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Sagarana YO ME ENAMORÈ DEL AIRE


Antonio Tabucchi


YO ME ENAMORÈ DEL AIRE



 

“Inseguendo l’ombra, il tempo invecchia in fretta”
(Frammento presocratico attribuito a Crizia)
 
 
 
Il taxi si fermò davanti a una cancellata di ferro battuto dipinta di verde. L’orto botanico è qui, disse l’autista. Lui pagò e scese. Sa da quale lato si vede un palazzo degli anni Venti?, chiese al tassista. L’uomo stentava a capire. Ha dei fregi Art nouveau sulla facciata, specificò, deve essere un edificio di valore architettonico, non credo che lo abbiano demolito. Il tassista scosse il capo e partì. Dovevano essere quasi le undici e cominciava a sentire la stanchezza, il viaggio era stato lungo. Il portone era spalancato e un cartello informava i visitatori che la domenica l’ingresso era gratuito, chiusura ore quattordici. Non aveva poi tanto tempo. Entrò in un viale orlato di palme dal fusto altissimo e esile, con un ciuffetto esiguo di verde. Pensò: saranno queste le buritì?, in casa parlavano sempre delle palme buritì. In fondo al viale cominciava il giardino con uno spiazzo lastricato da cui partivano piccoli sentieri diretti verso i quattro punti cardinali. Sulle pietre del lastrico era disegnata una rosa dei venti. Si fermò perplesso sulla direzione da prendere: l’orto botanico era grande e non gli sarebbe stato possibile trovare quello che cercava entro l’ora di chiusura. Scelse il mezzogiorno. In vita sua aveva cercato sempre il mezzogiorno, e ora che era arrivato in quella città del sud gli pareva giusto continuare nella stessa direzione. Però, dentro, sentiva una brezza di tramontana. Pensò ai venti della vita, perché ci sono venti che accompagnano la vita: lo zefiro soave, il vento caldo della gioventù che poi il maestrale si incarica di rinfrescare, certi libecci, lo scirocco che accascia, il vento gelido di tramontana. Aria, pensò, la vita è fatta d’aria, un soffio e via, e del resto anche noi non siamo nient’altro che un soffio, respiro, poi un giorno la macchina si ferma e il respiro finisce. Si fermò anche lui perché stava ansando. Hai un bel fiatone, si disse. Il sentiero faceva una salita rapida verso dei terrazzati che si scorgevano oltre le ombre di magnolie giganti. Si sedette su una panchina e trasse di tasca un taccuino. Vi appuntava i nomi dei luoghi di provenienza delle piante che lo circondavano: Azzorre, Canarie, Brasile, Angola. Con la matita disegnò alcune foglie e alcuni fiori, poi, utilizzando le due pagine centrali del taccuino, disegnò il fiore di un albero che aveva un nome molto strano, provenienza Canarie-Azzorre. Era un gigante maestoso con lunghe foglie lanceolate e degli enormi fiori turgidi a pannocchia che sembravano frutti. L’età di quel gigante era davvero ragguardevole, fece il conto: al tempo della Comune di Parigi doveva già essere adulto.
Sentì che aveva ripreso fiato e si avviò a passo svelto verso la fine del sentiero. Il sole lo investì in pieno, abbagliandolo. Faceva molto caldo, eppure la brezza che veniva dall’oceano era fresca. La zona sud dell’orto botanico terminava in quell’enorme terrazza a precipizio sulla città da dove si aveva una panoramica completa, la vallata occupata dai quartieri vecchi col fitto reticolato di strade e vicoli, le case perlopiù bianche, gialle e azzurre. Da lassù si abbracciava tutto l’orizzonte, e in fondo, sulla destra, oltre le gru del porto, il mare aperto. La terrazza era delimitata da un muricciolo che gli arrivava al petto sul quale era raffigurata la città con un mosaico di azulejos gialli e blu. Si mise a decifrarne la topografia cercando di orientarsi su quel disegno dal tratto ingenuo: l’arco di trionfo della città bassa da cui partivano le tre arterie principali, con quell’architettura illuminista dovuta alla ricostruzione del dopo terremoto; il centro, con le due grandi piazze attaccate l’una all’altra, a sinistra la rotonda con l’enorme monumento in bronzo, poi la zona nuova verso nord, con un’architettura tipo anni Cinquanta e Sessanta. Perché sei venuto qui, si disse, cosa cerchi?, è tutto sparito, tutti evaporati, marameo. Si accorse che aveva parlato a voce alta e rise di se stesso. Fece un cenno verso la città, come se salutasse qualcuno. Una campana, lontano, batté tre rintocchi. Guardò l’orologio, mancava un quarto a mezzogiorno, decise di visitare un altro lato dell’orto botanico e girò su se stesso per raggiungere l’altro sentiero. In quel momento lo raggiunse una voce. Era la voce di una donna che cantava, ma non capì dove. Si fermò e cercò di localizzarla. Tornò indietro, si affacciò al muro e guardò in basso. Solo allora si accorse che sulla sinistra, quasi a ridosso della massicciata scoscesa dell’orto botanico, sorgeva un edificio. Era un vecchio palazzo il cui lato dava sull’orto botanico, ma la facciata, ben visibile, lasciava capire che si trattava di un edificio dei primi del secolo, almeno a giudicare dai cornicioni di pietra e dai fregi di stucco che raffiguravano maschere teatrali allacciate da corone di alloro. Aveva un tetto a terrazza, un’enorme terrazza sulla quale sporgevano i comignoli e dove correvano i fili per il bucato. La donna gli girava le spalle, vista da dietro sembrava una ragazza, stava stendendo delle lenzuola e per arrivare ai fili si alzava sulle punte, con le braccia sollevate in alto, come una ballerina. Indossava un vestito di cotone stampato che le disegnava il corpo snello, ed era scalza. La brezza gonfiava il lenzuolo verso di lei come una vela e sembrava che lei lo abbracciasse. Ora aveva smesso di cantare, si era abbassata su una cesta di vimini poggiata su uno sgabello dalla quale estraeva panni colorati, magliette, gli parve, come se scegliesse quelli che doveva stendere per primi. Si accorse di essere leggermente sudato. La voce che aveva sentito e che ora non sentiva più non si era spenta, la sentiva ancora dentro di sé, come se essa avesse lasciato un’eco che continuava, e allo stesso tempo provava una sorta di strano struggimento, una sensazione davvero curiosa, come se il suo corpo avesse perduto peso e stesse fuggendo verso una lontananza che non sapeva dove. Canta ancora, mormorò, per favore, canta ancora. La ragazza si era messa un fazzoletto sulla testa, aveva tolto la cesta dei panni dallo sgabello e vi si era seduta, cercando di trovare riparo dal sole nella poca ombra creata dai lenzuoli. Gli girava le spalle e non poteva vederlo, ma lui, come magnetizzato, la fissava senza riuscire a distogliere lo sguardo. Canta ancora, disse a fior di labbra. Accese una sigaretta e si accorse che la mano gli tremava leggermente. Pensò di avere avuto un’allucinazione sonora, a volte crediamo di sentire ciò che vorremmo sentire, quella canzone non la cantava più nessuno, quelli che la cantavano erano tutti morti, e poi che canzone era, di quale epoca? Era molto antica, del Cinquecento o più tarda, vallo a sapere, era una ballata, una canzone di cavalleria, una canzone d’amore, una canzone d’addio? Lui l’aveva saputa, in un altro tempo, ma quel tempo non era più suo. Frugò nella memoria, e in un attimo, come se un attimo potesse risucchiare gli anni, ritornò al tempo in cui qualcuno lo chiamava Migalha. Migalha vuol dire briciola, si disse, tu allora eri una briciola. Improvvisamente arrivò una folata di brezza più forte, i lenzuoli schioccarono al vento, la donna si alzò e cominciò a stendere delle magliette colorate e un paio di calzoni corti. Canta ancora, sussurrò lui, per favore. In quel momento le campane della chiesa vicina si misero a suonare a distesa il mezzogiorno e, come se fosse stato evocato dal suono, dalla piccola garitta dove certo c’erano le scale che portavano alla terrazza, si affacciò un bambino e le corse incontro. Avrà avuto quattro o cinque anni, aveva i capelli ricci, i sandali con due occhi a lunetta sulle punte e i calzoncini sostenuti dalle bretelle. La ragazza posò la cesta per terra, si accoccolò, gridò: Samuele!, e spalancò le braccia, e il bambino vi si tuffò dentro, la ragazza si alzò e prese a girare su se stessa abbracciata al bambino, giravano entrambi come una giostra, le gambe del bambino erano tese in orizzontale, e lei cantava, Yo me enamoré del aire, del aire de una mujer, como la mujer era aire, con el aire me quedé. Lui si lasciò scivolare a terra con la schiena appoggiata al muro e guardò in alto. L’azzurro del cielo era un colore che dipingeva uno spazio spalancato. Aprì la bocca per respirare quell’azzurro, per inghiottirlo, e poi lo abbracciò, stringendolo al petto. Diceva: Aire quel leva el aire, aire que el aire la lleva, como tiene tanto rumbo no he podido hablar con ella, como lleva polison el aire la bambolea.
 
 
Una traduzione libera delle due strofe: “Io mi innamorai dell’aria, / Dell’aria di una donna, / Poiché la donna era aria, / Rimasi con un pugno d’aria. / Aria che porta via l’aria, /Aria che l’aria se la porta via, / Poiché andava così veloce, / Non ho potuto parlar con lei, /come se sollevasse una gonna / L’aria se la culla”.




Racconto tratto dalla raccolta Il tempo invecchia in fretta, I Narratori Feltrinelli, Feltrinelli editrice, Milano, 2009.




Antonio Tabucchi
Antonio Tabucchi è nato a Pisa il 24 settembre 1943. Grande appassionato di letteratura portoghese, oltre che insegnarla all’università, è il maggior conoscitore, critico e traduttore delle opere di Fernando Pessoa. Ha pubblicato, fra l’altro: Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Notturno indiano (Sellerio, 1984), Piccoli equivoci senza importanza (Feltrinelli, 1985), Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (Feltrinelli, 1990), Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994), La testa perduta di Damasceno Monteiro (Feltrinelli, 1997), Gli Zingari e il Rinascimento (Feltrinelli, 1999), Tristano muore (Feltrinelli, 2004). Ha ricevuto numerosi premi, fra i quali il Pen Club Italiano, il Campiello, il Viareggio Repaci, il Prix Européen de la Littérature, l’Europaischer Staatspreis.




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