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Sagarana TRASLOCHI


Roniwalter Jatobá


TRASLOCHI



 
 

Di buon mattino il camion, con lo scintillio della sua vernice che ne disturbava la vista, arrivò traballante, si fermò sul marciapiede. Suonò il clacson. Guardai giù dalla finestra e feci lo spelling delle parole che, scritte male, sbavate, occupavano quasi tutto lo sportello: traslochi. Il camionista sorrise dal vetro, scese, staccò i ganci assicurati alla carrozzeria e lentamente, con attenzione, aprì il portellone.

Vidi l'armadio venire smontato e messo sul camion sotto il sole cocente, rovente; lo sforzo nel sistemarlo nel modo migliore, il sudore che scendeva e bagnava la camicia chiara di mio padre, cianfrusaglie che mia madre diceva che si sarebbe portata dietro fino in capo al mondo.

Non aiutai per niente. Non alzai un dito. Non avevo nessuna voglia di andare. Zélia, la vicina della casa a fianco, aveva commentato che il quartiere dove saremmo andati ad abitare era pieno di delinquenti, fabbriche che emettevano fumi chimici maleodoranti, una cosa orribile. Dio me ne scampi. Preferisco rimanere qui nel mio angolino, per lo meno posso stare tranquillo. Mio padre ascoltò, disse che non era per niente così, chiacchiere dei giornali, anche se fosse quello che importava è che fosse andato ad abitare in una casa sua. Comprata col sudore. Disse che non aveva paura di niente, tutto dipendeva da noi.

Salii sul cassone. Strabuzzai gli occhi nel capannello di gente che era venuta a congedarsi. Salutai con entrambe le mani finché il camion non imboccò la strada in fondo. Il vento forte, la camicia aperta sul petto, l'aria che entrava, la mamma preoccupata che diceva solo che mi reggessi forte. Seguii con lo sguardo i binari della ferrovia. Viaggiavamo sempre di fianco ad essi. I treni che passavano fischiando alle curve, pieni zeppi di gente. La polvere che si alzava dietro di noi e mulinava sporcando le nostre cose. Mi misi a pensare a come era là, la nostalgia arrivò, la saliva scendeva a fatica nella gola, detti la colpa alla polvere, volevo piangere. È andata proprio così (fu proprio così).

La casa, all'inizio, aveva bisogno di piccole riparazioni. Mio padre si arrangiava nelle domeniche libere. Io aiutavo. In che modo? Portavo l'acqua quando ne aveva bisogno. La nostra casetta andava assumendo, a poco a poco, un aspetto familiare.

Il posto, dopo che mi fui abituato, sembrava la fine del mondo. Fango o polvere sulla strada nuda a seconda dei cambiamenti del tempo. Mio padre che spariva la mattina, alle prime luci dell'alba, seguendo la sirena che svegliava presto il mondo. Mia madre zitta, che si occupava della casa senza lamentarsi, perché lei era così: parlava poco, senza amicizie nel vicinato, e si irritava solo quando dal mio viso arrossato dal sole traspariva che bighellonavo per strada. Ma io stavo lo stesso là in mezzo ai mucchi di immondizia, vicino ai binari, guardando dall'altro lato la fabbrica del quartiere, grigiastra come sempre, seduto in un angolo, guardando il fumo giallognolo che saliva.







Traduzione dal Portoghese di Alessandra Lupi.




Roniwalter Jatobá

Roniwalter Jatobá è nato nel 1949 a Campanário, nello Stato di Minas Gerais, in Brasile. A 10 anni migrò con la famiglia a Campo Formoso, nel sertão di Bahia. Dal 1970 vive a San Paolo. Come giornalista è stato redattore dei fascicoli Nosso Século e Retrato do Brasil e ha collaborato con giornali culturali come Movimento, Escrita e Versus. Ha lavorato anche come cronista per il giornale Diário Popular. Ha pubblicato, fra gli altri, >em>Sabor de Química (1977), Crônicas da Vida Operária (1978), Filhos do medo (1980), Viagem à Montanha Azul (1982), O Pavão Misterioso e outras memórias (1999), Paragens (2004) e Trabalhadores do Brasil: histórias di povo brasileiro (1998, curatore dell’antologia).





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