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Sagarana ALLA CABUCELLE


Yves Montand


ALLA CABUCELLE



 

(…) Non ho ricordi dell'Italia, ma a forza di sentirne parlare, credo di aver vissuto quel dramma familiare: mio padre militante comunista e mio zio, militante fascista, sempre attaccato a lui. Voleva reclutarlo nel movimento fascista. Gli propose del danaro. Papà non accettò per ragioni evidenti: era profondamente comunista, come si poteva essere nelle campagne italiane degli anni Venti. Era stato segnato dalla guerra. Lui non ne parlava, ma era diventato antimilitarista, convinto che quel massacro era colpa del capitalismo. La propaganda bolscevica l'aveva convertito. Aveva aderito da giovane al Partito comunista italiano, dalla sua fondazione. Mio zio non ha mai smesso di perseguitarlo. Mio padre ha incassato tutto, le sevizie, le bastonate, fino all'olio di ricino che gli hanno fatto prendere a forza, come allora facevano i fascisti con gli avversari... Un giorno mio padre ha capito che non ne sarebbe venuto fuori. È partito a piedi per la Francia.
 
Quando sento parlare italiano, io mi sciolgo perché questa lingua ha cullato la mia infanzia e la mia adolescenza. I nostri genitori ci parlavano in italiano e noi rispondevamo in francese. Quando sento parlare italiano, la cosa mi sconvolge: ho l'impressione di ricadere in quell'epoca. Mi sono sempre sentito francese, ma allo stesso tempo sono contento di essere nato toscano; sono anche contento di far parte della civiltà latina, italiana. Amo la cortesia, la gentilezza – gli italiani sono anche insopportabili, certamente. Quando si va in Italia, tutto quel gesticolare un po' mi disturba, tutte le pose mascoline e il volersi mettere in mostra mi irritano; ma ciò non è che il lato superficiale: l'autenticità esiste da loro, dotati di vera gentilezza e vero calore umano. Io credo che anche il gesticolare sia una forma di difesa, che non corrisponde del tutto, profondamente, al loro io interiore. Forse mi riferisco a me stesso. E una brutta cosa parlare di sé. Insomma: posso dare l'idea di essere cordiale e aperto, quel che sono generalmente per mia natura, ma ciò può corrispondere anche a una forma forte di difesa.
 
Alla Cabucelle non eravamo sperduti. Eravamo attorniati da famiglie italiane, quei ritals (rifugiati italiani) che ho amato tutta la vita e di cui serbo un ricordo straordinario, quasi tutti della stessa regione, della Toscana o del Piemonte. Con quegli italiani, prima della partita di bocce la domenica, si discuteva di avvenimenti politici. E io ero là, a fianco di mio padre. Ascoltavo e non capivo nulla. Alla Cabucelle gli Italiani erano numerosi, ma non erano i soli. A dire il vero, durante la mia infanzia a Marsiglia non avevo la sensazione di essere un immigrato o un esule. Certo, sentivo delle ingiurie: «Siete degli sporchi terroni». Ciò mi passava al di sopra della testa. Mi chiedevo: «Cosa dice questo coglione?». E poi, a scuola, c'erano soltanto piccoli immigrati. Quando sentivamo «Hei, sei un terrone!», rispondevamo: «Chi di voi è francese qui?». A Marsiglia difficilmen­te si sentiva parlare francese. Tutti i miei compagni avevano nomi di sonorità straniera. i Ramirez, i Maccarelli. Il razzismo non signifi­cava nulla di concreto, niente di comprensibile o di minaccioso. Nel mio quartiere convivevano Italiani, Armeni, Greci, Spagnoli. Era un miscuglio di nazionalità.
Avevo tredici anni quando mia sorella Lydia mi assunse nel suo salone di parrucchiera. In quel salone ho imparato molto di più sulle donne che altrove. Si potrebbe dire che là si è compiuta gran parte della mia educazione sessuale. C'è una fantastica parola marsigliese, "guardonare", vale a dire fare il guardone per caso. Là, io ho parec­chio "guardonato". Ero il ragazzo di bottega, una specie di ornamen­to. Le clienti non facevano attenzione a me. Non erano affatto messe a disagio da me. Una donna è in permanenza sulle sue perché si sente osservata. Ma se non è osservata, è come ha voglia di essere, distesa, senza alcun pudore. Dunque vedevo e ascoltavo tutto. Raccontavano storie che mi facevano arrossire fino alle orecchie, con un'esagera­zione tutta marsigliese. Ciò che per me era conturbante ed eccitante, era il rilassamento totale di una donna mentre le lavavo i capelli con lo shampoo alle uova fresche... Massaggiavo la nuca, palpavo le spalle, accarezzavo il cuoio capelluto.
Quando dai lo shampoo a una donna, lei è seduta con le scarpe su un poggiapiedi e la testa gettata all'indietro, in una bacinella che ha la forma del collo. Versavo l'acqua calda chiedendo se era troppo calda o troppo fredda, massaggiavo e lavavo. Avevo una vista diretta sul seno, soprattutto in estate, quando l'abito leggero si socchiudeva... Ma il momento più terribile e più favoloso era quando dovevo racco­gliere le spille da terra. Mi intrufolavo a quattro zampe tra le gambe sollevate delle clienti mentre leggevano sotto il casco asciugacapelli. Le gambe si aprivano e chiudevano meccanicamente. Avevo quattor­dici anni. Era per me uno spettacolo formidabile, felliniano, quanto bastava per diventare matti.
Ero comunista di nascita, nato in una famiglia comunista. Mio padre era militante del Partito italiano ed era, a Marsiglia, responsabile degli antifascisti italiani che all'epoca lottavano contro Mussolini. Spesso, nel vicolo in cui abitavamo, arrivava un compagno di passaggio, a cui mio padre dava rifugio per qualche tempo. Il giovanotto arrivava certo su indicazione del Partito e dava una parola d'ordine. Gli sten­devamo un materasso per terra. Io gli portavo una zuppa e un pezzo di pane. Un giorno, entro in casa all'improvviso, salgo in camera e spingo la porta di quella gelida sala da pranzo in cui non mettevamo mai piede. E piombo su mio padre che sorprendo con tre tipi seduti attorno al tavolo. C'erano delle carte sul tavolo, ma non stavano giocando. Era uno stratagemma. Io non capivo un gran che, ero un ragazzino. Partivo dal principio che mio padre aveva ragione. Se lui diceva bianco, non poteva che essere bianco, o rosso piuttosto. (…)






Brano tratto da Frammenti di vita, Via del Vento edizioni, Pistoia 2013. A cura di Antonio Catronuovo.




Yves Montand
Yves Montand, nome d'arte di Ivo Livi (Monsummano Terme, 13 ottobre 1921 – Senlis, 9 novembre 1991), è stato un cantante e attore italiano naturalizzato francese.




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