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Sagarana PERCORSI DI INSTABILITÀ NELLA LETTERATURA DELLA MIGRAZIONE ITALOFONA


Valeria Nicu


PERCORSI DI INSTABILITÀ NELLA LETTERATURA DELLA MIGRAZIONE ITALOFONA



“Il cuore non aveva né nostalgia, né dubbio, né apprensione.

Ancora per lui le cose erano intere, e tale era lui stesso.

Se avesse potuto prevedere la terribile sorte che l’attendeva

forse avrebbe trovato anch’essa naturale e compiuta, pur in tutto il suo dolore.”

(Italo Calvino, Il visconte dimezzato)
 

 

 

Sulla condizione dell’esule si è scritto molto. Condizione tragica, drammatica, estrema, eroica, dai caratteri definitivi, fatalistici e assoluti. Molto più negletta e marginalizzata è la questione migratoria contemporanea con il suo carico irrisolto di ridefinizione identitaria. Una moderna odissea che scruta e saggia i nostri limiti, chiamando in causa tutte le forze, le capacità, le energie sommerse, la sensibilità di chi la affronta in prima persona e di chi la vive di riflesso.

La migrazione oltre ad essere spostamento fisico è anche, e soprattutto, un evento simbolico che avviene nel tempo, nella mente, nella psiche. Se si prendono in considerazione gli effetti psicologici della migrazione ci si accorge come vi sia un labile confine tra disagio e patologizzazione, un’ampia zona d’ombra che è stata evidenziata sia dalla letteratura medico-scientifica sia dalla cosiddetta letteratura della migrazione.

Così scrive, ad esempio, Nora Moll nel saggio Identità dis-integrate: le narrazioni della psiche nella letteratura migrante italiana:

gli scrittori [della migrazione ci ricordano][…] che il confine tra lo stato d’animo della sofferenza/tristezza/solitudine/estraneità e le psicopatologie quali disturbi alimentari, autolesionismo, depressione, disturbi dissociativi e/o psicosi ossessive è piuttosto sottile.1

La letteratura della migrazione – trans-culturale, italofona, creola, non nativa – nell’accogliere e rielaborare i percorsi esistenziali del migrante, come la letteratura di sempre in ogni luogo, s’interroga sul dolore. Un dolore esistenziale legato al trauma da sradicamento o da reinserimento, al gioco dell’appartenenza/non-appartenenza: un disagio che impregna di sé il testo e lascia profonde stigmate.

Esiste una ormai nutrita letteratura specialistica sul disagio e sulla psicopatologia che colpisce i soggetti migranti, corpus che ha il suo antesignano negli studi sugli effetti del colonialismo dello psichiatra martinicano Franz Fanon.2 Ad oggi si contano numerose, benché scollegate, anche le iniziative di terapia e sostegno nell’ambito dell’etnopsichiatria.

Come sottolinea Natale Losi in Vite Altrove. Migrazione e disagio psichico,3 le “sofferenze d’identità” non riguardano solo i pazienti immigrati ma anche i nativi e il malessere psichico del migrante risale spesso a conflitti vissuti nell’esperienza pre-migratoria. Nonostante ciò, è innegabile però che il trauma dell’esperienza migratoria, lo shock trans-culturale acuisca la percezione del Sé mettendo in moto complesse dinamiche identitarie.

Un primo trauma è sicuramente lo sradicamento. L’individuo non è disgiunto dal contesto in cui vive, ma partecipa di una dimensione olistica. Così la migrazione si configura come quel momento in cui il corpo viene strappato al complesso organismo in cui è inserito, in cui vengono recise le autostrade relazionali, le arterie pulsanti, lasciando dietro ferite e lacerazioni cauterizzate alla meglio in un contesto di emergenza. A questo proposito lo scrittore Julio Monteiro Martins4 teorizza una migrazione come “naufragio” e “suicidio assistito”5: l’individuo, intessuto tra storia privata e immagine pubblica, nel migrare, affronta il naufragio di una rete invisibile di collegamenti affettivi e sociali, che concettualmente si avvicina non solo ad una scomparsa alla vista ma ad una morte reale come testimoniato dal lutto diffuso e oscuro che il migrante si porta dentro:

Ricordiamo che è parte della natura profonda dell’uomo dividere inconsciamente l’umanità in “vivi” e “morti”. Il migrante rientra nella seconda categoria. Rappresenta “lo scomparso” per tutti i personaggi della sua vita precedente, ma soprattutto, oscuramente, per sé stesso.6

Il migrante, infatti, secondo Monteiro Martins, nel tentativo di rinascere altrove, reincarnarsi nuovamente, deve ricorrere ad una sorta di “suicidio amministrato”: un atteggiamento radicale che è morte e metamorfosi e che rende conto dell’immane sforzo e investimento esistenziale e di energie necessarie per una tale portentosa riconversione: processo che non manca di creare fratture di natura psicologica e generare forte instabilità emotiva.

Altri ancora sono poi i disturbi che possono colpire il soggetto trans-culturale come, per citare ancora Losi, “la crisi d’identità irrisolta, la depressione e disadattamento sociale cronico.”7

 Questo intervento, però, non ha velleità socio-antropologiche, ma si propone, piuttosto, di rintracciare all’interno dei testi dei cosiddetti migrant writers più che gli effetti, le reazioni psicologiche ai complessi spostamenti d’identità, le forme metaforiche ove s’incunea il disagio migratorio, leggendo in filigrana i residui di un malessere a tratti implacabile.

Questi autori, infatti, quand’anche non tematizzino apertamente sulla migrazione, disseminano i testi di spie raccolte in un percorso che dalla semplice incertezza identitaria e difficoltà a riconoscersi e ad ottenere riconoscibilità, va fino alla scissione e allucinazione dell’io. Un excursus tra le opere, dunque, che procede per individuazione di addensamenti e nuclei tematici come la fenomenologia dell’onirico, dello spaesamento, dello sdoppiamento; un percorso che mira anche al rilevamento dei paesaggi mentali e fantasmagorie a cui questi autori danno luogo.

“L’instabilità” del titolo, per analogia con certi elementi chimici che non rimangono a lungo nella medesima configurazione, vuole rimandare a tre idee: all’idea di luogo nel senso di una illusoria sedentarietà del migrante sempre suscettibile di imminenza di cambiamento; alla psiche in riferimento alla pulsione scissionistica e disgregatrice dell’io; alla portata destabilizzante della letteratura della migrazione nei confronti delle certezze granitiche occidentali. Con il termine instabilità, in definitiva, si vuole trasmettere quella sensazione di spaesamento e di vertigine e di precarietà esistenziale che da questi testi si evince.

 

Il problema della riconoscibilità e dell’autoriconoscimento

Un primo nucleo problematico si organizza attorno all’estraneazione dell’individuo migrante a contatto con una realtà, estraneazione dovuta al fatto che nel cambiamento dell’habitat umano si passa anche ad una diversa percezione del tempo e dello spazio. Accade così che l’impossibilità del migrante di aderire ad un ambiente estraneo, privo di ricordi, si traduce in un senso costante di frustrazione e di alienazione, mentre l’instabilità anagrafica, la sensazione di clandestinità diventa sensazione di costante marginalizzazione ed esclusione dal consesso umano.

Molti testi italofoni tradiscono, infatti, in relazione ai luoghi, alla nuova casa, una sensazione di estraneità, di disorientamento, di impossibilità di autoriconoscimento:

Finestre

[…] Quando mi sveglio ansimante

nel mezzo della notte

o la mattina presto stanco e ottuso,

non so mai dove sono.

Tante volte

ho cambiato paese e città,

piume e pellame,

che non riesco a ricordare

 l’ultimo spostamento.
 

Le pareti sono sempre uguali.

Lampadari, accappatoi, tappetini

li trovo dappertutto.

Resta solo la finestra

in grado di spiegarmi

le cose.

Le cose della mia vita.[…]8

 
Oltre la paura

[…] Nina si rifugiò nella sua stanza tetra, senza ricordi e tracce di sé. Un letto, una scrivania, un armadio: i mobili di un albergo, di una prigione arredata più dell’indispensabile.[…]9

 

Ah, se mi chiamasse qualcuno stasera dalla patria

[…]Il vuoto della stanza sgombra,

il peso della nostalgia,

la pelle oscura della notte mediterranea

mi schiacciano il cervello[…].10

 
 

Come ci ricorda Remo Bodei ne La vita delle cose 11 la casa è il guscio dell’intimità così come l’ambiente, gli oggetti, i luoghi incorporano i ricordi, le aspettative, i sentimenti, diventando diretta pertinenza dell’io e simbolo che tiene insieme le schegge disperse di una vita. Gli autori citati - Julio Monteiro Martins, Irina Turcanu 12, Gëzim Hajdari 13 - al contrario, ci dicono di muri privi di memorie, privi di sé, ci dicono di un vuoto mai risemantizzato, di un universo che non ha nulla di familiare (heimlich) e che irrompe, invece, in tutta la sua forza straniante. La casa si configura, infatti, di volta in volta come luogo neutro, quasi albergo, spazio occasionale e provvisorio oppure come luogo che genera un rapporto disforico, una prigione, spazio opprimente e costrittivo.

Se pensiamo che “abitare” (da habere, letteralmente “avere consuetudine con un luogo”) condivide la radice etimologica con “abito” (habitus), inteso come “vestito”, è chiaro come in questo caso venga meno l’involucro primo della personalità, quel nido di cui si riveste il nostro corpo che è la casa e che perde la sua funzione protettiva e rassicurante nei confronti delle aggressività esterne. La casa, infatti, sempre più ambiente respingente ed inospitale, diventa impossibilità di riconoscersi, di ancorare le proprie ansie, di trovarvi requie, acuendo così il senso persistente di instabilità e di non-appartenenza. Solo la finestra-frontiera, topos ricorrente anche in un altro autore italofono Ron Kubati 14, rivela la possibilità di uno sguardo proiettivo e positivo.

Vi sono poi altri autori migranti nei quali il senso di dis-appartenenza e di marginalizzazione diventa più radicale e viene simbolizzato attraverso la figura del barbone, del senza-casa 15 e senza-nome, del diseredato. Un tema questo dell’homeless e dell’outsider che dispiega una pluralità di valenze:

Senzatetto

Dove andare

Steso

Non lacrimare

Peso

Di una vita senza nome

Senza dove e senza come

Errabondo

Nel mondo

E nel buio più profondo

Io mi nascondo.16

 
Ecatombe

[…] farfalle pubblicitarie

di negozi falliti

poveri in saldo

colf alla mano

e 3X2 nelle confessioni pasquali.17

 
Qualche volta

Qualche volta sono quello

 che gli altri scartano,

immondizia del mondo,

della società.18

 

Gli estratti citati (di Mihai Butcovan19, i primi due, di Viorel Boldis20, l’ultimo,) testimoniano una triplice alienazione: quella dello straniero sradicato, continuamente fuori posto, del poeta-clochard, ma anche del dramma dell’uomo-merce e scarto nella società dei consumi.

È chiaro qui che la figura del reietto non è sintomo solo di una marginalizzazione cronica dell’uomo-poeta e dello straniero, ma, proprio in virtù della sua esclusione dalla società e del suo continuo decentramento, si rende portatrice, come in tutta la letteratura novecentesca, di un’ottica privilegiata, di un’eversiva verità. I pazzi, i buffoni, gli emarginati,infatti, nell’essere il “fuori”, hanno una visione più lucida sul “dentro”.

Accade così che molti componimenti di Butcovan e Boldis che ruotano attorno alla tematica del permesso di soggiorno 21, da una parte tradiscono l’assillo di trovare una legittimazione, un ruolo, una collocazione per il proprio essere, e si pongono quasi come richiesta di “autorizzazione” ad esistere in una qualche forma, mentre dall’altra si ergono ad amara denuncia 22 della bugia identitaria del “noi siamo”, della trivialità delle classificazioni che, temendo la fluidità della figura del migrante, tendono ad inglobarlo e neutralizzarlo attraverso l’omologazione e la riduzione al silenzio.

Tornando al tema dell’invisibilità e dell’anonimato che genera malessere nel migrante, possiamo notare come queste siano messe in rilievo da un processo di pietrificazione, spersonalizzazione e reificazione dell’individuo così come avviene sistematicamente, ad esempio, nella poesia di Boldis:

Come una statua

Essere straniero

 è peggio che essere una statua.

Stai lì inerte, affamato e infreddolito

[…]

Gli altri nemmeno ti odiano,

ti guardano appena annoiati,

si stringono il naso

e si fanno i fatti loro.23

 

Nella voce dei migranti è dunque palpabile l’ansia per l’impossibilità di una riconoscibilità: il non riconoscersi nell’habitat forastico ma soprattutto il non riconoscersi umanità24  nello sguardo dell’Altro, essendo ormai l’individuo ridotto a scarto e costretto ad una continua deprivazione e negazione di sé.

Così nelle opere dei migranti, come sottolineato in un intervento da Fulvio Pezzarossa,25 s’intrecciano continuamente non-luoghi, non-case, non-persone26: i loro testi sono teatro di “un’umanità instabile e in fuga, costretta a rinunciare al contatto fisso col territorio”27, sono testi che fungono da cassa di risonanza di un io dolorante, io che, come “canta” Monteiro Martins, è condannato ad essere “eternamente assente dalla grazia di casa mia”.28

 

Disturbi dissociativi: sdoppiamento, moltiplicazione, allucinazione

Come già sottolineato nell’introduzione, il trauma della migrazione dà luogo a imprevedibili configurazioni e paesaggi mentali: chi sceglie di affrontare la spaesante avventura sperimenta molteplici fratture nella psiche e infinite lacerazioni nel tessuto identitario. Di fronte a un radicale bouleversement interiore la coscienza di sé si scinde generando due mondi separati, incomunicanti e incompatibili. Come spiega Losi, essere profugo o migrante significa “trascinarsi dietro un lunghissimo, forse interminabile, «doppio»” 29 ma anche accettare in sé “l’esplosione di una miriade di unità e sottounità multiple”.30

La dissociazione dell’io pone spesso di fronte a un insanabile aut-aut. Così scrive lo scrittore francofono Tzvetan Todorov:

La mia doppia appartenenza produceva un solo risultato: ai miei stessi occhi caricava di inautenticità ciascuno dei miei discorsi, perché ciascuno di essi non poteva che corrispondere alla metà del mio essere, oppure io dovevo essere doppio.31

A tal proposito uno degli autori italofoni che più tematizza sulla figura del doppio come proiezione di un conflitto interiore irrisolto e come schizofrenica impossibilità di ricomposizione del Sé è proprio Monteiro Martins:

Vivere in esilio

[…] Ci sarebbe un me stesso

ad aspettarmi

nella terra di

partenza.
 

Inutile attesa,

disguido.

Se c’incontrassimo oggi

non

potremmo

riconoscerci.

Una vita è marmo di Carrara,

l’altra è sabbia.

 

Un uomo si pietrifica

Mentre l’altro si sfalda. […] 32

 

Come in questo componimento, anche nel racconto inedito del 2011, Il punto cieco, partendo dall’esperienza autobiografica di esiliato forzato, lo scrittore dà vita ad un proprio alter ego, immaginandosi la scissione al momento della partenza dal proprio paese. È nel “punto cieco”, epifanica discontinuità spazio-temporale, che le due parti imboccano due strade diverse: una avrà un destino più umile ma anche più pieno nel nativo Brasile mentre l’altra un destino di realizzazioni professionali nell’agiata Toscana, destino che è però serpeggiato da una sotterranea inquietudine:

Nel momento in cui il timbro del poliziotto brasiliano batté con un colpo sordo la carta del passaporto, Julio Cesar cessò di esistere per sempre.

Davanti alle vetrine scintillanti e ai balconi variopinti del Free Shop c’era un perplesso Julio, più straniero che mai, senza curiosità, senza soldi da sprecare in oggetti di lusso e senza più il Cesar del suo antico nome (e comunque Julio Cesar sarebbe stato trovato troppo magniloquente per gli standard europei).

[…] Si sono separati a quel bivio irreversibile, Julio e Cesar, molti anni fa, davanti alla dogana dell’aeroporto, e poi ognuno ha seguito la propria strada, sempre più inaccessibile allo sguardo dell’altro.

Julio e Cesar, due vite. Fino a che la morte, nel suo clemente oblio, li ricongiungerà in qualche eternità.

Cioè, se mai riuscirà a farlo. Se le eternità non saranno diventate a quel punto anch’esse plurime e intraducibili.33

 

La ricorrenza del doppio nella letteratura occidentale, come teorizzato da Otto Rank, 34 è incarnazione del sentimento di perdita: tanto è insopprimibile il dolore che gli si dà corpo, creando attraverso le parole, un individuo autonomo, alternativo al proprio io. Su di lui si proiettano sicuramente le scelte mai compiute. Il doppio è poi anche personificazione del senso di colpa: Monteiro Martins, come egli stesso ha spiegato,35 è perseguitato nei sogni dalle presenze familiari, ormai trapassate, che gli rimproverano l’essersene andato. Non a caso questo suo sentimento prende la via autopunitiva visto che s’immagina rimasta in patria la sua parte migliore.

Il doppio, dunque, funge qui da meccanismo di “scarico di responsabilità” e da valvola di sicurezza per non farsi sopraffare dal dolore e dallo struggimento del ricordo.

Effetti come ancora più inquietanti si hanno in un altro racconto inedito che tematizza sul tema del ritorno in patria, dal significativo titolo Rimpatrio. 36 In esso Monteiro Martins spinge all’estremo la rappresentazione delle devastanti conseguenze e lacerazioni che feriscono la psiche del migrante e che vi lasciano segni invisibili e indecifrabili in superficie, segni che si perdono nel volgere di un’apparente normalità.

Al rientro nella propria patria (o è solo un ritorno sognato?), un paese dai contorni sfumati che trasfigurano nel fantastico, Jamil, apprende l’amaro cambiamento dei luoghi della propria infanzia in cui “niente [è] al posto giusto, da nessuna parte, qualsiasi cosa uno [cerchi]”. L’immersione del protagonista nella lettura di un libro è l’occasione per essere proiettato in una dimensione al confine tra sonno e veglia, straniamento e allucinazione, sempre più assorbito in un groviglio d’inconscio e di sogni che si intrecciano come liane. Egli vaga tra squarci di scene deliranti che mescolano presenze familiari con il bizzarro, mentre è sempre più preso dall’assillo di un’imminente ritorno in patria, da una salvezza ormai inutilmente invocata:

Sesta scena:

Eravamo ospiti nella villa circondata da quel terreno dove si bruciavano uomini vivi. Non mi ricordo come o perché eravamo finiti lì, nella fattoria degli assassini, dopo la notte del cimitero. Chantal, o Esther, non parlava quasi mai, travolta dai suoi pensieri, e io ero nel panico, perché il giorno dopo partiva l’aereo che mi avrebbe riportato finalmente a tutto quello che ero, o credevo di essere, e mi balenava in testa l’ammonimento della funzionaria della compagnia, che se per caso lo perdevo non ce n’era un altro, non avrei più potuto tornare a casa. Quell’aereo mi sembrava ora l’ultima scialuppa di salvataggio, mentre ero ancora lì, cretino che sono, chiuso in quello squallore con quella gente sordida, e non capivo perché non trovavo le forze per andarmene subito, per fare una corsa all’albergo, e da lì all’aeroporto. […] Non capivo me stesso, le mie gambe non mi ubbidivano, ed era tutto inutile, una catastrofe iniziata dalla voglia di mangiare del cibo vero, come ai vecchi tempi, rivelatasi poi una mela avvelenata, o meglio ancora, la mela di Adamo, la mela interdetta.

Quando quell’aereo fosse decollato senza di me avrei perso per sempre il paradiso e me lo sarei meritato.

Quella maledetta bistecca era stata più di una bistecca, la chiave del vortice, del ritorno impossibile. Non potevo non tornare, e al contempo non potevo tornare in un mondo che non esisteva più. Il risultato di questa equazione è zero, il vortice di cui parlavo.

Chantal, la bistecca, la città, erano tutte la stessa e sola cosa, che cominciavo a capire solo ora, troppo tardi, ahimè!

Un cane è passato dinanzi alla villa con in bocca un braccio umano, trovato forse tra la cenere di uno di quei falò. 36

 

In questo racconto la presenza costante di elementi riferibili ai temi del cibo e della morte (cimitero) tradisce come, trattandosi di un ritorno ormai impossibile, siamo sicuramente nel campo dell’elaborazione freudiana del lutto, simboleggiata dalla difficoltà di digerire i propri “morti”:

 

Allora gli tornò alla mente un’antica leggenda africana, letta da qualche parte: se uno se ne va e compie un lungo tragitto, può accadere che incontri al mercato di una lontana città individui che a casa loro sono morti e lì si sono ritirati per restare sconosciuti. 37

 

La presenza invece dei topoi dell’acqua, della caverna, elementi archetipici femminili, ci dicono dell’unico ritorno praticabile per il migrante: quello della re-immersione nel flusso sotterraneo del proprio essere, della regressione amniotica all’infanzia, alla figura materna e quella del recupero simbolico degli affetti familiari.

È un racconto questo che è summa della fenomenologia del disagio sociale migrante: vi si manifestano contemporaneamente la straniante irruzione dell’unheimlich, la paura della perdizione di sé, la difficoltà a riconoscersi , la scissione e la rottura interna degli equilibri ancoranti, il sogno e l’incubo, l’impossibilità del ritorno, la dis-integrazione dell’io, la deriva di brandelli scollati di Sé, ultime vestigia di un’integrità definitivamente compromessa.

 
Conclusioni

Quando rifletto sulla condizione del migrante penso alla metafora dell’uomo che possiede un grande mazzo di chiavi. Essere straniero è come avere le chiavi di più mondi senza sentirsi davvero a casa da nessuna parte.

Le chiavi delle culture che si acquisiscono nel tempo permettono di accedere a molti spazi concettuali, dove si può entrare ed uscire liberamente, sostare per un po’, ma non abitarvi, non stanziarvisi. Lo smarrimento identitario a cui si va incontro nel traghettamento interculturale ricorda, per ritornare alla metafora abitativa, una fuga prospettica di stanze, una vertigine di specchi infranti, un labirinto di dis-appartenenze, di deformazioni della psiche. Così la letteratura della migrazione si fa portatrice di macerie, di muri sbilenchi, di impercettibili incrinature mentre l’individuo in assenza di una casa-patria sceglie di spazializzare la parola, di adottare come abitazione la scrittura.

Penso qui all’epilogo di un testo classico ormai come Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous 38, testo-emblema della prismaticità dello straniero all’interno di una società che interpreta il migrante secondo un’angolatura sempre diversa fino a spingerlo alla disgregazione identitaria e dis-integrazione del Sé:

 

Ogni tanto mi prende il dubbio quando penso che passo per buono agli occhi di tutti. Ma che ne sanno? Amedeo potrebbe essere una semplice maschera! Io sono un selvaggio animale che non può abbandonare la sua natura d’origine. […] Shahrazad c’est moi? Lei racconta e io ululo. Entrambi sfuggiamo alla morte e ci ospita la notte. Narrare è utile? Dobbiamo raccontare per sopravvivere. […] Insegnami, mia adorata signora, l’arte di sfuggire alla morte. […]”39

 

Lakhous scioglie il proprio essere nell’arte del narrare fino a diventare pura percezione, flusso narrativo, fino a lasciarsi esistere regressione. Un processo questo che riguarda molti scrittori e che ha una pars destruens ed una costruens. Lo scrittore migrante, provato nella propria personalità e nella propria psiche, incapace di restituirsi un’immagine integra di sé, sceglie, infatti, di trasferire le proprie membra, il proprio edificio esistenziale e ricostruirsi corpo poetico, sostanza inafferrabile, al riparo dal tempo e dallo spazio. Egli sceglie di ricrearsi nel potere del simbolo. Così, infatti, per molti la poesia, sede di mediazione e di rapprendimento dell’io con il mondo, diventa la nuova patria, il corpo.

Il migrante trova una nuova sede identitaria nella scrittura. Se infatti l’esperienza migratoria sfalda e allenta le fibre esistenziali, scrivere aiuta, per dirla con Losi,40 a ri-narrare, ri-intrecciare, ri-cucire la trama spezzata e dispersa. Si chiama potere terapeutico della parola, della scrittura, del simbolo perché siamo fatti di storie e le “storie che ammalano” possono anche diventare “storie che curano”.41

 
NOTE:
 

1. N. Moll, Identità dis-integrate: le narrazioni della psiche nella letteratura migrante italiana inTrattato italiano di psichiatria interculturale e delle migrazioni,  P. Bria, E. Caroppo, M. Colimberti, P. Brogna (a cura di), Roma, Società editrice Universo 2010, p. 390.

2. F. Fanon, I dannati della terra, Torino, Edizioni Comunità, 2000; Pelle nera maschere bianche, Milano, Tropea, 1996; altri testi di riferimento sono N. Losi, Vite altrove. Migrazione e disagio psichico, Roma, Borla, 2010; M. Grasso, Disagio comunicativo, culturale e psichico nella migrazione: sistemi familiari ed educativi, Palermo, La Zisa, 2000; E. Caroppo, M. Colimberti, P. Brogna (a cura di), Trattato italiano di psichiatria interculturale e delle migrazioni, Roma, Società editrice Universo 2010; Per prospettiva integrata con l’analisi dei testi letterari i saggi di P. Cardellicchio,letteratura e identità nell’esperienza del migrante, reperibile all’indirizzo http://www.babelonline.net/home/002/editoria_online/cinema/cardillicchio.pdf; M. Cristina Mauceri, M. Grazia Negro, Nuovo immaginario italiano:italiani e stranieri a confronto nella letteratura italiana contemporanea, Roma, Sinnos, 2009, pp. 273-297; N. Moll, Op.cit., p.387-398;  S. Camilotti, La letteratura della migrazione in lingua italiana e i suoi riflessi sul concetto di identità culturale: una casistica provvisoria di testi, in F. Pezzarossa, I. Rossini (a cura di), Leggere il testo e il mondo. Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, Clueb, 2011, pp. 219-229.

3. N. Losi, Op.cit.,pp.16,52.

4. J. Monteiro Martins (Brasile, 1955): scrittore di origini brasiliane, personalità di spicco in campo letterario e politico, dopo numerosissime pubblicazioni in Brasile, in Italia, dove vive dal 1995, ha pubblicato Il percorso dell’idea (1998), Racconti italiani (2000), La passione del vuoto (2003 ), madrelingua (2005) e L'amore scritto (2007), Non siamo in vendita – voci contro il regime (con A. Tabucchi, B. Bertolucci, D. Fo, E. de Luca e G. Vattimo, 2001). Stabilitosi in Toscana, insegna Lingua e traduzione portoghese all’Università di Pisa e scrittura creativa nel ambito del Master della Scuola Sagarana, oltre ad essere direttore della presente rivista.

5. Intervista con Julio Monteiro Martins: a Laura Barile in Letteratura migrante/letteratura mondiale, in Scrittura e migrazione. Una sfida per la lingua italiana, a cura di Laura Barile, Donata Feroldi e Antonio Prete, Siena, Edizioni dell’Università, 2009, pp. 39-54

6. Ibidem.

7. N. Losi, Op.cit., p. 52.

8. J. Monteiro Martins, Finestre in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, M. Lecomte (a cura di), Firenze, Le lettere, 2006, p. 137.

9. I. Turcanu, Oltre la paura in Lingua madre duemilaundici, D. Finocchi (a cura di),  p. 248.

10. G. Hajdari,  Ah se mi chiamasse qualcuno stasera dalla patria in Maldiluna, Nardò, Besa, 2005,  p.228.

11. R. Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009, p.50.

12. I.Turcanu (Romania, 1984): scrittrice e pubblicista di origini romene, in Italia, dove vive dal 2001, ha pubblicato i romanzi Alia, su un sentiero diverso (2008), La pipa, Mr. Ceb e l’Altra (2010) La frivolezza del cristallo liquido (2011). Ha inoltre curato l’antologia Ritorno (2013).

13. Gezim Hajdari (Albania, 1957): poeta di origini albanesi, in Italia, dove vive dal 1992, ha pubblicato numerose sillogi Ombra di cane (1993), Sassi controvento (1995), Antologia della pioggia (2000), Erbamara (2001), Stigmati (2002), Spine Nere (2004), Maldiluna (2005), Poema dell'esilio (2005), Peligòrga (2007), Corpo presente (2011), Nur. Eresia e besa (2012).

14.R. Kubati, M, Nardò, Besa, 2002.

15. Sulla figura del migrante “senza mobili” cfr. Sayad per il quale è un paradosso immaginare un immigrato con una casa in quanto, come nomade, è sempre percepito solo come “corpo senza beni”: A.Sayad, Immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio, Verona, Ombre corte, 2008, p. 56.

16. M.M. Butcovan, Senzatetto in Dal comunismo al consumismo, fotosafari poetico esistenziale romeno-italiano, Ferrara, Linea BN Edizioni, 2010, p. 92.

17. Ivi, p.48.

18. V. Boldis, Qualche volta  in Da solo nella fossa comune, Bologna, Gedit Edizioni, 2006, p. 8.

19. M. M. Butcovan (Romania, 1969): scrittore di origini romene, in Italia, dove vive dal 1991, ha pubblicato il romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato (2006), e le raccolte poetiche Borgofarfalla (2006), Dal comunismo al consumismo. Fotosafari poetico esistenziale romeno-italiano (2009).

20. V. Boldis (Romania, 1966): scrittore di origini romene, in Italia, dove vive dal 1995, ha pubblicato le raccolte poetiche Da solo nella fossa comune (2006), Rap…sodie migranti (2009), 150 grammi di poesia d’amore (2013), oltre al racconto Il fazzoletto bianco (2010)

21. Come, ad esempio, Permesso di soggiorno, prego, Regole in Borgofarfalla, San Giovanni in Persiceto, Eks&Tra, 2006, pp. 48, 73; Permesso di soggiorno, Primavera italiana, Scuola per stranieri in Dal comunismo al consumismo…, cit., pp. 21, 44, 53.

22. L’autore si definisce “l’osservatore rumeno”.

23. V.Boldis, Come una statua in Op.cit., p. 27.

24. Cfr. P. Cardelicchio, Op.cit., p. 7.

25. F.Pezzarossa, Una casa tutta per sé. Generazioni migranti e spazi abitativi in Certi confini. Sulla letteratura italiana della migrazione, a cura di L. Quaquarelli, Milano, Morellini Editore, 2010, p. 64.

26. A. Dal Lago, Non-persone: l’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999.

27. F.Pezzarossa,  Op.cit., p. 62.

28. J. Monteiro Martins, Vivere in esilio in La grazia di casa mia, raccolta in corso di stampa.

29. N. Losi, Op.cit., p. 50.

30. Citazione da Magris in N. Losi, Op.cit,, p. 22

31. T. Todorov, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Roma, Donzelli, 1997, p. 8.

32. J. Monteiro Martins, Vivere in esilio in La grazia di casa mia, raccolta in corso di stampa.

33. J. Monteiro Martins, Il punto cieco, inedito, 2011.

34. O. Rank, Il doppio: uno studio psicanalitico, Milano, SE, 2001, pp. 87-100.

35. J. Monteiro Martins, incontro “Le figure della distanza nella letteratura migrante” del 02/05/2013 nel contesto della rassegna “Macerata racconta”.

36. J. Monteiro Martins, Rimpatrio, inedito.
 
37. Ibidem.

38. A. Lakous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, Roma, Edizioni e/o, 2006.

39. Ivi, p.129.
 
40. N. Losi, Op.cit., p. 16
 
41. Ivi, p. 14.





Valeria Nicu

Valeria Nicu: Nata in Moldavia, all’età di 14 anni sono giunta in Italia insieme alla mia famiglia. Diplomata in lingue straniere mi sono poi laureata in Lettere presso l’Università di Macerata con una tesi su Margaret Mazzantini. In procinto di laurearmi in Filologia classica e moderna con una tesi sugli scrittori rumeni italofoni, sono docente di italiano per stranieri e traduttrice presso l’Accademia Internazionale di Ascoli Piceno oltre che interprete e traduttrice per il tribunale locale.





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