La Lavagna Del Sabato 7 Giugno 2008

I SILLABARI DI PARISI





L’introduzione di Goffredo Parise all’edizione completa dei suoi Sillabari (1984) - titolo estremamente esemplificativo dello spirito e dei contenuti della raccolta di racconti pubblicati sul Corriere della Sera (i primi 22 scritti dal 1971, editi nel ‘72 da Einaudi in Sillabari n.1 e gli altri, 32 scritti dal 1973 all’1980, editi da Mondadori in Sillabari n.2) - ci offre la più chiara e, al tempo stesso, sibillina chiave di lettura che chiunque abbia dato di questa preziosa raccolta di vita e letteratura:
«Nella vita gli uomini fanno dei programmi perché sanno che, una volta scomparso l’autore, essi possono essere continuati da altri. In poesia è impossibile, non ci sono eredi. Così è toccato a me con questo libro: dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.» Goffredo Parise, SILLABARI, Avvertenza, Gennaio 1982).

E Cesare Garboli, amico e recensore tra i più attendibili di Parise, avendone curato diverse prefazioni, con la sua solita lucidità, dei Sillabari dice: «Non sono racconti, non sono apologhi, non sono operette morali. Io non riesco a trovare migliore definizione che questa: sono romanzi virtuali. Intendo dire che pochi, insignificanti particolari contengono in sé virtualmente delle architetture complesse, degli intrecci, dei rapporti romanzeschi. Sono dunque cellule, cellule da cui potrebbero scaturire innumerevoli romanzi possibili».
Con la A di AMORE Parise comincia a “incidere” in ordine alfabetico - anche se in sequenze numeriche casuali e sotto categorie di diversa specie - sulle pagine dei Sillabari, tutto un suo particolare “glossario” di sentimenti, situazioni e personaggi connotati da una forte sensazione di astrazione e pienezza al medesimo tempo, simile a quella che si può provare nell’ascoltare le forme seriali dodecafoniche di Arnold Schönberg, ricche di contrappunti ricercati e cavillosi, ma basate su un preciso e razionale disegno “matematico”.
Parise traccia nella sua prima raccolta personaggi, luoghi e situazioni che potrebbero vivere ovunque, tanto universale è il loro esistere, tanto indefiniti e vaghi appaiono nella loro pur minuziosa descrizione e nel loro passaggio attraverso i racconti: pagine comuni a chiunque affronti la propria avventura umana. Poi i racconti procedono lungo l’arco dell’alfabeto e nei ricordi dell’autore; crescono, si aprono come tanti ventagli coperti di ideogrammi, diventano sempre più rarefatti e onirici, al punto che spesso il titolo di un racconto si trova ad essere esteticamente in antitesi con il suo stesso contenuto.
Tutte le età e condizioni umane sono rappresentate nello scorrere delle pagine, ma quelle su cui Parise si sofferma, a tratti quasi ossessivamente, sono due figure in particolare – ogni volta contrapposte – di un bambino e di un uomo adulto… Questo binomio risulta spesso inquietante, poiché il bambino percepisce sempre l’uomo in una misura eccessiva, attraverso un’immagine dilatata, molto alta, scura e misteriosa: ne è impaurito, ma anche affascinato e vorrebbe – o forse non vorrebbe? - sapere molto di più su quella figura lunga, che spesso si staglia scura, in controluce, di fronte a lui, che non sempre gli parla, a volte sorride o gli tende le mani…
Più in generale Parise, si sofferma a descrivere bambini e adolescenti, mettendone in luce i profili psicologici, chiaramente autobiografici, con tutte le inquietudini, le curiosità e gli stati emotivi, dall’eccitazione alla paura alla malinconia, che il vissuto infantile può portare con sé, soprattutto quando sia mancata la figura paterna. E’ evidente che questo è un nodo centrale e irrisolto nell’esistenza e nell’evoluzione sentimentale dell’autore, figlio di una ragazza madre a sua volta figlia adottiva, privo quindi di un back-ground famigliare.
Nella stessa prospettiva, un’altra immagine ricorrente in vari episodi dei Sillabari è quella di bambini che giocano insieme e mai spensierati, perché impegnati in avventure non pericolose ma che generano loro stati d’ansia rispetto alle scontate reazioni punitive degli adulti, in particolare della figura materna.
Capita anche che in alcuni episodi siano riconoscibili personaggi o “cose” degli anni ’70 (la figura del pittore Mario Schifano in ELEGANZA, la canzone E se domani cantata da Mina, in ETA’), o siano affrontati alcuni temi di attualità, man mano che vengano drammaticamente alla ribalta (come l’orrore della fame estrema dell’Africa in FAME)…
Alla pubblicazione della prima serie arriva puntuale una lettera di Italo Calvino:
Torino 9 maggio 1973
Caro Parise,
tenevo lì il tuo Sillabario, e ogni tanto ne leggevo un pezzo, e ora che l’ho letto tutto tengo a scriverti che questa tua poetica, questa tua precisione nel rendere facce, cibi, giornate, funziona molto bene. Finché leggevo la tue dichiarazioni nei colonnini del Corriere potevo dire: ma sì, le solite cose che ogni tanto si dicono per cercare di scrollarsi di dosso l’intellettualismo di cui non possiamo liberarci, rimpiangendo un modo di raccontare che tanto ormai non riesce più a nessuno, perché è finito con i russi dell’Ottocento. Invece in pratica sei riuscito a fare qualcosa di diverso da come si faceva ieri e da come si fa oggi, proprio nel modo di costruire il racconto, di mettere a fuoco il vissuto attraverso alcuni particolari e non altri, e a dare un taglio alla prosa che è molto tuo e serve molto bene a quello che vuoi dire, insomma uno stile. E anche quel tanto di partito preso che ci metti nell’applicare questa tua poetica, è proprio il segno del fatto che scrivi oggi, che “esegui un’operazione letteraria” (protesta pure) e il senso di quello che fai è proprio lì. Come esempio di racconto che mi piace (non tutti mi piacciono ugualmente) citerò AMICIZIA e in genere quelli del tipo più indiretto e con movimenti nel tempo.
Tanti cari saluti
Tuo
Calvino

E qui si potrebbe aprire un breve inciso per quanto riguarda quel cenno di Calvino alla “precisione” che rimanda immediatamente al suo saggio Esattezza di Lezioni Americane (terzo dei Six memos for the next millennium); come a Rapidità (secondo degli stessi memos) rimanda Garboli, che (nella sua prefazione alla raccolta di Parise Gli Americani a Vicenza) scrive: «…La rapidità con cui volano gli attimi dilatati del Sillabario non dà tempo di prendere il fiato; la velocità è segmentata, suddivisa uniformemente in ogni periodo; tutti i segmenti corrono con lo stesso ritmo vorticoso verso un punto di fuga, che è il nulla da cui ricomincia il periodo successivo. L’occhio vola. Ma, con un effetto evidentemente studiato, l’occhio di chi scrive è fermo, si gira intorno e guarda con grande lentezza: tutto corre, e tutto è immobile. Si direbbe che il paesaggio del Sillabario sia quello sghembo, imprevedibile, uguale a se stesso, mobile e immobile che intravediamo durante una discesa in ski…».
E’ stato detto più volte che dal punto di vista stilistico si possono riscontrare notevoli differenze soprattutto tra la prima raccolta e la seconda. La cesura in realtà non è così netta e quel che si avverte - a tratti in modo dolente e rabbioso - è se mai il tempo che passa, inesorabilmente inquinato dal degrado di una società in decadenza, con tutto il suo pesante carico di inevitabili cambiamenti sociali e politici che segna anche le scelte di vita, le esperienze professionali e quindi la scrittura di Parise.
Tra la prima e la seconda parte le storie dei Sillabari si fanno quindi man mano più dettagliate, descrittive e tangibili, ma anche incompiute, informali, in una visualizzazione molto accentuata e piena di inquadrature grafiche e fotografiche, appartenenti indiscutibilmente al mondo del teatro o del cinema: perché, tutte indistintamente, potrebbero essere in fondo considerate tante piccole preziose pièces “teatrali” o sceneggiature, pronte ad esser interpretate sul palcoscenico o trasposte sullo schermo in forma di “corti”, tanto appaiono ricche di personaggi, contenuti scenici, paesaggi, emozioni e suoni. Ma proprio nel momento in cui si visualizza questa ipotesi, questa appare scontata ed inutile, tanto perfetta e compiuta riesce ad essere la scrittura, con tutti i suoi timbri, i suoi colori, le sue tensioni, le sue cadenze vibranti e sensuali. E perché, in tutti i brani dei Sillabari, Parise riesce comunque a descrivere ogni cromatismo che l’occhio è in grado di percepire tra la luce e il buio, l’orecchio tra il silenzio e l’urlo assordante; e poi odori, sapori, superfici e dimensioni delle cose, suoni della terra, dell’acqua, dell’aria, del fuoco (come nel racconto CASA dove si è circondati dal calore fisico delle stanze riscaldate, rispetto al freddo e alle zanzare in trincea del passato); i cinque sensi “abitati” da tutte le creature viventi (ANIMA) con i loro sentimenti, dallo stupore alla paura (HOTEL), all’eros (CINEMA), in un disegno estetico perfetto (ESTATE), immune da retorica e al tempo stesso ricco di pathos, comunque estraniato da un coinvolgimento individuale, anche se continuamente l’autore lo punteggia di note autobiografiche, ma quasi sempre da “spettatore” in assenza di giudizio. L’approccio dello scrittore resta nel corso di tutte le storie – salvo che verso le ultime - quello poetico, con in più il dono impareggiabile della sintesi e dell’ assoluta asetticità dalla retorica.
Piuttosto singolare è l’attenzione e la meticolosità con cui Parise traccia alcune figure femminili, soprattutto anziane, con una notevole dose di violenta misoginia: in due episodi, (ODIO e PAURA) le protagoniste, anziane ma ancora forti, di aspetto sgradevolmente grottesco, affatto comico e con tratti somatici inquietanti, subiscono, la violenza fisica e del tutto gratuita da parte dell’autore nei loro confronti, attraverso precise azioni dei personaggi maschili, cui viene affidato un ruolo cinico e di inspiegabile, beluina, quanto repentina, ferocia: in entrambi i casi vengono in mente spezzoni di film di Quentin Tarantino, laddove la “pulp fiction” è talmente esasperata da far sorridere anziché inorridire… Questo atteggiamento così singolare nei due episodi, potrebbe far ritenere che la descrizione delle anziane donne rifletta una personale esperienza di vita vissuta dell’autore. E in entrambi i finali delle due storie, a sorpresa, altrettanto improvvisamente di come è esplosa, la violenza cessa di colpo, come se lo scrittore si svegliasse di soprassalto da un brutto incubo o da uno stato di trance, lasciando spazio ad un’inattesa “pietas”. Questo atteggiamento dell’autore potrebbe nascondere, al di là della misoginia, la rabbia soffocata del suo stato di uomo malato e sempre più consapevole della fine? Ma non accade altrettanto nei confronti delle figure anziane maschili, verso cui Parise mostra una speciale sorta di rispetto (forse filiale?), rendendoli spesso protagonisti di episodi di grande dignità (BELLEZZA), al di là del loro reale merito o spessore umano.
Sorprendente ed emblematica risulta infine la descrizione dei sentimenti di un padre verso i figli in PATERNITA’, che si “annulla” con un atteggiamento che rasenta l’idiozia, letteralmente travolto dall’amore per i figli maschi, in cui riaffiora evidente il desiderio di Parise di un ruolo che non ha mai conosciuto e, probabilmente, avrebbe amato vivere in prima persona.
Procedendo nella lettura verso gli ultimi brani, ancora più netta e lucida si fa la percezione della sofferenza dell’autore, ormai inesorabilmente condannato dalla malattia.
«Viene fatto allora di pensare – scrive ancora Garboli - a come sia stato doloroso in trent’anni, il viaggio compiuto da Parise… Lo sguardo del Sillabario non fissa semplicemente un punto lontano, ma dilata e rimpicciolisce un punto estremamente famigliare; questo punto è in ombra, sempre in ombra, scrutato e velato dagli occhi di un uomo che non fa che ridiventare bambino per guardare al passato come a un futuro già morto. Gli occhi annoiati, invecchiati, disillusi del Parise del Sillabario non sono quelli di chi si congeda; sono ancora troppo umidi per distogliersi da quello che è stato. La vita del Sillabario è vizza, rugose, minuscola; sempre sul punto di morire… La poesia di Parise tiene nascosto sotto la vanità delle cose un sospetto di struggente esclusione… È scrittore colui che sa dare corpo a una meteora, a una cometa psichica, a un modello del mondo che non apparirebbe mai dal fondo del cielo senza le sue parole. Così è oggi l’opera di Parise: esposta, abbandonata nelle mani del futuro come un pezzo di vita che noi, che gli siamo stati contemporanei, non avremmo mai vissuto senza di lui.»
La scelta dell’ultimo titolo della seconda raccolta - nell’ ordine alfabetico che inizialmente Parise voleva portare al suo naturale compimento con la Z - cade non casualmente su SOLITUDINE. Ed è esattamente questo il sentimento che più costantemente si avverte in tutto il corso dei racconti di Sillabari e che, in qualche misura, trasforma l’iniziale lirismo della “poesia” dei primi brani in una prosa rigida e definitiva negli ultimi, che non lascia più spazio al movimento, alla velocità tipica di chi guarda al futuro, alla speranza, al canto.
Alla consegna della Laurea ad honorem conferitagli dall’Università di Padova poco prima della sua morte (1986), Parise nel suo discorso di ringraziamento dice:
«Di questo rilievo e di questa laurea sono grato al Rettore, alla Facoltà, ai docenti… Tuttavia è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Il merito, non di Cesare ma di Dio o del destino, va dato soprattutto all’esistenza dell’immaginazione, cioè alla libertà e allo spazio d’immaginazione che per la mia generazione è nato nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale e durato nel mondo circa vent’anni. Poi una rivoluzione, qualche cosa di tellurico per l’immaginazione è salito in superficie, qualche cosa di paragonabile soltanto alla rivoluzione agricola è accaduto nel mondo e la libertà di immaginazione, ciò che fa sognare e poetare l’uomo da vari millenni, si è trovato stretto nelle spire del programmatico, tutt’al più del noto e dell’antico: oggi così siamo indotti allo studio delle testimonianze dell’immaginazione, come in questa università umanistica, o a frugare tra i suoi antichi tessuti alla ricerca di sistemi combinatori che diano l’illusione della libertà…
Mi pareva che la poesia dovesse assumersi la prosa e viceversa. Mi pareva che il realismo, il naturalismo della letteratura italiana e non italiana dovessero aprirsi e scomporsi al di là delle regole tradizionali e scolastiche così come la canzonetta italiana si era aperta al
boogie…»





(Tratto dal sito Opere – Redazione virtuale)  





        
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