasto mondo. cittadini di seconda o terza classe, e solo il cane porta in bocca la propria frusta. Hanno qualcosa che ottunde il gusto; quando si smise di scrivere, come una volta: «Con umi­lissima obbedienza si prostra alla Vostra alta Autorità il sottoscritto N.N.», ciò non avvenne certo per un dimi­nuito rispetto nei confronti dell'autorità, ma perché la visione di schiene borghesi così acrobaticamente ripiega. te aveva qualcosa di pernicioso. Hanno un che di orien­tale, perché innalzano lodi dicendoti figlio e discenden­te di un grand'uomo, vale a dire il controcanto laudati­vo degli improperi dell'arabo adirato che ti chiama fi­glio e discendente di un cane. Hanno qualcosa che isti­ga a poco corretti indugi; perché sei venuto al mondo nudo come un verme e ti presenterai davanti agli occhi del Giudice appena coperto da quelle poche opere buo­ne che, in vita, hai trovato la forza e l'occasione di fare. Se ad ogni gradino che superi esclami vanaglorioso: oh. adesso mi sento proprio rinato!, invece di: a che scopo?, per quale nuova opera?, perdi solo tempo davanti allo specchio, e alla fine avrai fatto del tiro al bersaglio per un’onorificenza da baraccone invece di aver sparato a bruciapelo contro il male con un retto operare. – Hanno qualcosa di profondamente innaturale. Perché la no­stra morale parla soltanto di qualità interiori e insegna che bisogna stimare l'uomo per il suo valore intrinseco, mentre esse ammantano tutto in una suddivisione tra persone bennate e altre nate ancor meglio, come se non fosse già chiaro dal modo di rivolgersi a qualcuno cosa consideriamo buono e cosa cattivo: insomma sarebbe come scrivere «Vostra Ricchezza» o «Vostra Povertà». – Infine hanno qualcosa di ingiusto. perché in questo mondo pieno di natali di ogni sorta, illustri e illustrissi­mi, miserabili e ricchi, loschi e incerti, non permettono a quei pochi che smascherano questo andirivieni, e lo
devono anche sopportare, di farsi chiamare invece di «Illustrissimi» «Oscurissimi».
Quindi levo il mio encomio alle intestazioni con «Si­gnor» e nient'altro entrate in uso in Germania. Non perché il tanghero che nell'epoca della ferrovia a porta­ta di tutti, del commercio e del suffragio universali, dei luoghi comuni della stampa e di quelli d'altro genere, questo uomo-massa sconosciuto prima della nostra generazione, sia già di per sé un signore. Ma perché sussiste la speranza — se continuerà a darsi da fare con tanto zelo e se gli ripeterà ogni giorno: diventa un signore, cioè uno che unisce alla forza un corretto modo di vivere — che alla fine lo diventi davvero!
 
Perciò sarebbe tempo di lasciar estinguere i natali epistolari di varia luminosità e di introdurre indirizzari con parecchi volt in meno.






Articolo tratto dalla raccolta La guerra parallela, Fratelli Melita editori, La Spezia, 1992.




Robert Musil

Robert Musil nacque a Klagenfurt, in Austria, il 6 novembre 1880. Figlio di un ingegnere nominato professore al Politecnico di Brno, compì gli studi secondari presso questa città, nel collegio militare di Mährisch-Weisskirchen, dove aveva studiato anche Rilke e dove fu ambientato il suo primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless (1906). Nel 1901 divenne ingegnere meccanico e fu assistente volontario per un breve periodo al Politecnico di Stoccarda. Nel 1904 si trasferì a Berlino, dove seguì corsi di filosofia e di psicologia sperimentale, addottorandosi nel 1908 con una tesi su Ernst Mach (relatore il filosofo e psicologo Carl Stumpf). Partecipò alla I guerra mondiale come ufficiale e, dopo la fine del conflitto, lavorò come bibliotecario, redattore editoriale e impiegato del ministero per la propaganda alle truppe. Dal 1923 si dedicò all'attività letteraria a tempo pieno, grazie anche agli aiuti economici dapprima (fino al 1931) dell'editore Rowohlt, in seguito di alcuni amici. All'avvento del nazismo lasciò Berlino, dove si era stabilito nel 1931, per tornare a Vienna, da cui emigrò in Svizzera dopo l'Anschluß del 1938. Qui visse prima a Zurigo e poi, dal 1939, a Ginevra, dove la morte lo colse il 15 aprile del 1941, mentre lavorava al suo incompiuto capolavoro, L'uomo senza qualità, i cui primi due volumi erano usciti nel 1930 e nel 1933. L'opera esprime insieme la crisi sociale di un'epoca e di una cultura e la tensione utopica che animava l'autore. Tra le sue altre opere, vanno menzionate le novelle impressioniste raccolte in Incontri (1911) e le commedie I fanatici (1921) e Vinzenz e l'amica degli uomini importanti (1923), nonché vari saggi, tra cui particolarmente famoso è quello sulla stupidità. Questo articolo è tratto dalla raccolta dei suoi testi pubblicati sulla “rivista di trincea” Soldaten-Zeitung, di cui era il direttore durante la Grande guerra (1914-1918).





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