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Sagarana DENTRO


Sandro Bonvissuto


DENTRO



(…) In carcere le giornate non si capiscono ma si sentono; ti alzi dal letto e avverti che nell’aria, oltre al consueto sospetto di vivere dentro una scatola di ferro, c’è qualcosa di diverso da ieri. Così ti metti in un angolo e aspetti di capire cosa sia. Sperando che non si tratti di qualcosa di brutto.

Una mattina i secondini ci dissero che quel giorno saremmo potuti andare a votare per la tornata di elezioni politiche nazionali in corso nel nostro paese. L’amministrazione dell’istituto aveva anche predisposto i seggi al pianoterra. Inizialmente mi sembrò una cosa, se non buona, almeno innocua. Babba però non sarebbe stato coinvolto, perché non aveva diritto di voto; per lo Stato italiano – sotto quel profilo – non esisteva. Anche Antonio non avrebbe votato, visto che aveva perso la facoltà di farlo. Per lo Stato italiano lui invece era esistito, ma ora non esisteva più. Così, indispettito da quelle circostanze, decisi che per solidarietà nei confronti dei miei compagni di cella non avrei votato nemmeno io. Antonio mi disse che sbagliavo, che il voto era una cosa importante. E c’era stata gente nel passato che aveva combattuto ed era morta per consentire a tutti di votare. Sapevo quanto avesse ragione. Ma il rispetto nei confronti dei miei compagni mi era sembrato più importante del rispetto di quel sacrosanto principio della grande democrazia occidentale. Antonio mi chiese di andare lo stesso. Pure Babba m’invitò a farlo, spiegandomi a gesti che comunque almeno sarei uscito una volta in più, poco importava per fare cosa. E questa motivazione mi sembrò molto più convincente dell’altra. Visto che insistevano tutti e due, e se non fossi andato mi avrebbero reso il resto della giornata impossibile, chiamai le guardie perché mi aprissero.

Una volta in corridoio, però, mi accorsi che in giro per fare quella cosa c’ero solo io. Anche per le scale. Anche nella sala dei seggi. Evidentemente nessuno in sezione poteva più votare o forse nessuno di quelli che stavano lì aveva voglia di farlo. Mi parve un grande onore che avessero messo su tutta quella struttura soltanto per avere il mio voto. Mi sentivo un privilegiato. Come quei capi di Stato che, se non possono andare a votare perché magari hanno l’influenza, allora la Repubblica italiana porta i seggi direttamente a casa loro.

Dopo che gli scrutatori mi ebbero dato schede e matita mi ritirai nella cabina. Sulle schede c’erano tutti i simboli dei partiti. Come sempre. Ma in quell’occasione mi sembrarono infinitamente più ridicoli del solito. Chissà perché la politica si era interessata a noi quel giorno. Il seggio elettorale era l’unica cosa appartenente al mondo esterno che fosse riuscita a entrare nel penitenziario. Non c’era riuscito nient’altro. Ma quella doveva essere una cosa più forte di qualsiasi altra. Perché era riuscita a portare lì dentro scatole, scrutatori, cabine elettorali. Senza che l’avesse chiesto nessuno. Quando invece, in certi carceri, c’erano sezioni dislocate in alto dove non arrivava l’acqua. E c’erano compagni che erano stati rinchiusi d’estate e sei mesi dopo, d’inverno, stavano ancora con la stessa maglietta a maniche corte con la quale li avevano arrestati, senza che l’amministrazione fosse riuscita a fornire loro nemmeno una felpa. E quando finiva la bomboletta del gas c’era chi si faceva il caffè bruciando le pagine arrotolate del giornale. Questo perché per ogni cosa bisognava fare “la domandina”, per poi puntualmente vedersi recapitare una cosa diversa da quella che avevi chiesto, oppure magari proprio quella ma nella misura di una metà o di un terzo, quando ormai non ti serviva più e ti eri pure dimenticato di averne fatto richiesta. Quel giorno invece quello spiegamento di forze, solo per fare in modo che io potessi esprimere il mio voto. Tutto ciò non doveva esser stato fatto per me, visto che di me e di quelli come me non importava niente a nessuno. Doveva esser stato fatto nell’interesse di qualcun altro. E questo qualcun altro erano i partiti, i cui simboli erano disegnati sulle schede che avevo in mano, e i loro candidati. Questo pensavo. Il mio voto non era più una cosa importante per me, come credeva ingenuamente Antonio, era una cosa importante per loro.

Era assurdo nelle nostre condizioni votare per la composizione del Parlamento della Repubblica italiana. Era come votare per le elezioni di un certo paese mentre si vive in un altro. Non diversamente da quel che succede ai cittadini all’estero, appunto. E non c’è ragione di esprimere preferenze politiche riguardanti un paese nel quale non si vive. Sarebbe stato più ragionevole se ci avessero chiamato a votare per eleggere un nuovo direttore del carcere, o della sicurezza, cioè coloro i quali erano effettivamente i nostri governanti. Chiunque fosse diventato presidente del consiglio, per noi non avrebbe fatto alcuna differenza. Decisi quindi che non avrei votato. Preferendo rimanere uguale agli altri che stavano dentro. Ringraziai col pensiero quanti erano morti perché tutti potessimo votare, ma le cose dovevano essere andate molto oltre le loro intenzioni: non avevamo fatto in tempo ad acquisire il voto come un diritto che già era diventato un dovere. Eravamo di nuovo sudditi, come prima di cominciare la trafila del voto democratico.

Oggi so perché la sorte dei detenuti non interessa a nessun politico: perché i detenuti mediamente non votano più.

 
 

Deve essere orribile visitare un amore detenuto, o detenuta, fra gli sguardi degli altri. Mi avevano raccontato che nei carceri di altri paesi d’Europa si potevano vedere e frequentare gli affetti, familiari e non, in assoluta intimità. In locali destinati proprio a questo, senza agenti penitenziari che ti stavano sempre a guardare. Così, dentro, c’era un tale che era ben informato e andava in giro dicendo che il suo più grande desiderio era quello di essere detenuto in Norvegia.

Certo in Norvegia ci sarebbe anche potuto andare a lavorare, pensai, senza dover necessariamente essere detenuto. Poteva trasferirsi lì con la famiglia, magari. Ma tutto ciò costituiva un’ipotesi che lui non era nemmeno più in grado di prendere in considerazione. Questo perché, se sei stato sempre un fuorilegge, delinquere di fatto è la tua professione, che hai imparato pazientemente, come un apprendista fa con un mestiere, in quel laboratorio del crimine che corre parallelo alla vita normale, negli stessi posti, come nelle stesse città.

Il carcere è pieno di gente così, è lì che li ammucchia il mondo. Fa impressione vederne così tanti insieme. Viene da pensare che sarebbe meglio lasciarli distribuiti in mezzo agli altri, perché per trovare una pecora nera in un gregge di pecore bianche è normale, ma trovarsi davanti a un gregge fatto di sole pecore nere è invece qualcosa di terribilmente anomalo. Assurdo. Prendere solo soggetti come questi e rinchiuderli in un luogo di concentramento è una reazione di rigetto, ha a che fare con il rifiuto nei confronti di coloro che compongono la popolazione carceraria. Quello stesso rifiuto che porta a concepire strutture decentrate per giovani o, peggio ancora, per anziani.

Ma i carceri sono luoghi separati davvero, da cui questa gente uscirà solo per tornare dentro. La galera è veramente la cosa più brutta che ti può capitare da vivo, è il punto più basso di un’esistenza. Un buco nero.

Quando eravamo ragazzi, c’era sempre qualcuno pronto a dar un’occhiata a quelli fra noi che esageravano, a controllare cosa facessero, dove fossero, e c’era sempre qualcuno pronto ad andarli a prendere per riportarli a casa. Solo una collettività può sostenere l’impatto di un soggetto deviato. Da ragazzini dicevamo che questi erano persone fatte così: non sapevano vivere senza rischiare in continuazione di morire.

 

Una delle cose più assurde che succede a chi sta in carcere è che il detenuto comincia pian piano ad assomigliare al suo reato. Ed è strano che accada, perché detenuto e reato non sono certo la stessa cosa; uno è un uomo, l’altro è la sua colpa. Invece lì s’innesca un meccanismo in base al quale l’uomo finisce per assumere tratti comuni a tutti quelli che hanno commesso il suo stesso reato, come se quella somiglianza fosse un’emanazione del reato stesso. Forse questo accade per via del fatto che in carcere si parla solo con avvocati, magistrati e guardie penitenziarie, cioè solo con gente che parla della tua colpa. Così lei diventa più importante di te. Ti sovrasta. Ti domina. Attira consenso e favore, o disprezzo, o viceversa rispetto. E alla fine tu non conti più niente, conta solo lei. Ne sei il solo portatore. E la servi come uno schiavo fa con il suo padrone.

In cortile guardavo gli altri passare e cercavo d’indovinare, osservandoli, quello che avevano fatto. Mani piccole, sguardo schivo, incedere un po’ appesantito dalle tante cose da ricordare e alle quali pensare contemporaneamente, quella faccia che sta a dire che l’ultima volta gli è andata male ma per poco. Dev’essere un truffatore, pensavo.

 

-          Ma che ha fatto Franco? – chiedevo.

-          Franco? È un 6 e 40.

 

Il 640 è l’articolo del Codice penale che riguarda la truffa, di cui Franco è appunto il simulacro.

Dopo un po’ passava un altro, grosso come un toro, un po’ rallentato, che rideva sempre. Estorsione, pensavo. Poi un altro ancora: attento, reattivo, silenzioso, solitario, egocentrico, con una faccia da psicopatico; un rapinatore di sicuro. E poi passava Alvaro. La sua pazienza, la sua saggezza, il suo saper ascoltare, la sua misura erano solo una conferma di quello che sapevo, e cioè che faceva il ricettatore, “il ricetta”.

L’antropologia criminale inventata da Lombroso prevede di leggere il reato nella fisionomia del malvivente prima che questi lo commetta, o anche se non lo commette affatto; è una cosa a priori, ed è sbagliata come tutte le cose a priori. Il mio pensiero invece è a posteriori: un delinquente comincia ad assomigliare al suo reato solo dopo averlo commesso. Quando inizia a conviverci. Dopo che il reato diventa l’unica cosa che è stato capace di essere. Perché a quel punto continua a ospitarlo dentro di sé, in un sistema come il carcere concepito in funzione sua, del reato appunto. Il reato è un parassita dell’uomo che lo porta sulle spalle.

Bisognerebbe stare a sentire gli uomini che danno asilo a reati e a delitti che poi diventano così ingombranti. Magari avrebbero qualcosa da dire, da urlare. Il giudice di sorveglianza dovrebbe essere più presente, o più facilmente raggiungibile. Per dare spazio e voce all’uomo che porta il reato. Ma il giudice ha sempre altro da fare. Invece ce ne vorrebbe uno che ti rispondesse, che pensasse davvero che un’altra possibilità non si può negare a nessuno, come certi magistrati che hanno lasciato un’eredità di adempienza, ammirazione e speranza, uno che venisse una volta al mese in carcere per i colloqui con i detenuti come previsto dalla legge. Ma si sa che il carcere è il primo luogo dove il rispetto della legge è una cosa relativa. E tutto questo è triste, perché i tribunali che mandano in carcere le persone in fondo giudicano gli atti socialmente dannosi commessi dalle persone, non le persone.







Brano tratto dal libro Dentro – Sandro Bonvissuto – Giulio Einaudi editore s.p.a. Torino – anno 2012.




Sandro Bonvissuto

Sandro Bonvissuto ha quarantadue anni e vive a Roma. Fa il cameriere in un'osteria ed è laureato in filosofia. Alcuni suoi racconti sono stati raccolti in un libro (Nostalgia del vento, Amaranta editrice 2010) che per varie traversie non ha avuto distribuzione. Nel 2012 Einaudi ha pubblicato Dentro.





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