La Lavagna Del Sabato 26 Luglio 2008


PERFORMANCE TODAY

Renato Barilli





Il vocabolo inglese “performance”, e tutta la rete concettuale che gli sta dietro, sono così importanti da poter essere assunti addirittura a designare l'intero ambito delle arti come oggi si esercitano, nelle varie articolazioni di generi e di aree geografiche. Potrebbe insomma succedere alla performance quella promozione a grandi responsabilità che in altri tempi è toccata dapprima alla musica e poi all'architettura. L'estetologo inglese Walter Pater ha legato stabilmente il suo nome a un'espressione felice, quella che lo portò a proclamare, sul finire dell'Ottocento, che "tutte le arti tendono alla condizione della musica", e la formula esprimeva molto bene il bisogno di vaghezza, di aura magica, che allora colse l'esercizio delle arti in clima simbolista. Il Novecento, invece, soprattutto nella sua fase iniziale, volle reagire a quel senso di indistinto "non so che", sostituendolo con una pratica del rigore e della durezza, ponendo in cima ad ogni preoccupazione l'idea dell'homo faber, padrone del proprio destino e programmatore del proprio universo. Se pensiamo al clima del Bauhaus, come Io intendeva il suo fondatore Walter Gropius. vi valeva evidentemente un'espressione assai diversa da quella di Pater, sul tipo di "tutte le arti tendono alla condizione dell'architettura". Oggi, invece, siamo pronti ad ammettere che viviamo nella società del postindustriale. del postmoderno, del terziario avanzato, dove a dominare sono le arti dello spettacolo, e di queste appunto la performance si offre come l'etichetta più aderente ed eloquente. Nel mondo anglosassone, si dà del resto una stretta identificazione, le arti dello spettacolo sono correntemente designate come performing arts, al punto che in quel contesto linguistico il termine non assume l'accezione enfatica e caratterizzante di cui invece gode presso altre lingue.

Ma da dove viene, una parola oggi divenuta così fatale? Un'inchiesta etimologica in
proposito può essere fonte di numerose sorprese. Infatti il vocabolo risponde in primo luogo a quel fenomeno fuorviante che è detto della lectio facilior, la radice verbale originaria è stata piegata entro il solco di una radice diversa, più nota ed estesa, come quella contenuta nel "form", ma suscettibile invece di dirottamenti e incomprensioni. Se prendessimo questa via "facile", dovremmo pensare che il "performare" significa dare forma a qualche operazione tino in fondo, il che però contraddice abbastanza scopertamente il fatto che la performance suggerisce, al contrario, qualcosa di primordiale, di immediato. di informale; é insomnia un concetto che fa abbastanza a pugni con ogni possibile nozione di specie formalistica. Infatti, la pista del "forni" è un abbaglio, è appunto la "normalizzazione" di un apparentemente più arduo "l'urli". proveniente dal francese antico, saccheggiato dall'inglese nel suo primo modellarsi. Ma allora curiosamente la palla ritorna a noi neo-latini, che pure proprio nell'universale trionfo della performance coglievamo un segno in più della nostra sconfitta linguistica. Il furn francese antico corrisponde in pieno all'italiano forn, e dunque il furnir altro non è che il nostro comunissimo, e ancora in uso ''fornire".
Ecco fatto, che cos'è il compiere una performance se non il "fornire una prestazione", che
ovviamente si intende svolta nel migliore dei modi possibili. da cui senza dubbio un senso di
perfezione, di controllo formale, applicato però su una materia che non potrebbe essere più libera e aperta. Infatti, anche nell'italiano più corrente. si può parlare del fornire una
prestazione di ordine atletico, gastronomico, politico, perfino sessuale. Insomma emerge subito quello che in effetti è il connotato più vasto e portante del termine-concetto di performance, si " performa" con tutto il corpo, fisico e psichico, nudo o armato di ogni possibile dotazione strumentale, e senza limiti di tempo né di spazio. Il "fornire una prestazione" si dà da sé i suoi propri confini, richiede il tempo che ci vuole per portare a
termine l'impresa assunta nel modo migliore, e coi mezzi che le sono più convenienti.
Arrivato a questo punto della trattazione, io uso ricordare che la più bella performance o
prestazione registrata dalla nostra letteratura è quella di cui ci parla il Petrarca in un famoso sonetto del Canzoniere, dove mette in scena il "vecchierel canuto e bianco" che, con sbigottimento della famiglia, “lascia il luogo ov'ha sua età fornita”, per recarsi a Roma ad ammirare la Veronica. E qual è la suprema performance cui noi tutti siamo chiamati. e che cerchiamo di condurre nel modo migliore, compatibilmente ai nostri mezzi, se non il vivere, il dare corso e senso alla nostra esistenza personale? Tanto è vero che, quando qualcuno cade nell'esercizio di questa sua perfòrmance suprema e conclusiva, vittima del dovere, del fato, delle sciagure, è ormai invalso l'uso che la folla gli dedichi un applauso, al passaggio della bara. Le si concede appunto un riconoscimento di ordine teatrale.

Questo quanto risulta a un esame etimologico. Ma evidentemente esso non basta, bisogna subito chiamare in causa un più sostanzioso ordine di valori di contenuto. Ebbene, dietro questo culto del performare, o del tornire una prestazione il più possibile comprensiva ed esauriente, si cela una delle ragioni di fondo della nostra epoca. Probabilmente l'umanità è
sempre stata convinta che il bene supremo fosse il vivere, qui e ora, nel pieno ricorso ai
sensi, subito integrati dagli apporti intellettivi: basti pensare alla formula primum vivere
dein philosophari. Ma che cosa era di ostacolo, alla beatificazione di questo ordine di valori
esistenziali? Un fatto di natura conservativa, vale a dire, i beni affidati al corpo, alla piena
orchestrazione dei sensi pativano di un limite capitale, per loro non c'era la possibilità di
conservarli, di farli rimanere, di metterli prudentemente in banca. Si pensi all'apologo della
cicala e della formica. Il godere dell'immanenza piena della vita sensoriale altro non era, nei
secoli, che abbandonarsi al canto dispiegato ma di breve momento della cicala, meglio
allora seguire il modello della formica, decisa a risparmiare. E che cos'è il risparmiare, in
questo ambito, se non il "registrare", il memorizzare'? Ancora una volta, in proposito ci
soccorre un vocabolo inglese che oggi spopola, il recording, che d'altra parte, pure in questo caso, viene da un deposito latino, dal recordari.

I piaceri supremi del performare, del fornire prestazioni sinestetiche totali, nei secoli, erano
considerati immorali, o quanto meno antieconomici, disprezzabili come il canto sfrenato
delle cicale, perché non "rimanevano", si disperdevano nell'aria, nel vuoto, nel nulla. Per
millenni le formichine dell'umanità riuscivano a salvare solo i valori performativi suscettibili di essere registrati per via grafica, o con la scrittura o con il disegno, la pittura, la scultura. Perfino i valori nobilissimi della parola parlata, i più vicini ai doni immateriali dello spirito, erano condannati a volar via, come ammoniva il detto latino verba volant scripta manent. E con la flagranza dei suoni si disperdevano nel nulla gli aspetti del comportamento corporale, gesti, mimica facciale. Gli attori erano crudelmente puniti nelle loro virtù precipue, che non avevano possibilità di venir documentate, se non attraverso i filtri esosi delle illustrazioni grafiche o delle trascrizioni verbali. Buon per la musica che abbastanza presto nascesse la notazione su spartito, ma anche così tutte le componenti esecutive, vocali o strumentali, erano pur esse condannate alla sparizione. Insomma, l'intero territorio delle arti si divideva in due continenti, l'uno dei quali lasciato alle operazioni effimere delle cicale, l'altro invece suscettibile di essere piegato all'assennato spirito conservativo delle formiche.

Si noti che questa tragica suddivisione dell'umanità tra un destino di cicale, intente a godere dei piaceri dell'attimo, ma con l'amaro presentimento di essere condannate a perdere in breve quei loro frutti succulenti, e uno di formiche, sicure di salvare qualcosa, ma a patto di un processo di disseccamento, di sterilizzazione, risultava particolarmente accentuata, presso di noi Occidentali. La cultura dell'Occidente, infatti, ha proceduto da sempre a una scelta drastica a favore del profilo della formica. Noi siamo stati i pratici per eccellenza, portati a disprezzare tutto ciò che si presentasse coi caratteri della precarietà, dello splendore ma di corto fiato, condannato a estinguersi, a bruciare verde. Siamo stai oculati conservatori, attraverso una scrittura che non per nulla ha optato per il sistema fonetico, che è quello che sacrifica la pienezza contestuale delle cose a favore di uno smunto mosaico di segni buoni per ogni uso, perfettamente intercambiabili tra loro. Quanto al disegno e alla pittura, anche questi in genere hanno rinunciato all'opulenza decorativa preferendo fissarsi in aridi dettagli, in descrizioni particolareggiate di maniacale precisione. Naturalmente, anche nel nostro mondo occidentale, accanto ai valori ufficiali, improntati a un rigido senso del risparmio, sono sempre esistiti aspetti più "facili", legati ai momenti della festa popolare, a occasioni di consumo tra il folclorico, il religioso-superstizioso, e così via. Occasioni ricche di odori, sapori, colori, ma su queste in genere è caduto uno sguardo preoccupato, di condanna morale. Non per nulla siamo stati pronti a introdurre una scala di valori, tra le arti belle e le arti applicate, tra la bellezza pura e la bellezza aderente, e così via; laddove le culture extra-occidentali, non avendo alimentato una concezione così vigile del risparmio, della messa in banca, o in definitiva della prospettiva della formica, sono state assai più propense della nostra a concedere a tutte le manifestazioni colorite e saporite.
Che cosa ha mutato questo gramo destino delle attività performative, pur sempre nel quadro della nostra cultura occidentale? Inutile dirlo, come tutti sanno, si tratta della svolta tecnologica resasi possibile quando le strumentazioni elettromagnetiche sono entrate in gioco, sul finire del XIX° secolo, introducendo le varie modalità della fonografia, discografia, magnetofonia e simili, cui poi sono subentrate le possibilità di conservazione ancor più high fidelity insite nel ricorso al digitale. Tutto ciò ha infranto il tragico destino che per secoli si era compendiato nella massima del verba volant: le parole parlate, e dietro ad esse tutte le possibili fonazioni, emissioni di voci, di rumori, hanno trovato un ampio >riscatto, senza più il bisogno di passare attraverso le forche caudine della scrittura, della annotazione grafica. Prima ancora, è l'intero complesso delle attività gestuali, comportamentali, mimetico-facciali e simili, ad aver trovato il modo di venir fissate, dapprima su pellicola cinematografica, quindi su videonastro, il quale ultimo poi ha vissuto a stretto giro, e con incremento progressivo, le vie dell'analogico e quindi del digitale. Per dirla in breve, l'ideale della cicala è via via subentrato a quello della formica parsimoniosa, nel che devono essere compresi anche gli addentellati freudiani di una possibilità del genere.
Ovvero, per parecchi secoli l'Occidente aveva praticato quella che un grande interprete dei
nostri tempi, Herbert Marcuse, ha definito "la repressione addizionale", mai come nell'Europa borghese si erano represse le pulsioni libidico-erotiche, coi loro richiami
sensuosi, ed anche sessuali. Il principio del piacere era stato combattuto, inculcato, rimosso, e non tanto per qualche pregiudizio moralistico, ma, prima di tutto, per un impedimento di natura tecnica: gli eccessi sensuosi, gestuali, comportamentali dovevano essere falcidiati non tanto per una loro immoralità intrinseca, quanto per la ragione che per essi non sussisteva una ragionevole possibilità di "rimanere".

In definitiva, l'intero capitolo "occidentale" della suddivisone delle arti va visto sotto questa
luce: sono state in sostanza le forti motivazioni del "registrare" quelle che ci hanno portato a privilegiare la scrittura, soprattutto nella versione a stampa, rispetto alle manifestazioni
verbali affidate alla recita diretta, in presenza del pubblico; oppure, nelle arti visive, a portare alle stelle la purezza del disegno, appoggiata a un parco uso dei colori, o a materiali plastici, ma purché acromi, proprio per non concedere al provvisorio. Quanto alla musica, si poteva salvare ma purché accettasse la metamorfosi di vedersi affidata a una trama di tracciati grafici. Il teatro, lo spettacolo? Anche per essi poteva esserci una speranza di salvezza, purché accettassero la dura sorte di sottostare a una "letteraturizzazione". Ancora oggi sembra naturale e giusto che a occuparsi di teatro, a scuola, sia il docente di "lettere", non comprendendo che in tal modo si commette un vulnus insanabile sulla "vera" essenza di ogni specie di teatralità. Insomma, la frammentazione dell'Elicona, la nascita di una famiglia di Muse distinte, attente nel tutelare i limiti settoriali reciproci, più che essere appoggiata a sostanziose ragioni teorico-filosofiche, è stata l'inconsapevole discendenza di imperiose motivazioni di ordine tecnologico: non essendoci una possibilità di salvezza per l'intera e ampia e contestuale superficie sensuale (estetica) dell'agire umano, era inevitabile pronunciare un "si salvi chi può", e cioè ogni ambito estetico doveva andare a cercare una sfera di registrazione, in definitiva di natura grafico-visiva, se voleva sottrarsi alla catastrofe immanente.

Ma ora, visto che lo strumento per un recording globale esiste, che la tecnologia di specie
elettronica ce lo porge, quei confini, quelle barriere, diventano pretestuosi, obsoleti, possono cadere via via, e l'intera espressione estetica può andare a recuperare radici originarie e unitarie. Era quanto già un grande interprete della creazione panestetica presagiva nel corso dell'Ottocento, se si pensa a Wagner e al suo programma di Wort-ton-drama; e in un certo senso tutte le avanguardie storiche del primo e del secondo Novecento si sono riproposte di perseguire quel fine, forse in misura ancor più integrale e fondante; infatti resta il sospetto che Wagner intravedesse quel suo fine unitario come un risultato da conseguirsi a posteriori, cercando di rappattumare isole tecnico-artistiche già nate per conto loro e su un piano di rispettive autonomie: come federare delle unità statuali già sorte e regolate da proprie leggi, mentre la spinta unitaria della performance mira a regredire al nocciolo primario in cui le varie attività comportamentali non si sono ancora separate ma se ne stanno invischiate le une nelle altre in un nucleo inscindibile.

Mi vanto di insegnare in un corso universitario, presso l'Università di Bologna, che in sigla
suona DAMS, Discipline dell'arte, della musica, dello spettacolo, ma, per coerenza con
quanto detto sopra, spiego ai miei allievi, nella lezione inaugurale, che in realtà esso si
dovrebbe chiamare DP, Discipline della performance.






Renato Barilli, critico letterario e d'arte (Bologna 1935). Ha preso parte alla neoavanguardia degli anni Sessanta, culminata nel Gruppo 63. Come critico d'arte ha storicizzato le esperienze d'avanguardia, dalla pop art, alla body art. È Ordinario al DAMS di Bologna e Direttore del Dipartimento delle Arti Visive. Laurea in lettere nel 1958, incarico in estetica dal 1970, straordinario di storia dell'arte contemporanea dal 1972, ordinario di fenomenologia degli stili dal 1980. Ha scritto numerosi volumi di Estetica, di critica letteraria e di critica d'arte.


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