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Sagarana TESTOLINA BIANCA


Rosario Castellanos


TESTOLINA BIANCA



 

La signora Justina guardava, come ipnotizzata, il ritratto di quel dolce, con fragole e meringhe, che illustrava (a colori) la ricetta data dalla rivista. La ricetta non era per i momenti di difficoltà – quando il marito torna a casa alle dieci di sera con invitati a cena: colleghi di lavoro, il Capo che era di buon umore e, casualmente, senza altri impegni; qualche amico d’infanzia incontrato per strada – e bisognava essere all’altezza delle circostanze. No, la ricetta era per le grandi occasioni: l’invito formale al Capo, a cui si pensava di chiedere un aumento di stipendio o una promozione; la stilettata al prestigio culinario e leggendario della suocera; la battaglia per la riconquista di uno sposo che comincia a prendere una brutta piega e vuole provare il suo potere seduttivo sulla giovinetta che potrebbe essere la compagnia di studi della figlia.
«Ciao mamma. Sono già tornata.»
La signora Justina distolse lo sguardo da quel miraggio che contribuiva ad alimentare la sua fame di diabetica soggetta a regime ed esaminò con cura, e con la solita delusione, sua figlia Lupe. No, non assomigliava, nemmeno lontanamente, alle figlie che si vedono al cinema e se arrivano a quest’ora, è perché erano state a passeggio con un fidanzato che ha cercato di sedurle e non è riuscito a far altro che spettinarle o con un pretendente così rispettoso e di così buone intenzioni da produrre l’effetto protettivo di un’ultima spruzzata di spray sull’acconciatura laboriosamente realizzata in un salone di bellezza. No, Lupe non arrivava... scomposta. Arrivava affaticata, annoiata, stanca come se fosse stata a una cerimonia religiosa o a merenda con qualche amica solitaria, con niente da fare o da dire, proprio come lei. Tuttavia, la signora Justina si sentì in dovere di gridare:
«Non hai il minimo rispetto per questa casa... Entri ed esci all’ora che ti pare, come se fossi un uomo... come se fosse un albergo... non rendi conto a nessuno di quel che fai... se il tuo povero padre fosse vivo...»
Per fortuna il suo povero padre era morto e sepolto per l’eternità in una tomba del cimitero. Molti criticarono la signora Justina dandole della scialacquatrice ma lei decise che non era il momento di badare a spese quando si trattava di un’occasione unica e, per di più, solenne. E ora, ben sotterrato, continuava essere un dettaglio di buon gusto invocarlo di tanto in tanto, soprattutto perché ciò permetteva alla signora Justina di confrontare la sua tranquillità attuale con i sussulti precedenti. Sistemata esattamente nel centro del letto matrimoniale, senza preoccuparsi se il suo compagno arrivava tardi (accendendo luci a destra e a manca e facendo un baccano come se fosse un’ora decente) o non arrivava affatto perché aveva avuto un incidente o era caduto nelle grinfie di una donnaccia che avrebbe minato le sue forze fisiche, le sue entrate economiche e la sua attenzione – già di per sé scarsa – verso la legittima.
Sicuramente la signora Justina aveva sempre avuto il pregio di preferire un marito dedito agli affari tipici del suo sesso in mezzo a una strada a quei mariti casalinghi che controllano gli scontrini del mercato, che tolgono il coperchio alle pentole per controllare il grado di cottura dello stufato, che si danno da fare per scoprire i piccoli depositi di polvere negli angoli e decidono di sperimentare le nuovissime dottrine pedagogiche sui bambini.
«Un marito in casa è come un materasso per terra. Non si può calpestare perché non è nostro e nemmeno saltare perché è troppo largo. Non ti resta altro da fare che metterlo al suo posto. E il posto di un uomo è il lavoro, l’osteria o la casa chica*.»
Così diceva sua sorella Eugenia, inacidita come tutte le zitelle e, soprattutto, senza nessuna idea di cosa fosse il matrimonio. Il posto ideale per un marito era quello in cui riposava ora il defunto Juan Carlos.
Da parte sua, la signora Justina si era comportata come una vera signora: lutto stretto per due anni, lento e progressivo recupero, vestiti a quadri bianchi e neri e ora l’esempio vivente della conformità ai disegni della Divina Provvidenza: colori sobri.
«Mamma, aiutami a tirar giù la cerniera, per favore?»
La signora Justina fece quello che Lupe le aveva chiesto e non perse l’occasione di sottolineare un’importanza che i suoi figli tendevano a sminuire.
«Il giorno in cui non ci sarò più...»
«Ci sarà sempre un altro disponibile, non credi? Che mi abbassi la cerniera non fosse che per interesse verso i regali che gli faccio.»
Ecco il risultato che si ottiene seguendo i consigli degli specialisti in relazioni umane: “sia un’amica, più che una madre; alleata e non giudice”. Benissimo. E ora che doveva fare la signora Justina con la risposta che non aveva nemmeno provocato? Andar su tutte le furie? Assicurare Lupe che le avrebbe lasciato in eredità abbastanza denaro da potersi pagare un soddisfacente servizio di abbassa-cerniere? Dio mio, ai suoi tempi una ragazza non si mostrava esperta di certi temi per rispetto verso la madre. Ma ora, ai tempi di Lupe, era la madre che non doveva mostrarsi esperta di certi temi trattati dalla figlia.
Come cambiano i tempi! Quando la signora Justina era ragazza, si presumeva che fosse così innocente da non poter essere lasciata sola con un uomo senza che questi si sentisse tentato di mostrarle le realtà della vita alzandole la gonna o qualcosa del genere. Durante tutto il periodo del nubilato e, soprattutto, del fidanzamento, la signora Justina aveva usato una specie di rinforzo di tela grezza che le permetteva di resistere a qualsiasi attacco alla sua purezza finché non fosse arrivato l’aiuto esterno. E che, inoltre, permetteva alla sua famiglia di sapere con certezza che se l’attacco fosse andato a buon fine, ciò era avvenuto con il consenso della vittima.
La signora Justina aveva sempre resistito con graffi e morsi alle insidie del demonio. Ma una volta sentì che era sul punto di cedere. Si accomodò sul divano, chiuse gli occhi... e quando li riaprì si trovò sola. Il suo tentatore era fuggito, vergognandosi della sua condotta che era stata sul punto di portare una giovane onesta sull’orlo del precipizio. Cercò di non vederla mai più, ma quando il caso li riuniva lui la guardava con estremo disprezzo e se si trovavano abbastanza vicini da poterle parlare all’orecchio senza essere sentito da nessun altro, le diceva:
«Puttana!»
La signora Justina pensò al convento come unico riparo contro le debolezze della carne ma il convento richiedeva una dote che il modesto stipendio di suo padre – benedetto dal cielo con cinque figlie nubili – convertiva in un requisito impossibile da soddisfare. Si accontentò allora di affiliarsi a confraternite pie e fu in una riunione mista della ACJM** che conobbe colui che l’avrebbe sposata.
Si amarono, dal primo momento, in Cristo e si regalavano, ogni settimana, fioretti spirituali. “Oggi ho rinunciato alla fetta di torta al cocco che mi spettava come dolce e quando mia madre ha insistito perché la mangiassi, ho finto un’indigestione. Mi hanno portato in camera e mi hanno dato una camomilla molto amara. Ah, più amaro era l’aceto in cui inzupparono la spugna che si posò sulle labbra di Nostro Signore quando, crocifisso, si lamentava di avere sete.»
La signora Justina si sentiva umiliatissima di fronte ai risultati di Juan Carlos. Quello della torta l’avrebbe potuto fare chiunque, ma la spugna... Si mise a ripassare il catechismo ma non riuscì a stabilire nessun messo tra i misteri della fede o i passi della storia divina e gli avvenimenti quotidiani. Cosa che le servì, in fin dei conti (secondo quel precetto evangelico per cui gli umili saranno esaltati) per verificare che le vie della Provvidenza sono imperscrutabili. Grazie alla sua mancanza d’immaginazione, all’impossibilità di competere con Juan Carlos, Juan Carlos cadde disteso ai suoi piedi. Qualsiasi cosa dicesse, suscitava sempre un ah! di ammirazione tanto nella signora Justina quanto nella docile eco delle sue quattro sorelle nubili. E fu con questo ah! che Juan Carlos decise di sposarsi e non avrebbe potuto prendere decisione più azzeccata dato che l’eco si mantenne intatta e ben udibile durante tutti gli anni del matrimonio, mai interrotto da una domanda, da un commento, da una critica, da un’opinione contrastante.
Ora, ormai dal porto sicuro della vedovanza – inamovibile, visto che era fedele ai suoi ricordi e visto che aveva ereditato una pensione sufficiente per le sue necessità – la signora Justina pensava che forse le sarebbe piaciuto ampliare il suo repertorio con qualche altra esclamazione. Quella d’inorridita sorpresa, ad esempio, quando vide per la prima volta, nudo davanti a lei e in preda alla frenesia, chissà poi perché, un uomo che aveva visto sempre e solo in giacca e cravatta mentre parlava con fervore del patronato di San Luigi Gonzaga, cui aveva raccomandato di vegliare sull’integrità della sua giovinezza. Ma le sigillarono le labbra il sacramento che, con Juan Carlos, aveva ricevuto qualche ora prima davanti all’altare e l’opportuna avvertenza di sua madre che, senza entrare nei dettagli, ovviamente, la mise al corrente del fatto che nel matrimonio non era tutto oro quel che luccica. Che era pieno d’insidie e pericoli che mettevano a dura prova la fermezza di carattere della sposa. E che la virtù suprema che doveva praticare se voleva ricevere la palma del martirio (giacché a quella della verginità aveva automaticamente rinunciato acquisendo lo stato di sposata) era la virtù della prudenza. E la signora Justina intepretò come prudenza il silenzio, l’accettazione, la sottomissione.
Quando Juan Carlos in quella stessa notte di nozze impazzì e la costrinse a realizzare alcuni atti di contorsionismo che lei non aveva mai visto nemmeno al Circo Atayde, la signora Justina si sforzo di assecondarlo e ci riuscì sempre meglio, man a mano che acquisiva una certa pratica. Ma dovette calmare i suoi scrupoli di coscienza (non stava contribuendo all’aggravarsi di una malattia forse incurabile cedendo ai capricci notturni di Juan Carlos invece di portarlo da un medico?) nel confessionale. Lì il signor curato la tranquillizzò assicurandole che questi attacchi erano non solo naturali ma anche transitori e che con il tempo avrebbero perso d’intensità, diradandosi fino a sparire completamente.
La voce del Ministro del Signore fu quella di un angelo. A partire dalla nascita del primo figlio Juan Carlos cominciò a dare segni di miglioramento. E grazie a Dio, perché con la salute quasi completamente recuperata poteva dedicare più tempo al lavoro, nel quale ormai non ce la faceva più da solo e dovettero procurargli una segretaria.
Spesso Juan Carlos non aveva tempo di tornare a casa per pranzare o per cena, o doveva rimaneva in riunione fino all’alba. O i suoi superiori gli affidavano l’incarico di controllare le succursali della Compagnia nell’interno della Repubblica e se ne andava per una settimana, per un mese ma non senza raccomandare alla famiglia di aver cura di sé e comportarsi bene. Perché nel frattempo la famiglia era cresciuta: dopo il maschietto erano nate due bambine.
Il maschietto era maggiore e se fosse stato per la signora Justina, non sarebbe arrivato nessun altro bambino perché le gravidanze erano una vera croce, non solo per lei, che le soffriva sulla propria pelle, ma anche per tutti quelli che la circondavano. Alle ore più impensate del giorno e della notte le veniva voglia di gelato alla guanábana e non restava altro da fare che uscire a cercare un posto dove poterlo comprare. Perché nessuno voleva che il bambino nascesse con una macchia sul viso o un difetto fisico a causa della mancanza di attenzione verso i desideri della madre.
Insomma, la signora Justina non aveva di che lamentarsi. Ecco lì i suoi tre figli belli e sani e Luisito (in onore di San Luigi Gonzaga, a cui Juan Carlos continuava a essere devoto) era così carino che nel periodo di Natale lo affittavano come bambino Gesù.
Sembrava un figurino con il suo vestitino di pizzo e i boccoli biondi che non gli tagliarono fino ai dodici anni. Era molto serio e disciplinato. Non andava, come gli altri ragazzi della sua età, a cercare le pozzanghere per sguazzarci dentro, né si arrampicava sugli alberi o si rotolava per terra. No, lui no. I vestiti non gli andavano più ed era un peccato, senza una toppa, senza una macchia, senza che sembrassero usati. Non gli andavano più perché era cresciuto. Ed era un modello di condotta. Faceva la comunione ogni primo venerdì e cantava nel coro della chiesa con quella voce da soprano così graziosa e educata che, per fortuna, conservò per sempre. Leggeva, senza che nessuno glielo chiedesse, libri edificanti.
La signora Justina non avrebbe potuto chiedere di più, ma Dio le concesse che, oltretutto, Luisito fosse molto affettuoso con lei. Invece di andare a far baldoria (come facevano i suoi compagni di scuola, e di una scuola di preti, che orrore!) rimaneva a casa a chiacchierare con lei, a reggerle la matassa di lana pettinata mentre la signora Justina la faceva a gomitolo, a chiederle qual era il suo segreto per riuscire a fare sempre una zuppa di riso così buona. E quando andava a letto Luisito voleva, tutte le sere, che gli rimboccasse le coperte come quando era bambino e gli desse la benedizione. E approfittava del momento in cui la mano della signora Justina si trovava vicino alla sua bocca per rubarle un bacio. Rubarglielo! Quando lei avrebbe voluto dargliene mille e mille e mille e mangiarselo di baci. Si conteneva solo per non ingelosire le figlie e, chi lo avrebbe mai detto! per non avere una discussione con Juan Carlos.
Il quale, con l’età, era diventato cocciuto e arrogante. Sgridava Luisito per qualsiasi motivo e una volta a tavola gli disse... cos’è che gli disse? La signora Justina non se lo ricordava ma doveva esser stato qualcosa di molto brutto perché lei, sempre così contenuta, perse la pazienza e tirò la tovaglia e caddero in terra tutte le stoviglie e il brodo schizzò le gambe di Carmela che gridò perché si era bruciata e Lupe approfittò della situazione per farsi venire un mancamento e Juan Carlos si alzò, si mise il cappello e uscì, altezzoso, di casa, dove non tornò fino al giorno dello stipendio.
Luisito.. Luisito se ne andò di casa perché la situazione era insostenibile. Aveva trovato un lavoro ben retribuito in un negozio di arredamento. Questa cosa avrebbe dovuto tappare la bocca a suo padre, ma era inutile sperarlo! Continuava a dire bestialità finché Luisito decise di venire a far visita alla signora Justina nelle ore in cui era sicuro di non imbattersi in quell’energumeno di suo papà.
Non doveva fare molta fatica. La signora Justina rimaneva da sola la maggior parte della giornata, con le ragazze già sistemate in un ufficio molto decente e con il marito Dio sa dove. Invischiato in qualche problema, sicuramente. Ma di questo era meglio non parlare perché Juan Carlos s’irritava quando sua moglie non capiva quello che le stava dicendo.
Una volta la signora Justina ricevette una lettera anonima in cui “una persona che la stimava” la metteva al corrente del fatto che Juan Carlos aveva messo su casa alla segretaria. La signora Justina rimase a lungo a fissare quelle lettere disuguali, scritte grossolanamente, che non significavano niente per lei e alla fine strappò il foglio senza dire niente a nessuno. In questi casi la carità cristiana ci esorta a non emettere giudizi affrettati. Certo, quello che la lettera diceva poteva essere vero. Juan Carlos era un uomo e non un santo e come tutti gli uomini, molto istintivo. Ma dato che in casa non le faceva mancare nulla e le concedeva il ruolo e il rispetto di sposa legittima, non aveva diritto di lamentarsi né di creare uno scandalo.
Ma Luisito, che notava ogni dettaglio, pensò che sua madre si sentisse triste, così abbandonata, e per la festa della mamma le regalò una televisione portatile. Che cose si vedono, Dio del cielo! Davvero quelli che scrivono le commedie non sanno che inventarsi. Famiglie senza armonia in cui ognuno va per la sua strada e i figli fanno quello che gli pare senza che i genitori se ne accorgano. Mariti che tradiscono le mogli. E mogli che non erano meno stupide per il solo fatto di essere adulte, chiuse nelle proprie case a credere ancora a quello che insegnarono loro da bambine: che la luna è fatta di formaggio.
Speriamo bene! E se queste storie succedessero davvero? E se Luisito s’imbatte in un’approfittatrice che lo abbindola e lo obbliga a sposarsi con lei? La signora Justina non si diede pace finché suo figlio non le promise formalmente che mai, mai e poi mai si sarebbe sposato senza il suo consenso. E poi, di che si preoccupava? Non aveva nemmeno una fidanzata. Non gli mancava nulla, diceva, abbracciandola, quando la sua mammina era con lui.
Ma bisognava pensare al futuro. La signora Justina non sarebbe vissuta per sempre. E se anche fosse, non stava bene che Luisito vivesse come uno zingaro.
Per farle cambiare idea, Luisito la portò a vedere il suo appartamento. Come lo aveva arredato bene! Non per niente era un arredatore. E per le pulizie aveva preso un ragazzo, Manolo, perché le domestiche sono così incapaci, così sporche e tutte le donne, salvo la signora Justina, sua mamma, così pessime cuoche.
Manolo sembrava servizievole: le offrì il te, le sistemò i cuscini del poltrona su cui la signora Justina stava per sedersi, le tolse di dosso il gatto che voleva a tutti i costi sonnecchiare sulle sue gambe. E, tra l’altro, Manolo era piacevole, di bell’aspetto e ben curato. Meno male. Aveva vinto alla lotteria con Luisito, che lo trattava con riguardo come se fosse un suo pari: gli permetteva di mangiare a tavola con lui e dormire nel divano della sala perché la stanza in mansarda, quella che gli sarebbe spettata, era molto luminosa e veniva usata come studio.
L’unico neo era che Luisito e Juan Carlos non si erano riconciliati. Né il rigore del padre né l’orgoglio del figlio sembravano cedere, se non di fronte all’ultima malattia. E quella di Juan Carlos fu lunga e mise a dura prova la scienza dei medici e la pazienza dei parenti. La signora Justina si sforzava di assistere il marito, che non aveva mai saputo far fronte agli acciacchi e ora riusciva non a sopportare i suoi dolori e fastidi senza scagliarsi sulla moglie trovando goffi e inopportuni i suoi consigli, insufficienti i suoi sacrifici e inutili le sue precauzioni. Era di buon umore solo durante le visite: quelle dei suoi colleghi di lavoro, che all’inizio furono frequenti e alla fine si fecero rare come le apparizioni della cometa. L’unica assidua fu la segretaria (poverina, ormai così vecchia, così canuta, così sfinita! Com’era possibile che qualcuno si fosse accanito sul suo onore con quelle calunnie?) e portava sempre qualche pensierino: giornali, frutta che Juan Carlos lodava con così tanta insistenza che le figlie uscivano disgustate dalla stanza. Ragazzacce! Invece Luisito si manteneva composto, educato com’era e, per delicatezza, poiché non sapeva come sarebbe stato ricevuto dal padre, la prima volta che volle fargli un regalo non glielo portò di persona ma glielo consegnò tramite Manolo.
Fu così che Manolo entrò per la prima volta nella casa della signora Justina e seppe rendersi indispensabile a tutti, tanto che a nessuno importava se veniva accompagnato da Luisito o da solo. Sapeva fare le iniezioni, preparava stuzzichini a sorpresa dopo l’ultimo programma televisivo e accompagnava a casa la segretaria che, per fortuna, non abitava lontana – circa due o tre isolati – e ci si andava facilmente a piedi.
Alla veglia funebre di Juan Carlos Manolo sembrava più uno di famiglia che un domestico e nessuno se ne ebbe a male quando ricevette le condoglianze vestito con un completo di cachemire nero che Luisito gli comprò appositamente per l’occasione.
Momenti felici. Che a fatica si prolungarono durante il novendiale, poi la casa tornò a essere vuota. La segretaria andò a vivere a Guanajuato, alle ragazze non bastava il tempo diviso tra il lavoro e il divertimento. L’unico che, per quanto fosse il più occupato, trovava sempre un momento per dare un bacio alla sua “testolina bianca” – come affettuosamente la chiamava – era Luisito. E Manolo capitava di tanto in tanto con un mazzo di fiori, più che per tenersi buona la signora Justina (questo non le sfuggiva, nemmeno se era tonta) per ostentare un anello dalla pietra appariscente, un fermacravatta d’oro, una coppia di gemelli così volgari che dicevano a chilometri di distanza che il loro proprietario non aveva mai avuto i soldi e ora non sapeva come usarli.
Le ragazze si burlavano di lui dicendogli di non essere cattivo, di non mettersi in competizione con loro e annunciandogli che se mai avessero trovato un fidanzato non glielo avrebbero presentato per non correre il rischio di essere mollate e per il loro rivale. Manolo se la rideva facendo delle smorfie divertentissime e quando Carmela, la maggiore, stava per sposarsi con un collega e organizzarono una festicciola per formalizzare la loro relazione, Manolo si offrì di aiutare in cucina e servire a tavola. E così fece ma Carmela si scordò di Manolo al momento delle presentazioni e Manolo entrava e usciva dalla stanza in cui tutti stavano chiacchierando come se non esistesse o fosse un domestico.
Quando gli invitati si congedarono Manolo stava piangendo dal dolore sulla stufa sporca dell’unto degli stufati. A quel punto entrò Carmela battendo le mani dalla gioia perché aveva vinto la scommessa. Non si ricordava più che se avesse avuto un fidanzato non lo avrebbe presentato a Manolo? Bene, aveva mantenuto la parola e ora pretendeva che Manolo la rispettasse, tra l’altro era un castigo meritato, date la sua presunzione e la sua civetteria. Manolo si mise a piangere più forte e se andò sbattendo la porta. Ma il giorno dopo era di nuovo lì, con una scatola di cioccolatini per Carmela, disposto a partecipare alla discussione sui dettagli del vestito da sposa e della decorazione della Chiesa.
Povera Carmela! Con quanta illusione fece i preparativi! E dal giorno che ritornò dalla luna di miele non trovò pace: una gravidanza difficile e un parto prematuro di sette mesi esatti contribuirono ad allontanare il marito, già indifferente di suo, che finì coll’abbandonarla e accettare un lavoro come commesso viaggiatore in cui nessuno sapeva mai come trovarlo.
Carmela si manteneva da sola e chiedeva alla signora Justina di aiutarla badando ai bambini. Ma quando furono abbastanza grandi da andare a scuola si allontanarono sempre di più e ormai non si vedevano che per il compleanno della signora Justina, per Natale e per la festa della mamma.
Alla signora Justina dava fastidio che Carmela si vestisse e agghindasse in modo così vistoso e che fosse sempre tanto nervosa. Per quanto li sgridasse, i figli non le obbedivano e quando lei minacciava di sculacciarli questi a loro volta la minacciavano di raccontare allo zio a che ora e con chi era tornata a casa la notte prima.
La signora Justina non riusciva a capire perché Carmela avesse così tanta paura di Luisito che quando i suoi figli dicevano “lo zio” lei permetteva loro di fare tutto quello che volevano. Aver paura di Luisito, che era una signora e che ora era in viaggio per gli Stati Uniti con Manolo era assurdo; ma quando la signora Justina provò a parlarne con Lupe non ottenne altra risposta che una risata.
Lupe era isterica, come era ovvio, dato che non si era mai sposata. Come se sposarsi fosse il paradiso. Poche avevano avuto la fortuna della signora Justina, che si era trovata un uomo buono e responsabile. Non vedeva la differenza con sua sorella, che era sempre al verde? Lupe, invece, poteva circondarsi di tutto quel che voleva: vestiti, profumi, gioielli. Poteva sprecarli in gite o viaggi o darli in elemosina ai bisognosi.
Quando Lupe ascoltò quest’ultima frase, sbottò in insulti: la bisognosa era lei, lei che non aveva mai avuto nessuno che la amasse. Le salivano, come schiuma alla bocca, nomi confusi, storie sconce, grida disumane. Non si calmò finché Luisito – ritornato di pessimo umore dagli Stati Uniti, dove aveva perso Manolo – le diede un paio di ceffoni ben assestati.
Lupe pianse e pianse fino ad addormentarsi. Poi, come se si fosse dimenticata tutto, si calmò. Passava le ore libere lavorando a maglia o guardando la televisione e non andava mai a dormire senza essersi presa un tè a cui aggiungeva un goccino di una medicina ottima per... per cosa?
Che testa! La signora Justina si confondeva in ogni cosa e non c’era da meravigliarsi. Era vecchia, malata. Le sarebbe piaciuto essere circondata dai nipoti, dai figli, come nelle stampe antiche. Ma quello era una specie di sogno e la realtà era che nessuno le faceva visita e Lupe, che viveva con lei, spesso la faceva sapere che non sarebbe tornata a pranzo o che avrebbe dormito da un’amica.
Perché Lupe non contraccambiava mai questi inviti facendo venire a casa le sue amiche? Per non disturbare? Ma non era assolutamente un disturbo, anzi... Ma Lupe non stava più ascoltando il cicaleccio di sua madre, scendeva di corsa, di corsa le scale, apriva la porta d’ingresso.
Quando Lupe restava a casa, perché non sapeva dove andare, era comunque impossibile chiacchierare con lei. Rispondeva con monosillabi appena udibili e se la signora Justina la costringeva a parlare, lei usava con un tono così insolente che era meglio non sentirla.
La signora Justina si lamentava con Luisito, la sua spalla su cui piangere, sperando che lui la liberasse da quell’inferno e la portasse nel suo appartamento, ora che Manolo non viveva più lì e non c’era domestico che durasse: ladri alcuni, di uguale risma gli altri, incostanti tutti, lo mandavano su tutte le furie. Ma Luisito non gliela dava vinta né decidendosi a sposarsi (perché ormai era il momento, che cominciava a essere abbastanza stagionato) né tornando a casa di sua madre (che lo avrebbe accolto a braccia aperte) né chiedendo un aiuto che la signora Justina gli avrebbe dato molto volentieri.
Perché, se si era disinteressata di Carmela ed era disposta ad abbandonare Lupe (in fondo erano donne e potevano cavarsela da sole), non poteva stare tranquilla pensando che Luisito non aveva chi si occupasse di lui come si meritava e che, per non disturbarla – perché a causa del diabete si stancava molto facilmente – non la portava nemmeno in casa sua.
Quello che non mancava mai di fare, questo sì, era passarla a trovare ogni giorno, sempre con un pensierino, sempre con un sorriso. Non con quella faccia daferroviere sottopagato, con quello sguardo da basilisco con cui Lupe si affacciava alla porta della camera da letto della signora Justina per darle la buonanotte.
 
 
 
NOTE:
 
*In Messico esiste a lungo una forma di concubinato che permette agli uomini sposati benestanti di formarsi e mantenere una seconda famiglia di rango inferiore, tenuta separata da quella principale. La casa di questa seconda famiglia è detta “casa chica”, in contrapposizione alla “casa grande”, dove vive la famiglia legittima. A seguito della modernizzazione della società messicana e dell’emancipazione femminile,questa forma di concubinato tende oggi a scomparire [N.d.T.]
 
** Associazione Cattolica della Gioventù Messicana [N.d.T.].
 
 






Racconto tratto da Album de familia, Ed. Joaquín Mortiz, 1977. Traduzione di Stefania Marinoni. Testo originale: http://www.lashistorias.com.mx/index.php/archivo/cabecita-blanca/




Rosario Castellanos
Rosario Castellanos (Città del Messico 1925 - Tel Aviv 1974) è stata una delle più importanti scrittrici messicane dello scorso secolo. Figlia di un ricco proprietario terriero del Chapas, fin da bambina è cosciente delle profonde disuguaglianze che contraddistinguono la società messicana, basata sullo sfruttamento della popolazione india e sulla segregazione della donna, temi che sono al centro del suo romanzo più conosciuto, Balún Canán (1957, tr. it. Balún-Canán, il paese dei nove guardiani, Giunti, 1993). Promotrice della cultura indigena e dei diritti delle donne, nel 1971 divenne ambasciatrice del Messico in Israele, dove morì a causa di un incidente domestico. Album de familia, raccolta da cui è tratto questo testo, si compone di quattro racconti che, con cinica ironia, muovono una critica al ruolo della donna nella famiglia tradizionale.




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