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Sagarana DARIO FO E FRANCA RAME ALLA PALAZZINA LIBERTY


Walter Valeri


DARIO FO E FRANCA RAME ALLA PALAZZINA LIBERTY



Nel febbraio del 1974 di ritorno da Parigi, dopo aver recitato Mistero Buffo nella prestigiosa sala Gémier del Théâtre national de Chaillot, Dario Fo e a Franca Rame iniziano la loro ricerca per una nuova sede a Milano. L’Italia e l’Europa vivono da alcuni anni l’ esperienza del Teatro Pubblico e del decentramento in città importanti come Milano, Genova, Torino e Bologna. Il successo internazionale di Dario Fo come autore risale al’'ormai lontano 1961, con l’allestimento di Ladri, manichini e donne nude all’Arena Teatern di Stoccolma a cui fanno seguito vari allestimenti in Polonia, Bulgaria e Finlandia di Chi ruba un piede è fortunato in amore. L’unanime riconoscimento  dello straordinario successo delle recite parigine è riussunto nelle parole di Bernard Dort: “ Dario Fo è  famoso e sconosciuto. È a un passo dal diventare leggendario. Nei cantieri del teatro militante, il suo nome ha un’autorità magica: è il solo ad essere riuscito, nel corso di dieci anni, a realizzare quello che gli italiani chiamano ‘un circuito alternativo’ senza compromessi con l’istituzione teatrale”. Ma la fama non cambia la triste natura dei fatti, l’ ostilità congenita delle Istituzioni nei confronti del teatro e della cultura in generale del nostro paese. Anzi l’inasprisce. Dario Fo e Franca Rame  non solo hanno subito ogni genere di sopruso, basti pensare a una recita interrotta nell’aprile del 1970 dall’intervento di truppe speciali dei parà chiamate in rinforzo dal questore, ma non hanno ancora un loro teatro; non hanno neppure uno scantinato per provare. Il vecchio Collettivo, ospitato nel Capannone preso a nolo in via Colletta, fondato nel 1971, dopo la separazione da Nuova Scena,  si è sciolto, fra aspre polemiche e tensioni di vario genere:“ Dario e io ci trovammo con quattro altri compagni, completamente soli, spogliati di tutto: camion, apparecchiature elettriche, pulmini, riflettori, comprese le nostre personali attrezzature sceniche, frutto di vent’anni di lavoro, che avevamo immesso nel collettivo uscendo dal teatro ufficiale, materiali che da soli erano il corredo bastante a due compagnie primarie”, scrive Franca Rame in una bella e utile prefazione al III volume delle Commedie edito da Einaudi (1975), aggiungendo: “resta il prodotto di questi sette anni di lavoro, i milioni di spettatori che hanno assistito alle nostre rappresentazioni, gli interventi in fabbriche occupate, nelle città dove si svolgevano processi politici con spettacoli scritti appositamente per loro”. Di certo resta una vasta popolarità, un seguito e un’indiscussa credibilità associata ad un talento teatrale e coraggio politico straordinario. Certo non poco per ricominciare da capo, ovviamente con grande fatica e sacrificio. Così nasce il Collettivo Teatrale La Comune, diretto da Dario Fo, alla Plazzina Liberty di Milano, con la responsabilità legale di Franca Rame. Ne seguono sette anni di recite e interventi in tutta Italia fondamentali per intendere a pieno l’efficacia e la natura  del loro teatro; oggi testimoniato da centinaia di volumi,  migliaia di interviste, fotografie, trascrizioni di spettacoli , articoli di giornali, testi legali e  rendiconti economici a non finire. Una massa inverosimile di informazioni messe in rete e facilmente consultabili da tutti, per un totale di oltre un milione di documenti. Rendiconto trasparente di un capitolo straordinario e irripetibile della storia del  nostro paese, oltre che del  nostro teatro politico e civile, in una delle sue espressioni più significative.  Specie se si considera che la fine degli anni ’60  e tutti gli anni ’70 coincidono con una fase di conflitto sociale di proporzioni enormi, ancora oggi non pienamente compresi o storicamente indagati. Sono gli anni delle stragi di stato, del rapimento, stupro fisico e morale di Franca Rame. Delle bombe usate quotidianamente dalla destra come arma politica nelle banche, nelle piazze, nelle caserme di polizia. Ordigni fatti esplodere con precisione calcolata dai fascisti e parte dei servizi segreti deviati, per terrorizzare e paralizzare l’intera società. Con trame, omicidi e misteri artatamente irrisolti. Ma sono  anche gli anni della speranza di cambiamento, mobilitazione di milioni di persone che si esprimono nel più grande movimento politico e culturale partecipato mai visto nella storia d’ Europa: “Il tempo delle bandiere rosse in piazza; chi non ricorda la copertina del Time che fotografava l’Italia a quel modo, per i lettori di tutto il mondo?”, come ricorda Claudio Meldolesi in un libro importante dal titolo significativo Su un comico in rivolta (Bulzoni 1978). Sono gli anni dei referendum sul divorzio e l’aborto. Gli stessi anni in cui a memoria d’uomo nessun attore, attrice, o compagnia ha mai registrato tanti spettatori, la loro solidarietà. com’è stato per Dario Fo e Franca Rame. Usando il teatro, la sua natural immediatezza e forma espressiva politica eterogenea là dove il teatro prima non esisteva affatto.  Sono gli anni in cui sui portoni delle chiese si diffidava i fedeli di assistere alle recite del Galileo di Bertold Brech messo in scena da Giorgio Strelher e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano guidato da Paolo Grassi. Gli anni in cui Gianfranco De Bosio mette in scena il ‘blasfemo’ Ruzate, prima a Padova poi a Torino. Poi gli anni in cui Giuliano Scabia e la sua “opera missionaria e proselistica sempre più fuori dalle istituzioni” si pone in polemico conflitto con gli Stabili e comincia nel ’72-73  “ A lavorare intorno al rapporto fra teatro e informazione, progettando e realizzando un ‘teatrogiornale’ di strada e di piazza a Bologna”. Gli anni in cui si pensa da più parti di realizzare un discorso organizzativo autonomo, di tipo assolutamente nuovo. Non a caso già al suo debutto Mistero Buffo (1969), ripreso più volte alla Palazzina Liberty difronte ad un pubblico ‘oceanico’, registra mezzo milione di spettatori sin dal primo anno. Altrettanto per Tutta casa, letto e chiesa che vede Franca Rame  per la prima volta autrice oltre che interprete e figlia d’arte. Uno spettacolo sulla condizione della donna prodotto e presentato in prima assoluta  alla Palazzina il 6 dicembre 1977, e che presto diventerà il testo ‘femminista’ di autori italiani per eccellenza, più tradotto e applaudito nel mondo; assieme a Morte accidentale di un anarchico (1970) e  Non si paga, non si paga! (1974): “ Mistero buffo, nelle sue continue varianti, e Pum Pum! Chi è? La polizia, nelle  tre successive versioni, sono gli spettacoli di Fo negli anni ’70, i suoi spettacoli nel senso pieno della parola, perché vi si risolve l’itinerario di Fo nel teatro, in contemporaneità con il suo pubblico”, sempre Meldolesi. Ma i fatti di scena, la sinergia con la parte più avanzata e democratica della società, soprattutto  i valori positivi assoluti espressi dal palcoscenico, non contano. Non servono per imbastire un rapporto positivo con le istituzioni. Eventualmente sono utili per giustificare e tenere  viva l’attenzione persecutoria del Potere. Non a caso l’avventura della Palazzina Liberty, viene immediatamente osteggiata dall’ Amministrazione della città di Milano. Benché i nomi di Dario Fo e Franca Rame siano famosi,  in alcuni casi ‘modello per un teatro d’attore civile’  stimato in tutta Europa, come scrive Franco Quadri: “ Arroccandosi a Milano nella Palazzina Liberty, conquistata a dispetto delle forze più retrive della municipalità creano un importante precedente e la base per un lavoro stabile d’intervento, che dal quartiere può spaziare nelle molte recite d’occasione, nei palazzi dello sport o nelle fabbriche in lotta”. La Comune teatrale diretta da Dario Fo diventa indigesta, una forma di teatro indipendente intollerabile per il potere politico, immediatamente oggetto di repressione sistematica. Un conflitto emblematico che vede coinvolti da un lato l’amministrazione di una città importante nel panorama nazionale come Milano, il suo comportamento amministrativo, e dall’altro una forma inedita di teatro partecipato, sostenuto da vasti strati della popolazione residente. Quindi cartina di tornasole per una cultura democratica finalmente possible e rispetto dei diritti civili, nel corpo dell’intero paese. L’esperimento  inizia esattamente l’11 marzo 1974. Data di consegna delle chiavi d’ingresso da parte di un rappresentante dell’Amministrazione Comunale di Milano. Quando “La Comune di Dario Fo – ancora priva di una sua sede , ma con il sostegno di 30.000 soci nella sola Milano” trova un punto di riferimento stabile e operativo nell’area dell’ex-verziere. È un inizio quasi regolare; si direbbe stranamente pacific, concordato e  legalitario. Con “la presentazione all’assessore socialista al demanio Carlo Tognoli (che diventerà poi sindaco di Milano al posto di Aldo Aniasi), di una lista di una ventina di edifici abbandonati, tutti di proprietà del Comune di Milano, e la richiesta di poterli visitare” come testimonia Chiara Valentini, nella sua prima biografia completa dal titolo Storia di Dario Fo (Feltrinelli, 1977). Nulla di più civile e corretto da parte di Dario Fo e Franca Rame. La Compagnia chiede il semplice usufrutto temporaneo di un bene comune, per svolgervi un’attività teatrale e culturale di interesse pubblico, in cambio di un regolare affitto. “Alla fine la scelta di Dario Fo e di Franca Rame era caduta su una palazzina tutta fregi e stucchi al centro di un piccolo giardino pubblico, nel cuore del popolare quartiere di Porta Vittoria, che da tempo era lasciata nel più assoluto abbandono, semidiroccata e invasa dai topi”.  Tutto sembra risolversi pacificamente, dato che l’Assessore Tognoli consegna euforicamente le chiavi dell’edificio in stato di avanzato degrado, perché se ne verifichi l’agibilità e fattivo insediamento, in attesa di una delibera ufficiale di Giunta; che tutti a quell punto suppongono ovvia e scontata, a partire dallo stesso Assessore. Ma non è così, purtroppo. Con le prime attività di bonifica, smaltimento delle macerie,  allacciamento dell’energia elettrica, deratizzazione dell’edificio - ridotto ai minimi termini, anche per gli interventi di sabotaggio di un noto speculatore edile della zona, che nessuno osa menzionare per timore di ritorsioni - all’interno del Consiglio Comunale inizia una vera e propria battaglia politica. Una bagarre senza precedenti, promossa in prima istanza dal consigliere democristiano Massimo De Carolis. Un uomo politico che con orgoglio, dopo lo scioglimento della DC, passerà a Forza Italia. Definito dalla stampa dell’epoca: ‘uomo dal sorriso carnivoro’, antesignano di Formigoni, poi “condannato dalla quarta sezione penale del tribunale di Milano a due anni e dieci mesi di reclusione per la vicenda dell’ appalto del depuratore Milano Sud. Accusato di corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio.” Il Consiglio Comunale che a questo punto rischia una frattura insanabile con la parte più retriva della Democrazia Cristiana e il cattolicesimo di stampo integralista che rappresenta,  non ratifica le intenzioni ufficiose e l’impegno dell’Assessore Tognoli. Anzi l’osteggia apertamente. Nasce così il caso della Palazzina Liberty. Si entra in una sorta di giostra permanente e pozzo di San Patrizio; un limbo politico-amministrativo surreale e feroce che si oppone alla nascita di un palcoscenico voluto dalla maggior parte dei residenti del quartiere. “ Fo è un nemico del regime e un rivoluzionario da operetta, che prima sputa in faccia a tutti e poi vuole che gli facciamo il suo teatro stabile”. Cosa palesemente non vera, ma che importa? Così si esprimono all’unisono due assessori democristiani: Bossi e Crespi,  nel corso di un incontro con la stampa. Anche se gran parte degli abitanti, compreso la sezione del PSI all’unanimità,  l’intero  Consiglio di Zona del quartiere in cui sorge la Palazzina Liberty, appoggiano a spada tratta la concessione in usufrutto temporaneo dell’edificio a Dario Fo e Franca Rame. Il braccio di ferro ha inizio. Ma, per fortuna, non è possible procedere allo sgombero immediato  da parte dei vigili e delle forze dell’ordine, grazie all’enorme sostegno popolare. Si parla di migliai di uomini, donne e bambini che frequentano i corsi di teatro o attività sociali, decine di associazioni, intellettuali progressisisti (non tutti) da ogni parte d’Italia, che si schierano a favore di quella che viene ciecamente, falsamente definita dagli amministratori pubblici: ‘occupazione abusiva’. “Anche la magistratura d’altra parte aveva assunto un atteggiamento interlocutorio. L’intimazione di sgombero emessa il 26 giugno, 1974 dal pretore Leuci, viene sospesa dal presidente dell’VII sezione del tribunale civile Vincenzo Salafia, che l’anno dopo, nel 1975, emette una sentenza in cui riconosce a Fo il diritto di restare nella Palazzina: una specie di riconoscimento indiretto che l’attore non si era impossessato arbitrariamente dell’edificio”. Forse abusiva era la decisione di quella Giunta. Ma, a quel punto, nonostante la disputa burocratico-amministrativa accanita, dai toni violenti, pretestuosa e repressiva, dopo un breve allestimento di uno spettacolo dal titolo Porta e Belli contro il potere, finalmente il palcoscenico prende la parola. Va in scena la nuova commedia di Fo dal titolo “Non si paga, non si paga.”  È il 3 ottobre del 1974. Ed  il successo è immediate. Si tratta  di una fra le più belle farse politiche di Dario Fo e  forse del XX secolo,  assieme all’ Anarchico. Godibilissima e tagliente, coi tipici meccanismi comici già sperimentati  dall’autore con grande successo in decine di opere precedenti. Con un finale insolitamente mite e poetico, dai toni lirici, utopici e struggenti. Probabilmente ripreso dal meraviglioso finale di un fantastico brano di Mistero Buffo: Il cieco e lo storpio, tratto da un brano di Jean De La Vigne, qui recitato da un Coro che  si auspica un altro mondo. Un mondo dove “Ci si può anche accorgere che c’è il cielo…che le piante fanno fiori…che c’è perfino la primavera…che le ragazze ridono e cantano. E che quando uno nasce…non nasce soltanto una forza lavoro in pù…no, nasce un uomo e una donna, un uomo, una donna che vivranno contenti e liberi con altri uomini liberi!”, poi sostituito da un finale più epico e  brechtiano.  Sin dalla prima recita una fila mai vista di persone e abitanti del quartiere  si accalca per assistere allo spettacolo. Una commedia da ridere che finalmente parla dei loro problem reali, della difficoltà di fare la spesa al supermercato, del ritardo delle organizzazioni politiche della sinistra tradizionale rispetto ai tempi; in una società che dopo il breve boom consumistico è già in piena crisi  e recessione economica. La Tessera e l’acquisto del biglietto d’ingresso sono un tutt’uno e a prezzi più che popolari. La tessera poi, ha la funzione di qualificare permanentemente il contatto con gli spettatori, oltre ad eludere la censura grazie allo stratagemma associativo. Sul frontespizio del testo  stampato su una sorta di giornalone tipo quotidiano, messo in vendita al seguito della recita, in minuscolo  il nome dei personaggi ed interpreti: antonia, franca rame, - giovanni, dario fo - luigi, piero sciotto – margherita, anna bergamini, I appuntato ps, brigadier, becchino, vecchio: franco ferri – II appuntato ps: sandro pipinato – carabiniere: alfonso santagata –  disegni di Jacopo fo. Ma l’ingiuzione di sfratto rimane. Il trionfo non conta. Si consuma sino in fondo da parte dell’Amminsistrazione quello che oggi non è difficile definire un atto palesemente reazionario di ingiustizia politica. Di violenza e censura di portata nazionale ed internazionale. Dato che, tra le altre cose, sin da subito alla Palazzina Liberty si susseguono ospitalità di compagnie di chiara fama, tipo il Leaving di New York, o concerti di cantanti famosi e gruppi meno famosi, ma altrettanto importanti per la realizzazione di un concetto nuovo di cultura, autentica partecipazione dal basso alla vita civile. Nei pochi anni alla Palazzina saranno prodotti spettacoli straordinari come “Non si paga, non si paga!”, “Tutta casa letto e chiesa”, “Il Fanfani rapito”, “La marijuana della mamma è la più bella”. Inoltre è il punto di riferimento costante di un fitto dialogo e dibattito. Come  risulta dall’elenco dei nomi dei partecipanti e aderenti ai tre giorni del primo convegno sulla cultura organizzati il 13, 14, 15 giugno 1974: “ Nel complesso al convegno sono presenti ‘produttori culturali’ attivi oggi in Italia, nell’intero arco di schieramento che va dai progressisti a coloro che si pongono su un terreno rivoluzionario ‘al di fuori o dentro le maglie del sistema’. Gli stessi caratteri presenta la partecipazione dei ‘produttori culturali stranieri”. Dai Cahiers du Cinéma a Liberation, dal manifesto a Re nudo, dal Gruppo della Maddalena a Lotta Femminista, da Cesare Zavattini a Umberto Eco, Bernad Dort, Jori Evans, Giorgio Gaber, Pier Giorgio Bellocchio, Corrado Augias, Guido Crepax, Elvio Facchinelli, Giorgio Bocca, Martin Karmitz, Sebastian Matta, Bernardo Bertolucci, José Guinot, Mario Monicelli, Pio Baldelli, Bernardo Bertolucci” e tantissimi altri personaggi e associazioni, per realizzare un “aperto confronto di esperienze: esperienze di ‘produttori culturali, dall’autore al regista, dal pittore all’architetto. Dal musicista al cantante, allo scrittore, ecc.” Il tutto a pochi giorni dalla bomba fascista di Piazza della Loggia di Brescia, dove si risponde col terrorismo alle manifestazioni che stanno realmente cambiando la struttura del paese. Il Collettivo la Comune diretto da Dario Fo lascia al complete Milano e si reca a Brescia, dove interviene con lo spettacolo Brescia, 21 giugno ’74, recitato in presenza di migliaia di persone.  Oggi è difficile, forse impossibile  ritracciare e intendere a pieno l’intensa complessità del teatro di Dario Fo e Franca Rame in quegli anni. La dinamica del dialogo tra scena e spettatore è frutto di un teatro buffo terribilmente serio. Né di certo bastano le riprese video degli spettacoli girate dalla RAI proprio alla Palazzina Liberty nel 1977 – e che oggi grazie a una serie di DVD facile da reperire  permettono di averne un’idea più precisa, o forse solo meno astratta. Dato che “Abbiamo sempre detto che i nostri  documenti migliori sono gli spettacoli”, ripete instancabilmente Dario Fo . E ha perfettamente ragione. Ma qualcosa rimane, deve pur rimanere oltre l’incandescenza della recita,  per fortuna. Ed è quello che chiamiamo, o ad anni di distanza chiameremo visibilità della storia; sua controversa e belligerante resurrezione. Compreso gli occultamenti o le dimenticanze imperdonabili degli addetti ai lavori, dei chierci smemorati se non del proprio tornaconto o carrier accademica. “ È difficile parlare di Fo, perché il suo teatro è una realtà sempre in movimento, trasparente rispetto alla scena reale del paese, ricevendo dal dibattito e dallo scontro politico via via emergenti una continua contaminazione e stimoli incessanti a mutare collocazioni e allenze” ha dovuto alla fine ammettere lo stesso Paolo Puppa. Un intelletuale  che in quegli anni era fra i più accaniti e sofisticati detrattori del teatro di Dario Fo e Franca Rame. Come altri allibito, certo frastornato dal loro successo e poi dalla sua stessa definizione; se nella stessa pagina è capace di accusarli di ‘aristotelismo’ e non sa distinguere i loro spettacoli “dall’operazione deresponzabilizzante dell’industria culturale” servendosi di un’analisi di deriva semiologica e psicanalitica piú che criptica abboracciata.  Si stenta a crederlo. In verità dalla seconda metà degli anni  sessanta non sono i soli a praticare con successo un teatro ad alta valenza politica. Anche se non immediate, come capita per la maggior parte del teatro italiano di sperimentazione e ricerca. Dato che, effettivamente: “Non esite spettacolo che non si trovi inesorabilmente di fronte al problema della propria validità politica. Al dogma della rigorosa separazione di arte e politica sembra essersi sostituito il principio della loro connessione necessaria. Il rapporto del teatro con la politica diventa il punto di riferimento su cui si orienta l’intera problematica del tempo” , come scrive Claudio Vicentini in La teoria del Teatro Politico, edito da Sansoni (1981); senza  mai menzionare , neppure nell’ Indice dei nomi, quello di Dario Fo e Franca Rame o dei sette anni alla Palazzina Liberty di Milano. E anche questo rimane,  nella lista delle verità mancate di cui le future generazioni si dovranno fare carico; continuazione di attività intellettuali impudenti che si possono comprendere a pieno solo nell’ambito di quella logica espressa e documentata, con tanto di nomi date ed eventi, nel libro collettivo Il teatro di regime (Mazzotta,1976) di Franco Quadri. Un testo che andrebbe certamente ristampato, memorizzato, continuamente riletto e aggiornato. Dario Fo e Franca Rame restituiscono ufficialmente le chiavi della Palazzina Liberty in occasione del debutto della loro nuova commedia Clacson Trombette Pernacchi (14 gennaio,1981). Una farsa in due tempi in cui il protagonista Antonio, recitato da Dario Fo, operaio della FIAT, messo in cassa integrazione per il crollo del mercato dell’auto e derivati, per caso finisce col salvare la vita di Gianni Agneli. Il padrone per antonomasia. Un padrone sfigurato nel corso di un tentativo di rapimento fallito, a cura di un gruppo di terroristi pasticcioni, a cui per tragicomico errore verrà rifatta una faccia del tutto simile a quella di Giovanni, un suo operaio, interpretato da Dario Fo, marito di Rosa, interpretata a sua volta da Franca Rame. Sintesi comica e geniale della situazione politica in atto in quell momemnto in Italia e dei contenuti di un saggio famoso di Michel Foucalut, apparso alcuni anni prima. Un saggio che annunciava la trasformazione antropologica delle classi subalterne in tutto il mondo occidentale e consumista. Uno studio severo che  portava nel sottotitolo l’analisi e la trasformazione della società secondo la nuova microfisica del potere. In 34 giorni a Milano lo spettacolo Clacson Trombette e pernacchi totalizza 50.000 spettatori. La situazione e il successo di Dario Fo e Franca Rame diventa davvero insostenibile per l’Amministrazione pubblica e il Comune di Milano. Un’amministrazione che con  rancore finalmente rimette le mani su quelle chiavi e chiude definitivamente  l’autonoma gestione della Palazzina Liberty.





Walter Valeri
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