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Sagarana CONFESSIONE ANGELICA


Antonio Prete


CONFESSIONE ANGELICA



Noi non abbiamo una lingua, il nostro alfabeto ha solo lettere di luce, la nostra sintassi è il silenzio. La lingua che ora uso non è la nostra lingua, è la vostra lingua umana, una delle numerose lingue umane in cui si è trasformato, decadendo, il silenzio delle origini. Ricorrere a questa lingua è per me come balzare da una nuvola bianca in un fiume limaccioso, come spostarmi dal pieno e trasparente intendimento alla opacità di un pensiero che per dirsi ha bisogno di parole, di parole marcescibili e povere. Rinuncerò, dunque, alla musica, che nel nostro mondo corrisponde alla vostra lingua, e mi affiderò a sequenze di suoni non armoniosi e tuttavia necessari. Non ho scelta, se voglio che questa mia confessione giunga a qualcuno di voi. Se voglio raccontare del confine al quale sono pervenuto, dopo che per millenni ho fatto esperienza dell’intelligenza angelica e ho partecipato alla corale glorificazione di Lui, principio e fine dell’universo (ho detto per millenni, e so quanto impropria è questa unità temporale per una condizione dove l’esistenza non ha misura, e l’illimite è qualità che definisce il tempo come lo spazio).

Nulla mi accadde nel corso degli eventi che separarono violentemente parte della nostra luminosa comunità dal Cielo, eventi che voi uomini definite col nome di caduta e spiegate come conseguenza di una ribellione. Di fatto, quella non fu vera ribellione, ma consapevolezza che l’Uno era artificiosa celebrazione del sempre uguale, dell’assoluto, dell’identico, e che il doppio, cioè l’alto e il basso, l’eterno e il transitorio, la luce e le tenebre, erano figure più consentanee alla forma dell’universo, al suo ritmo, alla sua apparenza. E non fu neppure una vera caduta, ma soltanto dislocazione di un punto di vista, germinazione di un’altra possibilità. Ad ogni modo io (nel pronunciare il più abusato dei vostri pronomi sento quanto esso sia debole nel definire una singolarità la cui radice è nell’appartenenza e nel coro), io, dicevo, fui tra quelli che, pur comprendendo l’importanza dell’apertura e della separazione, non vollero impoverire il coro, non vollero attenuare la musica della preghiera, né sottrarre ai silenzi che abitavano quella musica la contemplazione, e con essa la pienezza della beatitudine. Restai, insomma, con i celesti, e in questo stato ho vissuto tutto quel tempo che voi chiamate evoluzione dell’universo, e anche quel tempo che voi chiamate storia della Terra, e della civiltà. Ma ora sono giunto sulla linea di un confine e devo scegliere una nuova condizione. A questa congiuntura sono pervenuto perché ho privilegiato nella preghiera la musica più che la lode, nel silenzio il vuoto più che l’attenzione. E nella contemplazione ho fissato il mio sguardo interiore sulla bellezza più che sulla verità. Insomma anch’io nel corso dell’esistenza mi sono spostato fuori dal centro, mi sono avventurato al margine e alla superficie, dell’essenza. Diciamo che sono rimasto abbagliato, e conquistato, dall’apparenza. Nelle mie peregrinazioni ho contemplato la gloria sconfinata dei mari nelle ore del tramonto, i cieli di pietra sopra i deserti, il formarsi e disfarsi delle nuvole sopra le fughe dei monti e sopra le foreste. Ho visto transitare innumerevoli stagioni, ognuna con la sua differenza di luce, di suono, di pioggia, con il suo particolare modo di attendere la successiva stagione. Di ogni stagione ho sentito il respiro, accarezzato l’anima: del vento e delle ombre distinguevo tutti i gradi. Ma ho anche visto il dolore del vostro mondo animale, la disseminazione della crudeltà e la diffusa stupidità nella vostra specie umana.

Ora, sulla linea di questo confine dove l’amore per l’apparenza mi ha condotto, devo scegliere una delle forme nelle quali voi umani avete compendiato e raffigurato la nostra natura: se ho amato l’apparenza, in essa deve svolgersi la mia scelta, la mia metamorfosi. Le due forme congiunte in cui voi ci avete rappresentato sono quella animale e quella umana: il volo e il volto, le penne e lo sguardo, le ali e il canto. In realtà c’è anche un terzo elemento nella vostra raffigurazione angelica: lo spirituale, la relazione con il celeste, l’appartenenza al divino. Ma in questa direzione che, isolata, sarebbe solo privazione di forma, mi è vietato il passaggio. A questo punto, dei due restanti mondi che si offrono alla mia metamorfosi è quello dell’animale che avverto più prossimo al mio sentire. Perché la bestia tiene ancora allo stesso tempo dell’enigma, dell’innocenza e dello stupore. Ed è capace di un pensiero cui gli uomini non possono pervenire, un pensiero che, privo di lingua, si alimenta di un assiduo dialogare con tutte le forme della natura, privo di retorica, conosce la prossimità con l’anima delle cose, privo di Io, avverte quel legame tra singolarità e appartenenza che voi uomini non riconoscete o vi sforzate di cancellare. Non ho ancora scelto in quale forma animale trasferire la mia natura, in quale specie. Potrò essere un uccello dalle grandi ali bianche o iridate, ma questo ricorderebbe troppo da vicino le vostre raffigurazioni angeliche, o potrò diventare una pantera, un capriolo, una tigre, un delfino o una delle innumerevoli creature animali che popolano la terra e il mare. Accetterò il dolore e la ferita che stanno dentro questo passaggio, scivolerò per necessità e quasi con desiderio nella condizione mortale, anche a voi comune, ma avrò la consolazione di restare comunque al di qua di quella superficie del sentire e di quell’egoismo dell’agire che è condizione diffusissima tra voi uomini.

Questa confessione, esposta nella vostra lingua, ha un solo scopo: far sapere come tra le specie animali quella umana è ormai priva di ogni richiamo. È vero, nel nostro mondo angelico è accaduto talvolta di subire la fascinazione umana: qualcuno del mio coro nel passato è sceso tra di voi e tra voi è rimasto, attratto dal profumo di un corpo femminile. Ma ora a voi guardiamo con indifferenza, dalla noia del vostro mondo cerchiamo anzi di proteggerci. E tuttavia, sia io sia quelli giunti al mio stesso confine, alla mia stessa scelta, non disperiamo di potervi un giorno incontrare. Sarà il tempo in cui, deposta infine la pretesa superiorità del vostro genere umano, e appresa dagli animali la forma profonda del pensiero, sarete anche voi pronti per la metamorfosi.







Brano tratto dal libro L’ordine animale delle cose, Nottetempo editrice, Roma, 2008.




Antonio Prete

Antonio Prete (Copertino, 1939) è un critico letterario, insegnante e scrittore italiano.





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