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Sagarana PCI 1956: IL CASO GIOLITTI E CALVINO


Antonio Lenzi


PCI 1956: IL CASO GIOLITTI E CALVINO



(…) Sul finire di luglio volge ad epilogo l’ultima questione rimasta aperta dall’VIII Congresso: la posizione di Antonio Giolitti.

Su di lui il Partito si è inizialmente mosso in maniera molto differente rispetto ad Onofri, sia per la qualità intellettuale, sia per le posizioni meno riformiste rispetto al collega romano. Segno ne è la tolleranza espressa da Togliatti e Amendola al Congresso nella speranza di un suo recupero. Si susseguono «lunghi incontri (…) con Longo, Alicata e Bufalini» che provano a farlo desistere dalle posizioni più polemiche, cercando di portare il livello di discussione sul piano del dibattito interno.

Giolitti cerca inizialmente di rimanere su questo livello redigendo una sorta di memoriale che consegna a Longo senza che ciò susciti alcuna reazione.

Intanto dà alle stampe un suo opuscolo intitolato «Riforme e rivoluzione», in cui auspica «il superamento del modello leninista di centralismo democratico, adeguato alle condizioni di lotta del proletariato russo e ad un partito di quadri, ma non più valido per un partito di massa che si propone la conquista del potere per via democratica». Arriva a richiedere la possibilità di costituire, anche nel Pci, «una minoranza libera di sostenere le sue opinioni e di diventare maggioranza»

Su questi ultimi concetti il Partito non può tacere e la risposta arriva da un articolo su «Rinascita» non firmato ma riconducibile, dallo stile, a Togliatti in persona, che giudica l’opuscolo come espressione di «ideologia borghesi (…) banalità socialdemocratiche (…) errori nel metodo, (…) frasi fatte (…) invettive».

Il Segretario rincara la dose alla riunione del Comitato centrale di luglio usando Giolitti come esempio verso altri militanti.

 

Il compagno Giolitti non riesce a contrapporre alla linea del partito qualche cosa di coerente e serio. Egli crede di agevolarsi il compito che si è posto tacendo le vere posizioni del Partito o alterandole. In questo modo viene meno alle norme di correttezza che devono valere in qualsiasi nostra polemica. (…) Da ciò che il compagno Giolitti ha scritto, emergono, inoltre due posizioni centrali che sono da respingere. La prima è una concezione della libertà e della democrazia staccata dalla visione reale, concreta, dei rapporti di classe, cioè un tentativo di rivedere una delle fondamentali tesi del marxismo. (…) La seconda tesi che è da respingere è la presentazione del progetto tecnico come unico interesse e molla decisiva dello sviluppo verso il socialismo. La molle decisiva, invece, di questo sviluppo è la lotta di classe. (…) Nessuno si è schierato, nel Partito, sulle posizioni del compagno Giolitti.

 

Giolitti, date le reazioni del Pci, comprende che i margini di discussione all’interno del Partito sono diventati troppo ristretti e spedisce la sua lettera di dimissioni al Pci pregando che sia pubblicata entro il 24 luglio.

Giolitti si limita, nella lettera di dimissioni a constatare che le idee da me esposte vengono ormai additate come esempio tipico, e unico nel Pci, di revisionismo senza principi e addirittura come concessioni consapevoli all’anticomunismo. (…) Ma ciò che conta non è la polemica contro presunte mie posizioni revisioniste, bensì l’interpretazione del marxismo, del XX e dell’ VIII Congresso che emerge da quella polemica e si contrappone ad ogni idea rinnovatrice e a ogni onesto tentativo di ricerca intorno ai gravissimi problemi aperti dal XX Congresso e dai fatti di Polonia ed Ungheria. Per queste ragioni politiche, e non certo per un puntiglio intellettualistico, io non posso più accettare una disciplina formale che significherebbe rinuncia a battermi per le idee e gli obiettivi che ritengo oggi essenziali alla vittoria del socialismo.

Il caso Giolitti tende ad essere lasciato, nei mesi successivi, in sordina dal quotidiano del Partito per non turbare ulteriormente i militanti costretti a leggere di continui abbandoni all’indomani del ’56. Ma il 7 agosto «l’Unità» è costretta a pubblicare una lettera di dimissioni di una figura molto importante nel panorama della letteratura italiana e in particolare dell’area culturale della sinistra: Italo Calvino.

Lo scrittore piemontese era stato uno dei più convinti fautori della destalinizzazione e dell’ala riformatrice dell’Urss inneggiando a Gomulka e criticando lo stesso Amendola ad un comizio tenutosi a Torino. Calvino aveva aspettato con pazienza l’esito drammatico dei fatti d’Ungheria e aveva sperato che l’VIII Congresso potesse essere il vero momento rinnovatore del Pci.

Constatato l’esito delle tesi del Congresso e i dissidi creatisi immediatamente dopo con Onofri, Reale, Diaz e altri, decide di allontanarsi gradatamente dalla vita attiva del Partito. Il precipitare delle discussioni intorno al suo amico Giolitti lo portano a schierarsi in sua difesa.

In agosto decide di dimettersi spedendo una lettera al Partito accusandolo di essersi rinchiuso in sé stesso anziché rinnovarsi conducendo una lotta ferrea contro chi avanzava critiche.

 

In seguito ho sperato che il tradizionale centrismo della nostra Segreteria garantisse il diritto di cittadinanza nel Partito alle posizioni dei rinnovatori, come lo garantiva di fatto ai più radicali dogmatici. La linea seguita in questi mesi fino all’ultima riunione del Comitato Centrale e la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di Antonio Giolitti mi hanno tolto ogni residua speranza di poter svolgere una funzione utile pur ai margini del Partito.

 

Per l’avvenire, lo scrittore si ripromette di comportarsi da autore indipendente, ma «privo di animosità e di rancori», anzi pronto a prendere posizione, «in determinate circostanze»94, al fianco dei comunisti.

Il rapporto del Comitato di Torino, pubblicato immediatamente di seguito alla lettera di dimissioni, recepisce il tono conciliatorio della missiva ed emette un comunicato di rigetto della posizione di Calvino, rendendo tuttavia possibile un nuovo incontro con il Pci nonostante lo scrittore piemontese sia accusato di sostituire oggi formule confuse ed ambigue, sul terreno ideologico e politico, laddove parla di una sua azione come scrittore indipendente (indipendente da chi? E da che cosa?) e di un tipo particolare di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore: formule che propongono un’inaccettabile rinuncia alla piena partecipazione dell’intellettuale al momento più alto della lotta rivoluzionaria, (…) un abbandono delle posizioni marxiste. (…) Italo Calvino ha avuto e aveva la possibilità di esprimere nel seno del Partito e nei termini consentiti dallo Statuto, le sua opinioni. (…) I lunghi anni di fraterno lavoro e di lotte condotte in comune con Italo Calvino esigevano queste franche parole e anche la loro severità, tanto più in quanto Calvino si propone di essere ancora al fianco dei comunisti in molte battaglie. (…)

 







Brano tratto dal saggio “Il Manifesto, tra dissenso e disciplina di partito – Origine e sviluppo di un gruppo politico nel PCI”, Reggio Calabria, 2012.





Antonio Lenzi è nato a Palermo e si è laureato in scienze Politiche a Firenze. Attualmente sta concludendo il dottorato di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici presso l'Università degli Studi di Urbino con uno studio sulla sinistra extraparlamentare degli anni '70.





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