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Sagarana L’INSONNIA DI KAFKA


Brano tratto dal saggio Kafka


Pietro Citati


L’INSONNIA DI KAFKA



(…) In quelle poche ore tra le dieci di sera e le sei del mattino, Kafka stabilì per sempre la sua concezione della letteratura; e la sua idea dell'ispirazione poetica - la più grandiosa dopo Platone e

Goethe. Era sicuro che da qualche parte c'era un «potere supremo», che si serviva della sua mano.

Non importava chi fosse: se un dio sconosciuto, o il diavolo, o i demoni, o semplicemente il mare di tenebra che portava dentro di sé, e che egli avvertiva come una forza supremamente oggettiva. Egli doveva obbedirgli: seguire i suoi cenni: aprirsi alla sua parola; e trasformare la propria vita, la propria mente e il proprio corpo in uno strumento « chiaramente elaborato » per secernere letteratura, come avevano fatto i grandi scrittori che ammirava.

Quale lavoro tremendo! Quale fatica continua, piena di dubbi e di attese! Non gli bastava obbedire: doveva distruggere molte cose dentro di sé e fuori di sé; e con atroce ascetismo, con paurosa avarizia, risparmiare e economizzare in tutto ciò che riguardava la sua esistenza. Quante cose da dimenticare: la famiglia, gli amici, la natura, le donne, i viaggi, Felice, i figli, la conversazione, la musica. Era una specie di alchimia: abolire la vita dentro di sé, e trasformarla in quella sostanza pura, traslucida, assente, vuota, che si chiama letteratura. Se non l'avesse fatto, se non si fosse

bruciato e sacrificato ai piedi di un altare di carta, il dio della letteratura gli avrebbe impedito di vivere.

«Domani ricomincio a scrivere, mi ci voglio buttare con tutta la mia forza, sento che se non scrivo c'è come una mano inflessibile che mi caccia via dalla vita». Se avesse smesso di scrivere, sarebbe diventato prigioniero di qualsiasi spinta dei venti: lento, torbido, incapace di capire; solo come la pietra o il pezzo di legno, che sentiva di essere nella propria origine. Se scriveva, c'erano - forse - delle speranze. Avrebbe potuto tener testa al mondo; e il dio della letteratura gli avrebbe

portato in dono Felice.

Sapeva che, la notte, gli uomini buoni dormono, chiusi nel loro sonno come bambini, protetti da una mano celeste contro l'assalto degli incubi.

Il sonno è la più pura e innocente delle divinità: una mite benedizione, che scende soltanto sulle

palpebre degli esseri puri. Gli uomini insonni sono colpevoli, perché non conoscono la quiete dell'anima e sono torturati dall'ossessione. Come tutti i colpevoli, soffriva d'insonnia. La sera si addormentava, ma dopo un'ora si svegliava come avesse posato la testa in un buco sbagliato. Era perfettamente desto, aveva l'impressione di non aver dormito affatto o di aver dormito sotto una pelle sottilissima e aveva ancora davanti a sé la fatica di prendere sonno. Poi si riaddormentava: il suo corpo dormiva accanto a sé stesso, mentre il suo io si dibatteva coi sogni. Verso le cinque, le ultime tracce di sonno erano consumate; e i sogni erano molto più faticosi della veglia. Quando si svegliava completamente, tutti i sogni stavano raccolti intorno a lui, e lo guardavano con occhi muti

e spaventevoli. Ma aveva capito che l'insonnia - la sua colpa - era anche la sua forza. Chi dormiva sonni così inquieti e agitati, viveva in rapporto con gli spiriti della notte, con i demoni e le forze

che si annidano nell'oscurità, con le forze che gremivano il suo inconscio; e lui doveva evocare

le tenebre, come la notte che scrisse II verdetto, a costo di non dormire mai.

Aveva letto in una Storia del diavolo che, tra gli odierni Caraibi, « chi lavora di notte » viene considerato come creatore del mondo. Lui non aveva la forza di creare o di ricreare il mondo: ma se fosse stato sveglio durante la notte, avrebbe potuto portare alla luce ciò che il suo dio sconosciuto gli aveva rivelato. Così si impose questa disciplina: si sedeva alla scrivania alle dieci di sera e si alzava alle tre, talvolta alle sei. Scriveva nel buio, nel silenzio, nella solitudine e nell'isolamento, mentre tutti gli altri - Felice che non voleva vedere, il padre e la madre con cui scambiava poche parole e gli amici - dormivano; e gli sembrava di non aver ancora abbastanza silenzio, e che « la notte fosse ancora troppo poco notte». Avrebbe voluto cancellare il giorno e l'estate, l'alba e il crepuscolo, prolungare la notte oltre i suoi corti confini, trasformandola in un solo interminabile inverno. Intorno a lui, c'era l'immobilità più profonda; e pareva che il mondo si dimenticasse di lui.

La sola notte non gli bastava. Siccome la sua ispirazione non veniva dall'alto ma dagli abissi, anche lui doveva scendere sempre più in basso, verso le profondità della terra; e giunto laggiù, rinchiudersi, come quel carcerato che nella profondità dell'anima egli era. «Ho già pensato più

volte che il mio modo migliore di vita sarebbe quello di stare con l'occorrente per scrivere e una

lampada nel locale più interno di una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe

sempre lontano dal mio locale dietro la più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica

passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere.

Chissà quali cose scriverei! Da quali profondità le tirerei fuori! ». Nemmeno questa immagine gli bastava: forse qualche rumore poteva arrivare fino nella segregazione della cantina; forse qualcuno - la compagna sconosciuta, Felice, gli amici - avrebbe varcato gli ostacoli e sarebbe giunto a disturbarlo nella sua solitudine. Lui voleva qualcosa di più di un eremo: il sonno profondo della morte, la pace imperturbabile del sepolcro, dove ogni contatto umano si spegne. Così, diventato un recluso e un morto, Kafka trovava finalmente la giusta condizione per scrivere. Senza più uffici, né contatti umani, né matrimoni, aveva a disposizione tutto il tempo: un tempo infinito, perché l'ispirazione illimitata come il mare ha bisogno di non avere confini attorno a sé. Chiuso nella profondità della notte, si raccoglieva attorno al centro del proprio essere: si concentrava senza sforzo e fatica: ma insieme «si espandeva», «si versava», uscendo dalle strettoie del corpo nell'infinito della scrittura: liberava tutto ciò che era nascosto o irrigidito dentro di lui; e così otteneva quel grande calore e quella felicità che riscaldavano le mani gelide e il cuore intirizzito. (…)







Brano tratto dal saggio Kafka, Adelphi edizioni, Milano, 2007.




Pietro Citati

Pietro Citati (Firenze, 20 febbraio 1930) è uno scrittore e critico letterario italiano. Attualmente vive a Roma. Studia a Torino, dove frequenta l'Istituto Sociale e in seguito il liceo classico Massimo d'Azeglio. Nel 1942, dopo il bombardamento di Torino, si trasferisce con la famiglia in Liguria. Si laurea in Lettere moderne all'Università di Pisa, frequentando la Scuola Normale Superiore, nel 1951. Inizia la sua carriera di critico letterario collaborando a riviste come Il Punto (dove collabora al fianco di Pier Paolo Pasolini), L'approdo e Paragone. Dal 1954 al 1959 insegna italiano nelle scuole professionali di Frascati e alla periferia di Roma. Negli anni sessanta comincia a scrivere per il quotidiano Il Giorno. Dal 1973 fino al 1988, è stato critico letterario del Corriere della Sera, dal 1988 al 2011 de la Repubblica. Attualmente scrive sulle pagine culturali del Corriere della Sera. Scrittore particolarmente poliedrico, si è cimentato con successo nella narrativa, nella saggistica e nelle biografie di grandi personaggi, soprattutto letterati (Kafka, Goethe, Tolstoj, Giacomo Leopardi ecc.). Varie sue pagine sono dedicate anche ai miti dei popoli antichi e della grecità (Omero innanzi tutto), non disdegnando di occuparsi di narratori come Francis Scott Fitzgerald e del tragico destino di sua moglie Zelda o di ideologie filosofico-religiose come l'Ermetismo.





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