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Sagarana VIAGGIO IN AEREO


Brano tratto dal romanzo Animali domentici


Bragi Ólafsson


VIAGGIO IN AEREO



(…) Al bar di Heathrow avevo cercato di immaginare come potesse essere il volo di ritorno, che cosa mi avrebbero servito da mangiare sull’aereo e così via, e avevo sperato di non finire seduto accanto a un logorroico o a qualcuno che si alzasse di continuo per andare alla toilette o a salutare gli altri passeggeri. L’ultima volta che avevo preso l’aereo ero seduto accanto a un giovane che aveva cercato, senza molta fortuna, di suscitare il mio interesse riguardo al motivo del suo viaggio all’estero (aveva un ingrosso di abbigliamento e accessori per una qualche insignificante disciplina sportiva), poi aveva fatto avanti e indietro per il corridoio, come se quel volo di tre ore fosse una specie di ritrovo di famiglia o una rimpatriata del tipo: islandesi che si rivedono dopo essere mancati dalla madrepatria per più di una settimana. In realtà non è un rischio da poco, quello che si corre salendo su un aereo. Per tre ore (per non parlare dei voli più lunghi) ti ritrovi chiuso in uno spazio angusto e scomodo, lontano chilometri dalla civiltà, con persone imprevedibili che potrebbero annegare nell’alcol ogni residuo di buon senso oppure rovesciarti addosso cibo e bevande, e l’unico posto sicuro è il gabinetto.

Non vedevo l’ora di starmene un po’ in pace, in aereo, leggere il giornale che avevo comperato all’aeroporto e magari addormentarmi dopo mangiato. E invece i miei piani andarono completamente in malora. Non avevo nemmeno fatto in tempo a sedermi al mio posto lungo il corridoio quando il tipo del sedile centrale – un tizio piuttosto trascurato, sulla sessantina, con una gran chioma di capelli grigi chiazzata di giallo tabacco, che dava l’idea di puzzare di alcol o di sudore – mi fece capire con il suo sorriso cordiale che durante il viaggio avremmo fatto una bella chiacchierata.

Mentre aspettavo il mio turno per sistemare la giacca e il bagaglio a mano nella cappelliera, mi offrì una caramella Ópal da un pacchetto talmente malridotto che sembrava essere finito in acqua, o che qualcuno vi si fosse seduto sopra. Declinai l’offerta e mi sforzai di sorridere per dimostrare all’uomo un’adeguata dose di riconoscenza, ma quello insistette che ne prendessi una.

«Sempre uguali, questi viaggi in aereo» disse poi, quando fui seduto. Ebbi l’impressione che si fosse preparato la frase mentre sistemavo le mie cose nella cappelliera. Che dicesse “viaggi in aereo” suggeriva che volesse evitare di usare la parola “voli”, che mi è sempre sembrata strana, riferita alle persone, pur senza sapere esattamente perché. Quando poco dopo si presentò come linguista, e più esattamente come Ármann Valur, glottologo e futuro pensionato (quest’ultimo titolo aggiunto più che altro come battuta), mi sentii piuttosto compiaciuto, perché avevo immaginato subito che il mio compagno di viaggio dovesse avere a che fare con le lingue.

La forza del subconscio oppure una certa perspicacia, pensai, considerando la sfiga di essermi imbattuto nientemeno che in un dotto linguista prima ancora che il capitano annunciasse il decollo.

Mi presentai, ma ebbi la sensazione che il mio vicino non prestasse molta attenzione al mio nome. Aspettai ad allaccia18 re la cintura, perché pensavo che dovesse alzarsi per togliersi il cappotto di lana blu scuro. Da quanto potevo scorgere, sotto il cappotto portava la giacca e un maglione. Estrassi la rivista della compagnia aerea dalla tasca del sedile di fronte a me e vi trovai un articolo a cui potermi fingere interessato per un po’. Riguardava il campo da golf più settentrionale del mondo, ad Akureyri, dove al momento si trova Vigdís.

Ma come avevo temuto, non mi fu concesso di leggere in pace; il mio vicino di posto mi indicò una hostess che si avvicinava lungo il corridoio e mi ricordò di allacciare la cintura.

Le “gentili hostess” venivano ad assicurarsi che tutti avessero la cintura allacciata. Mi aspettavo che continuasse a chiacchierare, ma, visto che per il momento non sembrava averne

intenzione, ne approfittai per prendere il mio walkman dal bagaglio a mano nella cappelliera. Ero già tornato al mio posto e avevo allacciato la cintura, quando la hostess ripassò con un sorriso per controllare (in maniera ben poco convincente)che gli schienali fossero in posizione eretta. Ero piuttosto sicuro che stesse ridendo tra sé del tipo infagottato che mi sedeva di fianco.

Di sfuggita vidi che la donna nel posto accanto al finestrino– capelli scuri, sulla quarantina, con l’aria istruita dichi era in grado di cogliere il lato comico dell’aspetto del linguista – lo osservava di nascosto. Io invece avevo infilato una cassetta nel walkman (dei riarrangiamenti di alcuni brani di Miles Davis) e stavo riavvolgendo il nastro con le cuffiette già alle orecchie. Mentre aspettavo che terminasse il riavvolgimento, lanciai un’occhiata lungo il corridoio dell’aereo. All’improvviso notai una giovane donna bionda seduta alcune file davanti a me. Mi sembrava di conoscerla e quando voltò la testa verso la persona sull’altro lato del corridoio– evidentemente le aveva chiesto qualcosa – mi tornò in mente chi fosse. Non sapevo come si chiamava, ma l’avevo vista la prima volta circa quindici anni prima, a una festa del liceo a Hjálmholt. Mi aveva colpito subito per la particolare bellezza del volto e per il corpo quasi perfetto che, a quanto pareva, era ancora lo stesso.

Ricordo ancora molto chiaramente quella festa a Hjálmholt, anche se a quel tempo avevo appena sedici o diciassette anni. Stavo seduto su un divano tra due miei compagni di scuola, sicuramente a bere per cercare di farmi coraggio e attaccare discorso con qualche compagna, e fissavo adorante questa ragazza che non avevo mai visto ma che supponevo essere amica di quelli che avevano organizzato la festa. Non era stato solo l’aspetto fisico a renderla interessante; mi era rimasta impressa anche perché a un certo punto era sparita in una delle stanze dei bambini con un ragazzo che conoscevo vagamente. Ne era uscita una mezz’ora dopo, senza tentare minimamente di nascondere quello che era successo in camera, rossa in volto e con i capelli biondi scarmigliati (e ancora più bella), ovviamente reduce da uno “scontro amichevole”, come aveva detto uno dei miei amici.

Il ragazzo che era con lei in camera, invece, non riapparve, e poco dopo scoprimmo che si era addormentato. Io e i miei compagni ci avevamo scherzato su dicendo che lei – quella stessa persona che adesso era seduta a qualche metro di distanza da me in aereo, vestita con dei jeans e una maglietta a maniche corte – l’aveva sfinito.

Non ero riuscito a sapere nulla di più sul suo conto – non abitava nel mio quartiere e non frequentava la mia scuola

– ma, da allora, ogni volta che mi era capitato di scorgerla, mi si smuoveva qualcosa dentro e ne restavo turbato; in un certo senso mi sentivo di essere piccolo e grande allo stesso tempo. In altre parole, avevo una cotta per lei da quando era uscita dalla camera da letto dei bambini: spettinata e rossa, molto più matura e interessante di tutte le altre ragazze.

In ogni modo, era alquanto improbabile che si ricordasse dime. Aveva lasciato la festa poco dopo aver concluso con quel ragazzo; era troppo sveglia – troppo navigata e intelligente– per stare con dei marmocchi, che era come vedevo me e i miei compagni in quel periodo.

Senza rendermene conto, avevo cominciato a paragonare il suo bel profilo (o meglio, la parte che riuscivo a vedere dal mio posto) a quello di Vigdís, e per qualche istante fu come se avessi perso il contatto con la realtà; non riuscivo a ricordare se Vigdís fosse bionda o mora.

 







Brano tratto dal romanzo Animali domentici. Edizioni La Linea, Bologna, 2013. Traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini.




Bragi Ólafsson

Bragi Ólafsson (Reykjavík, Islanda, 1962) è un musicista e uno scrittore. Diventato conosciuto quando suonava il basso nei Sugarcubes, la banda pop avant-garde islandese che ha resa famosa Björk. Tra i suoi libri, “Animali domestici” e “The Ambassador”.





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