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Sagarana LA LUNA E L'ACQUA


Ayla Kutlu


LA LUNA E L'ACQUA



 

Ciao. Yerasim sta parlando di te coi dottori. Ha voluto che io aspettassi qui. Ti ricordi di me? Sono di İskenderun. Per un certo periodo abbiamo frequentato la stessa classe. Sei andata via senza finire la scuola, anzi neppure l'anno scolastico. Non credo che tu abbia dimenticato che sono un caro amico di tuo cognato Yerasim. Tuo marito Hristo era più grande di noi. Un ragazzo di diciotto o di diciannove anni che lavorava e manteneva la sua famiglia era considerato un uomo, ormai. Loro non davano importanza ai ragazzi come noi.
Le nostre feste religiose si confondevano, si mescolavano, e questa convivenza è durata fino a quando non siamo andati via di lì. Adesso ovunque la gente ha perso i contatti. Non c'è più nessuno che si ricordi di condividere le feste e le ricorrenze particolari. Hanno inventato la parola" assimilazione", che non significa altro che imporre a qualcuno un atto o un'idea con la forza. Nel tempo quel termine si è trasformato in un'idea che, con sufficienza e immediatezza, ha respinto la richiesta di integrazione di ognuno in quanto essere umano. L'assimilazione mi fa venire la nausea. Mi ha trascinato lontano dalla gioia di vivere, dalle compagnie che ora mi mancano tanto...
Se mi avessero detto che tu e io un giorno saremmo rimasti soli, noi due, nella stessa camera, non ci avrei mai creduto. Ma non avrei mai voluto che avvenisse in questo modo.
Vorresti un po' di acqua? Vuoi che apra la finestra? So che non puoi parlare. Non comprendo il linguaggio dei tuoi occhi. Siamo stati lontani tanti anni. Col passare del tempo sono diventati tanti i momenti non condivisi. Non riesci proprio a muoverle, le braccia e le gambe?
Sei molto ingrassata: «La troverai molto cambiata» ha detto Yerasim. «È per la malattia».
Rivederti mi ha riportato indietro nel tempo. Eri una ragazza del nostro quartiere. Mio fratello maggiore si era innamorato di te. Tu abitavi in una casa grande, vecchia, con tuo padre. Yerasim e Hristo non c'erano ancora.
La vostra casa era circondata da muri in gran parte demoliti, fatti di pietre rotonde tenute insieme dal fango del fiume. Si trovava in uno stretto vicolo. Ai piedi di uno dei muri, in fondo al giardino, crescevano gli alberi di camelie. lo ero piccino, gli alberi grandi. Sono cresciuto, ma quegli alberi non si sono rimpiccioliti. Credimi, da allora in poi non ho mai visto nessun albero di camelia tanto cresciuto. Sai, l'unico posto al mondo dove io non sono stato è 1'Indocina... Le camelie del vostro giardino erano ben diverse.
L'unica finestra che dava sul vicolo era quella della tua camera. Tra il cancello e la casa c'erano seminati pomodori, cipolle, patate, piante di menta e finocchietto, ravanelli. In mezzo alle verdure fiorivano a gruppi le violacciocche e gli ibiscus. Eri tu a spargerne i semi a manciate. Fra le melanzane violacee e i pomodori rossi traboccavano le violacciocche gialle, fucsia, e gli ibiscus rosa; i fiori pendevano al di sopra delle verdure.
Per anni ho paragonato la differenza tra i sogni giovanili e 1'acquisizione della maturità alla lotta tra i fiori e gli ortaggi. Mi mancano tanto quei fiori.
Ogni mattina le camelie si dipingevano di migliaia di fiori rossi. I boccioli a cinque petali, grandi quanto una lingua, si aprivano di colpo e la sera si richiudevano con la stessa rapidità. II giorno seguente una nuova ondata di rosso circondava l’albero; dopo tre giorni i fiori appassiti lasciavano un sigillo rossiccio di morte sul terreno sotto l'albero.
Restavo senza fiato.
La sera, dopo cena, a un cenno di mio fratello, le mani in tasca, con l'aria da adulti uscivamo di casa. Volevamo far credere nostra famiglia che andavamo in riva al mare. Uscivamo per strada.
Per questo allungavamo il tragitto. Ma che importava...
Tornavamo indietro, passavamo davanti alla porta della vostra casa abbassandoci, con la paura di essere sorpresi. Quella era l'unica avventura della nostra vita.
Vedevamo per prima la lampada. Era della tua camera. Tuo padre beveva il suo vino nella camera sul retro, alla luce tremolante della lampada a olio che non scacciava ma sfidava il buio. Tu stavi nell'angolo, inginocchiata davanti all'icona. Tenevi la testa leggermente alzata. Chissà quale peccato avevi da farti perdonare.
La luce della lampada ti rendeva trasparente. Perdevamo di vista, all'altezza della vita, i tuoi capelli, che scioglievi e pettinavi. Scendevano giù, sfiorando i tuoi calcagni, si dividevano in due parti e strisciavano per terra. Lo sapevamo...
Ci circondava la musica della notte che nessuno poteva sentire. Non sentivamo il nostro respiro, ma eravamo sicuri di sentire il tuo. Pensavamo che tu pregassi Dio perché tuo padre smettesse di bere. Mio fratello passava notti insonni pensando ai tuoi capelli, che scorrevano come un fiume nero, e ai tuoi occhi che con la testa china non rivelavano la loro luce nascosta. Erano giorni uggiosi. La città aveva inverni non diversi dagli autunni, nebbiosi e umidi. Davanti alla vostra casa la strada s’infossava. La pioggia si raccoglieva in quell'avvallamento, mentre sottili strisce di terra lungo i muri restavano asciutte. Il riverbero lunare, sia durante la luna piena sia con quella calante, si rifletteva in quell'acqua. Non volevamo incresparla, ci entravamo piano piano. Ci bagnavamo fino alle caviglie ma non disturbavamo l'immagine della luna riflessa nell'acqua. Con il movimento dei nostri passi la superficie mutava. La luna era d’oro, l'acqua d'argento... Le mescolavamo e il nostro sguardo coglieva solo la bellezza incredibile di quella fusione. In quell'istante tutte le voci si perdevano. Distogliendo gli sguardi da te aspettavamo che la luna d'oro, che nuotava nell' acqua increspata, prendesse il suo posto nel buio del cielo. Con un passo uscivamo dall' acqua d'argento. Poi ci entravamo di nuovo e solo dopo qualche passo ci accorgevamo di avere freddo ai piedi.
Verso la metà dell'inverno le piogge diventavano frequenti. Le acque riempivano non solo le fosse ma anche tutte le strade, da un pollice a un palmo di altezza. Le vie diventavano canali. In superficie galleggiavano soprattutto pezzi di legno. Le bucce di canna da zucchero e le carrube si annerivano e i loro bordi producevano schiuma. Venivano fermati dalle sporgenze dei marciapiedi stretti, e lì restavano. Passato del tempo, quando le vie si erano asciugate, dai pezzetti di legno ormai consumati uscivano i tarli che si perdevano subito nella sabbia.
Perché apri gli occhi? Vuoi qualcosa? O forse ti annoi? Non senti nessuna parte del corpo? Vuoi che ti gratti, o ti solletichi? Quanto si sono rovinate le tue mani! Sono il segno dell' acqua, del sapone di pessima qualità, della fuliggine e delle screpolature dovute al freddo. Avrei preferito non vederle. Non è cambiata, la tua vita...
Quando l'aria cominciava a rinfrescarsi, tuo padre sapeva che era arrivata la stagione per preparare le caramelle di ceci. Noi avevamo già pranzato e andavamo a scuola. Quando si apriva il coperchio del paiolo di ferro, di fronte al quale tuo padre grondava sudore fin dalla mattina, le caramelle di ceci dal candore quasi trasparente, un po' umide, un po' calde, si riversavano copiose come se fossero doni divini.
Non ci scottavano le mani. Subito dopo averle messe nelle nostre tasche ne sentivamo il calore sulle gambe. Quel calore, mescolandosi al sapore speziato dell'aroma di garofano, si sprigionava all'improvviso nelle nostre bocche. La noia della scuola si disperdeva mescolandosi alle piogge sottilissime...
In quel luogo non esistevano le stagioni. Ii verde di quella città era tanto intenso e diffuso che faceva pensare che il tempo non trascorresse mai. Si passava dal giorno alla notte, dall' estate all'inverno. Crescevamo, le nostre voci divenivano più profonde, proseguivamo negli studi, i sentimenti e le voglie ignote, come puledri selvatici, cominciavano a correre nelle valli dentro di noi.
Quando tuo padre, stanco dopo aver preparato le caramelle, si intratteneva nella bottega accanto a bere qualche bicchiere di vino, tu arrivavi a scuola; più tardi di noi, spesso dopo che il maestro era entrato in classe. Il tuo naso e le tue tempie coperte da ciuffi ricciuti sudavano. Avevi gli occhi grandi dalle ciglia lunghe e lo sguardo timido. Intrecciavi strettamente i tuoi capelli ma ciocche di ricci venivano fuori da sopra le orecchie e dalla tua nuca. Li tagliavi male. Era chiaro che li consideravi un impiccio.
Tuo padre non voleva che i tuoi seni si sviluppassero, il tuo corpo prendesse forma, le tue labbra divenissero carnose. La tua crescita significava che un giorno lui ti avrebbe persa.
Yerasim ha detto al telefono: «Vengo con mia cognata. Mi trovi all'ospedale di Balikli Rum. Vieni a ogni costo». Non avevo mai pensato che la cognata di cui lui parlava, potessi essere tu. La paralisi è totale, vero? Che cosa è successo? So che non puoi parlare. D'altronde non parlavi mai. Se necessario, preferivi raccontare con pochissime parole pochissime cose.
Yerasim non vuole che tu resti sola neanche un attimo. Tuo marito verrà stasera. Già lo sai.
Quando tuo padre usciva dal retro del negozio, io ero lì. Con gli spiccioli in mano aspettavamo che tu ci dessi delle caramelle senza badare alla bilancia o alla misura. Ma all'alcol si era aggiunto il vapore annientatore della rabbia. Ti ha picchiata crudelmente, senza pietà. Non ha detto niente a nessuno di noi, comunque per la paura ci siamo dati alla fuga. Quel pomeriggio non sei venuta a scuola.
Poi non ci sei venuta mai più. Hai venduto le caramelle sempre con la testa abbassata, dandocene tante quante potevano comprarne quegli spiccioli. Non hai più parlato con nessuno. È arrivata la primavera; si è trasformata in estate. Quando sbocciavano i fiori di acacia, mio fratello sognava sempre di incoronarti i capelli con i ciuffi rosa di quell'albero. Ogni mattina te ne intrecciava di nuovi. Prima il suo entusiasmo e la sua immaginazione mi sembravano esagerati. Col tempo mi ci sono abituato: nel negozio buio, quando non c'era nessun cliente e tu sedevi su una sedia di paglia con le mani appoggiate sulle ginocchia, mi sembrava di vedere ramoscelli curvi di acacia color rosa tra i tuoi capelli che scendevano giù, ondeggianti.
Mio fratello aveva ragione. L'amore aveva sempre ragione. Afferrata la bellezza, non c'è nessun'altra cosa più gioiosa che vivere con lei.
Quando uscivamo da casa e ci incamminavamo per strada, mio fratello si fermava sotto il lampione all'angolo, alzando la testa guardava la luce. Secondo lui, la luce gialla e moribonda rifletteva il colore del tuo viso. Era vero. Poi, arrivati sotto gli altri lampioni, alzavamo insieme la testa. Mio fratello mi aveva permesso di innamorarmi di te.
Lui è partito per il collegio militare. In breve tempo ha dimenticato l'amore della sua infanzia. Io non l'ho dimenticato.
Non venivi a scuola. Mio fratello era lontano. Tuo padre ha preso in negozio un ragazzo come apprendista. Quando lui ha imparato il lavoro tu ti sei rinchiusa in casa. Tutta la magia è svanita. Le camelie dipingevano di rosso la facciata della vostra casa. Tu ormai non eri più la luce del negozio buio, degli angoli bui delle vie. Mi sentivo soffocare non potendo parlare di te con nessuno. La luna si tuffava nell'acqua. Io, solo e gagliardo, entravo nell' acqua. Muovevo il riflesso della luna, la rattristavo. Attraversavo l'acqua, senza aspettare che la luna prendesse il suo posto nel cielo, mi fermavo davanti al cancello del vostro giardino. Non riuscivo a vederti. Avevate dato in affitto a Yerasim la parte anteriore della casa. Non lo so, forse per questo motivo avevo voluto stringere amicizia con lui. Qualunque fosse la ragione, i risultati sono stati positivi.
lo e Yerasim una volta abbiamo misurato la lunghezza dei nostri genitali. Lui non era stato ancora circonciso. Ho riso. Era una ragazzata. E lui ha provato un senso infantile di vergogna. Mia nonna paterna diceva che loro erano circoncisi già dalla nascita e che erano musulmani nati infedeli. Ho sempre pensato di raccontarglielo. Poi l'ho scordato.
Se tu potessi ridere, rideresti.
La mamma di Yerasim... si chiamava Maro, no? Tua suocera. Preparava piatti fumanti all'olio di oliva. I ripieni di pomodoro e di peperoni con ceci e molta menta, il risotto con le cozze, le insalate squisite fatte di molte erbe di cui ignoravo il nome e che non avrei mai più mangiato. Non li mangiavamo, li divoravamo.
La notte, con le mani in tasca, da solo, entravo ancora in quell' acqua dove nuotava la luna. Sapere che non ti avrei rivista non me lo impediva.
Sei tu, la moglie giovanissima di Hristo.
Quando ho lasciato quel luogo, il tempo ha cominciato a scorrere. Sono diventato grande. Tu, per me sei rimasta sempre in quella città e a quell' età: diciassette anni, mi sembra.
Sei stata felice, hai avuto dei figli? Se non riesci a muoverti apri e chiudi un po' gli occhi. Ohhhh..... Quattro figli? Credevo che tu fossi una di quelle viziate che partoriscono un solo figlio. Non ho mai capito come la figlia di un povero venditore di caramelle di ceci potesse essere viziata.
La notte in cui ti ho vista in chiesa è stato un giorno importante. Avevo trascorso la notte in bianco, tutto il giorno non avevo parlato con nessuno. Dopo la messa di Natale con Yerasim saremmo andati a spiare la camera da letto di un cameriere appena sposato. Ho aspettato molto tempo fuori dalla chiesa.
Chi ci entrava non ne usciva più. Nonostante il timore di offendere la mia religione, ci sono entrato. Ti ho cercata fra le persone che sedevano sui banchi di legno lucido. Non ho cercato Yerasim ma te. Eravate in piedi. Tu ti eri appoggiata al muro. Ti eri messa una sciarpa di merletto nera come la pece. Hai presente quando il sole estivo si riflette sull'erba secca e la tinge di madreperla? Il tuo viso era dello stesso colore... Yerasim si annoiava da morire.
Ho capito che l'affetto si era trasformato in amore quando ho visto quel viso color madreperla incorniciato dalla sciarpa nera. Yerasim e io siamo usciti. L'aria fresca ha raffreddato il sudore di Yerasim. Speravo che l'aria alleggerisse anche la mia verità. Invece mi faceva male al cuore. Ormai non avevo nessuna voglia di sorvegliare quel cameriere furibondo che ogni notte spogliava la moglie, la picchiava e poi faceva l'amore con lei. Io dovevo pensare a te. Non osavo guardare Yerasim perché mi sentivo colpevole.
Il colloquio di Yerasim col dottore sta durando molto.
L'ospedale è quasi vuoto. Forse Yerasim è uscito a comprare le tue medicine. Perché mi guardi in quel modo, con gli occhi stralunati? Sono verdi i tuoi occhi. Non erano neri?
O forse sei un'altra persona? Non hai sorriso, non sembri ricordare quello che ti ho raccontato. Hai continuato a guardarmi come una bambina che ascolta una dolce storia d'amore.
Può darsi che io non ricordi bene il colore dei tuoi occhi.
Se mi permetti, ti voglio toccare. Non ti ho mai toccata fino a questo momento. Mi tremano le mani. Sono emozionato. Bisogna chiudere i tuoi occhi. Ecco, così... Le tue mani si devono congiungere sul petto.
Ti ricomporranno...
Cosa si dice in queste situazioni?
Arrivederci...




(Tratto da Racconti Dell’Anatolia - Una scelta dei migliori autori della Turchia contemporanea, a cura di Necdet Adabağ, Gremese rfoyotr, Roma, 2008, traduzione di Semra Alemdaroğlu)




Ayla Kutlu
Ayla Kutlu (1938), dopo essersi laureata nel 1960 alla facoltà di Scienze politiche, ha lavorato in vari istituti statali e successivamente presso alcuni canali televisivi, preparando programmi di intrattenimento e per bambini. Entrata nel mondo letterario, ha riscosso successo sopratutto con le sue novelle. Tra di esse ricordiamo Non andare almeno tu Triyandafilis, che ha ottenuto il premio Sait Faik nel 1991. Tra i romanzi, citiamo Hoşçakal Umut (Arrivederci speranza, 1987), vincitore del premio di Rüştü Karay nel 1988.




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