La Lavagna Del Sabato 19 Aprile 2008

ODIO BERGMAN E ANTONIONI

Jesús Gómez Gutiérrez





Muoiono Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. Due registi ai quali devo una gratitudine speciale: il loro lavoro mi annoiava così tanto che mi hanno rubato veramente pochi minuti della mia vita. Più il secondo, che tollero; meno il primo, che detesto. Neppure all'epoca degli studi cinematografici, quando tutti eravamo giovanissimi e credevamo di dover essere tanto fumati, annoiati e esistenzialmente amareggiati come quelli di alcune generazioni anteriori, a tal punto di sorbirmi tutta intera una delle loro pellicole.

Il direttore e sceneggiatore Bo Widerberg dichiarò, in un'occasione, che l'introspettiva di Bergman aveva esercitato un'influenza oppressiva su tutto il cinema svedese. Credo che fosse vero che le pellicole di Bergman si proiettavano in cinema deserti, dormitori deserti, sale da pranzo deserte, saloni deserti e gli schermi si coprivano di ragnatele in meno di quindici minuti. Il cinema, come la letteratura, non occupa il suo spazio ideale fino a quando le mode intellettuali e gli interessi dell'industria non abbandonano la poltrona; o per lo meno, fino a quando il centro della nostra attenzione si focalizza solo sull'opera e non sulle mode e sugli interessi. Solo allora si riescono a distinguere le voci dagli echi. E la propria opera, libera da pregiudizi, ci dimostra se sarà capace di rimanere nel tempo.

 

Ma di tutte le opinioni che condivido su Bergman o Antonioni, e che difficilmente si sentiranno in questi giorni di lutto mediatico (come se i giornalisti sapessero qualcosa di cinema o di altro), rimango con una, di apparenza lieve e tratta proprio ora da un libro che è sopravvissuto al mio ultimo trasloco. Anno 1965. Intervista ad Orson Welles:

 

Domanda: “ Nella trasposizione al cinema de “Il processo” c'è una cambio fondamentale; nel libro di Kafka il carattere di k. è più passivo rispetto al film.”

Risposta: “ Io l'ho fatto più attivo, parlando chiaramente. Non credo che i caratteri passivi siano appropriati al dramma. Non ho niente contro Antonioni, per esempio; ma per attirarmi, i personaggi devono fare qualcosa. Da un punto di vista drammatico, mi capisce?”

 

Non cito Welles per caso, ma per analogia. Nessuno si azzarda a negare la sua importanza come rinnovatore del linguaggio cinematografico; né la sua capacità di infilare poesia e azione in dosi molto superiori alla norma; né la sua inclinazione per il pericolo. Ma Welles era un uomo di cinema, di un genere che ad un'analisi più profonda consiste in una successione di immagini in movimento; non cercava di competere con i fabbricanti di sonniferi per il suo modo di confondere le idee. E qui torniamo a Bergman e Antonioni, notevoli moralisti, cineasti impossibili:

 

Quando Welles parla della passività nel dramma sta parlando del cinema, non della letteratura. K comunque non lo si può trasporre ad una cinepresa. Ha bisogno di altri codici. L'esempio de “Il processo” è un problema tipico di adattamento dalla parola scritta ( ma varrebbe lo stesso discorso con qualsiasi altro tipo di adattamento), incluso il primo e il più importante di tutti: il passaggio dall'idea al lavoro. Che formato si sceglie e che strategie narrative si addicono ad ogni formato. Cosa si vuole dire, se è quello che si vuole dire, perché questo è il problema minore; la storia è la scusa per cui sempre si cercano le parole, le immagini, i suoni, per intrattenere o per lasciar fluire delle emozioni e a volte delle idee. “Nell'arte, affermava Gidé; e Renoir lo ricordava in “La mi vita, il mio cinema”, l'unica cosa che conta è la forma.”

 

So che Bergman e Antonioni furono Dei di una tribù molto incline a giudicare gusti come accettabili o inaccettabili, superficiali o profondi, progressisti o conservatori; tutto questo, senza apprezzare il valore intrinseco delle opere o persino contro il suddetto valore. Ma suppongo che i due cineasti erano perfettamente alieni a questa montagna di snobs, così che mi attengo ai loro ammiratori sinceri, poiché ce ne sono: Bergman e Antonioni non dicono né più né meno quello di Ford e Mankiewicz, per esempio. “Non ho conosciuto nessuno che sappia tanto e così profondamente sulla natura dell'uomo”, ha commentato Max von Sydow riguardo al suo amico e compatriota. Sarà vero. Tuttavia, l'arte non consiste nel conoscere la natura dell'uomo, ma nel saperla mostrare. E non si può mostrare se non si ammette l'ovvietà di Welles: “ I personaggi devono fare qualcosa.”

 

I morti di cui parliamo oggi volevano dire senza fare, vivere senza parlare. Forse si sono sbagliati di genere; forse avrebbero voluto sostituire il linguaggio cinematografico con discorsi intellettuali e con una bella principessa addormentata nel bosco. Non lo so e non mi interessa. So solo che il tempo può perdonare la petulanza e la vacuità di un opera, ma non il sopore.

 

(Tratto dalla rivista on-line La Insignia, Spagna, agosto 2007. Traduzione di Samanta Catastini)


 





        
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