La Lavagna Del Sabato 29 Marzo 2008

LAVORARE

– Brano tratto dal romanzo E Johnny prese il fucile

Dalton Trumbo





(...) Faceva caldo. Cosí caldo che gli sembrava che un fuoco lo bruciasse dentro e fuori. Un caldo tale da non poter respirare. Ansimava. Lontano contro il cielo si vedeva la linea caliginosa delle montagne mentre nella direzione opposta verso il cuore del deser­to c'erano i binari della linea ferroviaria che tremolavano nel caldo. Gli pareva che stesse lavorando con Howie alla ferrovia. Che stranezza. Tutto gli si stava mescolando nella mente ancora una volta. Aveva già visto quella scena prima. Era come entrare in un nuovo emporio per la prima volta mettersi a sedere e improvvisamente aver la sensazione di essere già stato lí molte volte prima e di aver già sentito quello che il commesso ti dirà appena si rivolgerà a te per servirti. Lui e Howie stavano dunque lavorando alla ferrovia con quel caldo? Ma certo. Certo. Era giusto. Aveva il controllo della situazione.

Lui e Howie stavano lavorando sotto il sole ro­vente alla costruzione della ferrovia che passava attraverso il deserto di Uintah. E faceva casi caldo che gli sembrava di dover morire. Se si fosse fermato un attimo a riposare avrebbe certo avuto un po' di sol­lievo. Ma era questa la cosa terribile del lavoro di squadra su un tronco di linea. Non ci si poteva mai fermare. I compagni non ridevano e scherzavano come ti saresti aspettato normalmente. Non dicevano una parola. Lavoravano e basta.

Quando si guarda una squadra che lavora su un tronco di linea sembra sempre che lavorino lentamen­te. Ma è necessario essere lenti perché non ci si può mai fermare e le forze di un uomo a piú di tanto non arrivano. Non ti fermi mai perché hai paura. Non è che hai paura del caposquadra perché il caposquadra non dà mai fastidio a nessuno. Ë solo che hai paura di perdere il posto se non stai al passo con il tuo compagno. Cosi lui e Howie lavoravano continuamente e costantemente per stare al passo con i mes­sicani.

Le tempie gli martellavano e sentiva il cuore pul­sare contro le costole e persino giú nei polpacci il sangue batteva violento ma non poteva interrompere il lavoro nemmeno per un minuto. Aveva il fiato sempre piú corto e gli pareva che i polmoni fossero diventati troppo piccoli per contenere la quantità d'aria sufficiente per sopravvivere. Erano quarantadue gradi all'ombra e non c'era un filo d'ombra e gli sembrava di liquefare sotto una bianca coperta incandescente e non poteva pensare ad altro che de­vo fermarmi devo fermarmi devo fermarmi.

Si fermarono per mangiare.

Era il primo giorno che lavoravano in squadra e sia lui che Howie avevano pensato che passasse il carrello col rancio. Ma non passò. Quando il caposquadra si accorse che non avevano niente da mangiare mormorò qualcosa a un paio di messicani. I messicani si avvicinarono e offrirono i loro calderotti della colazione perché ci prendessero qualcosa. I mes­sicani mangiavano uova fritte col pane e ricoperte da una crosta di pepe rosso. Lui e Howie grugnirono semplicemente un no grazie e si lasciarono cadere indietro sulla schiena. Poi dovettero rivoltarsi sulla pancia perché altrimenti quel sole arroventato avreb­be bruciato loro le palle degli occhi anche con le pal­pebre abbassate. I messicani se ne stavano seduti a masticare le loro uova fritte col pane e li guardavano fissi.

Tutto a un tratto sentirono che i messicani si stavano alzando e così si girarono su un fianco per ve­dere cosa stesse succedendo. L'intera banda correva giú lungo il binario al piccolo galoppo. Il caposqua­dra se ne stava seduto e guardava il gruppo che si allontanava. Chiesero al caposquadra cosa diavolo li avesse punti e il caposquadra disse che andavano a fare una nuotata.

L'idea di una nuotata era troppo. Lui e Howie balzarono in piedi e corsero dietro ai messicani. Da come aveva parlato il caposquadra pensavano che si sarebbero fermati poco lontano. Ma saltò fuori che dovettero correre per un paio di miglia prima di ar­rivare a un canale largo forse tre metri color del fango e con entrambe le sponde protette da una solida massa di rovi. I messicani cominciarono a to­gliersi i vestiti. Lui e Howie si chiesero come avreb­bero fatto a entrare nell'acqua senza ricoprirsi di cardi. Decisero che doveva esserci un passaggio tra i rovi altrimenti i messicani non avrebbero fatto tutta quella corsa per fare un bagno. Ora che si furono spo­gliati i messicani sguazzavano già nel fossato ridendo e vociando.

Saltò fuori che il passaggio tra i rovi non c'era af­fatto. Si vergognarono di star lì nudi con le mani in mano e con la pelle così bianca in confronto agli al­tri. Così si fecero strada a balzi tra i rovi finché non raggiunsero l'acqua. L'acqua era calda e puzzolente ma poco importava. Era come un temporale di aprile. Pensò alla piscina del sindacato a Shale City. Pensò mio dio questa gente si comporta come se stesse nella piú grande piscina del mondo. Pensò ci scom­metto che non hanno mai visto una piscina in tutta la loro vita. Se ne stava li soprappensiero coi piedi impantanati nel fondo quando i messicani comincia­rono a risalire il fossato e a rimettersi i vestiti. Il bagno era finito.

Ora che lui e Howie ebbero raggiunto i loro ve­stiti erano ricoperti di cardi fino ai fianchi. Videro che i messicani non si preoccupavano neanche di to­gliersi i cardi di dosso. Qualche messicano si avviava già per ritornare al posto di lavoro e tosi si spazzo­larono via i cardi dalle gambe rapidamente e si infi­larono i vestiti. Fecero di corsa le due miglia di ritor­no e ormai l'intervallo era finito e bisognava ripren­dere il lavoro.

Con l'inoltrarsi del pomeriggio lui e Howie co­minciarono a incespicare sul lavoro e infine a cadere. Il caposquadra non diceva niente quando cadevano e nemmeno i messicani. I messicani si interrompevano e aspettavano che loro si alzassero sempre con lo stesso sguardo fisso da neonato. Appena si erano rimessi in qualche modo in piedi ricominciavano a tirare i pezzi di binario. Ogni singolo muscolo del lo­ro corpo doleva eppure dovevano continuare a lavorare. Le mani erano quasi completamente spellate. Ogni volta che afferravano le pinze infuocate e le alzavano sentivano chiaramente in bocca il dolore delle mani scorticate. Le spine che erano rimaste sui piedi e sulle gambe penetravano sempre piú profon­damente nella carne a ogni passo e facevano pus e non c'era tempo per fermarsi e togliersele.

Ma il dolore e la scorticatura e l'atroce stanchezza non erano ancora il peggio. Il corpo riusciva a reggere in qualche modo ma era di dentro che tutto co­minciava a tendersi e a non farcela piú. I polmoni erano cosi asciutti che sibilavano a ogni respiro. Il cuore si era gonfiato a forza di pompare con tanta lena. Egli cominciò a lasciarsi prendere dal panico perché sapeva che non ce l'avrebbe fatta ma che doveva farcela. Non gli sarebbe rincresciuto morire se questo l'avesse sollevato dal lavoro. La terra sotto i piedi sembrava che si alzasse e si abbassasse e le cose andavano assumendo uno strano colore e il compagno di lavoro a fianco sembrava mille miglia lontano in mezzo alla nebbia. L'unica cosa reale era il dolore.

Passò l'intero pomeriggio a incespicare e cadere sulle ginocchia nella polvere a lottare per tirar il fiato e a sentirsi lo stomaco dentro rovesciarsi. Cercò di pensare a Diane. Cercò di richiamarsi alla memoria il suo viso. Cercò di trovarla li in quel deserto per avere qualcosa a cui attaccarsi. Ma non riusciva a raf­figurarsi il suo viso davanti agli occhi. Non riusciva nemmeno a immaginarla.

Improvvisamente pensò oh Diane non ne sei de­gna. Non ne sei degna. Nessuno al mondo tranne forse una madre poteva meritare che uno soffrisse cosí tanto.

 
(Brano tratto dal romanzo E Johnny prese il fucile, Bompiani editori, Milano, 1984. Traduzione di Milli Graffi.)



Dalton Trumbo





        
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