ITALIANI IN VILLEGGIATURA
Modalità e vittime del confino fascista

 

Edizione dei testi degli interventi a cura di Lorenzo Tamburini

 

Lo scorso sabato 31 gennaio si è tenuta, presso la Domus Mazziniana di Pisa, una giornata di studi sul confino di polizia nel ventennio fascista per dimostrare che, nonostante alcune recenti dichiarazioni abbiano suggerito il contrario, il confino dell’opposizione al regime non era propriamente uno svago. La manifestazione, organizzata senza il supporto delle autorità locali, è stata fortemente voluta dalla Biblioteca e Casa Editrice Franco Serantini di Pisa, in collaborazione con la Biblioteca della Casa della Donna di Pisa e l’ANPI, e ha felicemente avuto un buon riscontro di critica e pubblico. Un ringraziamento particolare ai relatori e alle relatrici, che sono stati, in ordine di intervento:

Serena Vitale, La memoria ferita.
Simonetta Carolini, La repressione del dissenso e la memoria storica: un’introduzione.
Alessandra Pagano, La storia e la geografia del confino in Italia: principali aspetti e mappatura.
Alessandra Gissi, Le donne al confino politico 1926 – 1943.
Franco Bertolucci, L’esperienza del confino per la provincia di Pisa: storia e storie di un territorio e dei suoi abitanti.
Fiorenza Tarozzi, Le anarchiche al confino.
Lorenzo Benadusi, Omosessualità al confino.
Marco Lenci, L’opposizione al colonialismo italiano: repressione e deportazione in Etiopia, Eritrea e Libia.
Laura De Marco, Manicomio e confino: pratiche di repressione.

SULLA VIA DEL CONFINO

Era un’impresa facile essere mandati al confino. Non importavano proclami in piazza o una forte attività antifascista, a volte era sufficiente il rifiuto del saluto romano, un “Muoia Mussolini!” sibilato a denti stretti, magari dopo aver udito l’ultimo bollettino di morti della guerra coloniale. Bastava questo. C’era sempre, da qualche parte, un solerte cittadino che all’udire quelle parole, sia per cieca fede nel regime che per paura, si dirigeva al più vicino posto di polizia e faceva la sua denuncia. Non vi era un processo, ma solo una misera “autodifesa” scritta, che richiedeva una competenza giuridica. Documento molto spesso inutile, dato che la condanna poteva essere formulata anche prima dell’arresto. A quel punto, il futuro confinato veniva messo in carcere e successivamente (a volte anche dopo mesi o anni in prigione) spedito al confino. Lipari, Ventotene, Ponza. Bellissimi posti, che oggi sono desiderabili e piacevoli per il loro sole e il mare. Ma non allora.
L’ideale di Mussolini era quello di creare un popolo italiano fedele e forte, un degno erede del perduto Impero Romano. Il partito fascista e la sua ideologia, ovviamente, racchiudevano in sé tutti i passi per raggiungere questo ideale di perfezione. Forte, perché il fascismo era sinonimo di virilità, perseveranza e fiera ostinazione (il celebre “Me ne frego! ”). Fedele, quindi uniforme: un’unica massa consenziente pronta a seguire il suo Duce ovunque egli l’avesse portata.
Ma qualsiasi ideale ha per forza dei contestatori e, nel caso di un ideale selettivo come quello fascista, anche degli individui che non rientrano nelle categorie sopra elencate. Si pone quindi il problema di cosa fare di queste persone. Il fascismo ha già dimostrato con l’omicidio Matteotti quanto poco siano gradite le contestazioni, ma è stato comunque un episodio che ha generato spaccature e malcontenti. La soluzione del confino è pratica e pulita: si permette all’oppositore di restare in vita, di avere anche una casa dove vivere apparentemente indisturbato, tuttavia lo si mette in condizione di non nuocere, bloccandolo in un posto isolato dal mondo. Un gesto che racchiude in sé tre aspetti: il compiacimento per aver dimostrato all’oppositore politico quanto facilmente possa essere ridotto al silenzio, la supremazia di uno stato repressivo inviolabile e l’ulteriore conferma per l’eventuale “diverso” di essere veramente tale, un’anomalia emarginabile per legge.
Ma chi erano i confinati? Uomini dell’opposizione, contestatori, ma anche categorie impensabili. Le levatrici, confinate in blocco, perché sospettate di praticare l’aborto clandestino e impedire così la proliferazione della razza. Oppure i “barrocciai” o altri lavoratori itineranti, che potevano essere veicolo di diffusione di idee sovversive. Chiaramente emarginabili erano anche gli omosessuali, ed era proprio qui che la logica di ragionamento fascista raggiungeva l’apice del paradosso. Omosessuale non era semplicemente un uomo attratto da un altro uomo, ma chi era motivo di vergogna per i suoi atteggiamenti effeminati o perché, in una relazione, era l’elemento passivo. Difficilmente un omosessuale attivo e virile nel portamento veniva confinato.
Il confino, punto di forza delle Leggi Eccezionali del novembre 1926, non fece che riproporre il domicilio coatto, già introdotto da Crispi: una legge nata per i briganti, che dopo i moti antigovernativi di Sicilia e Lunigiana, era stata estesa a qualsiasi dissenso verso la società politica. In questo breve resoconto, verranno analizzati alcuni casi particolari di confinati.

LE DONNE

Il fenomeno del confino femminile fu altrettanto consistente di quello maschile, anche se le fonti sono assai meno accurate e spesso riconducibili solo agli archivi della polizia. I motivi per i quali una donna poteva essere confinata erano più o meno gli stessi di quelli degli uomini: inizialmente solo per motivi politici, successivamente per motivi di “immagine”. C’era un ideale preciso della donna, la “fascista-fascista”, figura fiera ed energica, infaticabile procreatrice e sostegno morale dell’uomo.
Partendo con ordine dal 1926, le prime vittime del confino furono le organizzatrici dell’antifascismo militante. La prima donna ad essere confinata fu Alda Costa, ferrarese, socialista, anti-interventista durante la prima guerra mondiale. Seguirono Egle (la cui performance dietro le sbarre di “Bandiera Rossa” mandò in subbuglio il carcere), Anita e Candelora (efficaci collegamenti tra i vari antifascisti, magari anche legate sentimentalmente a qualcuno di loro). L’anno dopo, tra le motivazioni incriminanti fu inserito il legame di parentela. Ida Lucetti la cui famiglia vantava una lunga tradizione di sovversione e una altrettanto lunga sequela di arresti e segnalazioni, fu tradotta a Ustica. Persino mettere fiori su una tomba poteva essere pericoloso, se apparteneva ad una vittima del fascismo. Successe a Vera, colpevole di avere così ricordato la morte di Spartaco Lavagnini e poi a Isabella, che aveva preparato una corona di fiori per il funerale di un antifascista.
Ma come già detto prima, in un’ideologia totalitaria tutto questo non basta. Ci sono precisi canoni da rispettare e se la donna fascista non si impegna per il bene morale della patria, è inutile e da confinare. E’, con le parole spregiative del regime, una “meretrice”. Alcune di loro esercitano, perché senza fissa dimora, come Michelina, la cui colpa maggiore non è stata vendere il proprio corpo, quanto aver urlato un sentito e popolano “Andate a morì ammazzati voi e Mussolini!” o come Emilia, che non si prostituisce, però ha avuto tre figli illegittimi (e questo è grave) da un pregiudicato fuoriuscito (e questo è ancora più grave).
Ma non è ancora sufficiente. Il destino si adopera per togliere il sonno a Mussolini e mettergli davanti nuovi nemici. L’effetto domino del crollo di Wall Street ha le sue ricadute anche in Italia. I salari vengono tagliati e le prime vittime dei licenziamenti sono le donne che, visto che hanno una prole da mantenere, “occupano inutilmente” dei posti di lavoro. E i bambini diventano un’ottima arma nelle mani dei fascisti. Lea è confinata, perché madre irresponsabile che ha affidato sua figlia al Partito Comunista, causandone la morte a Mosca per malattia. Al contrario, Carlotta figli non ne ha, ma è scaltra, violenta e soprattutto amica di tutti i comunisti di Massalombarda, nonché organizzatrice di “riti bolscevichi”. Maria, invece non ha nemmeno queste colpe, ma il marito è in carcere per aver ucciso due fascisti e la sua presenza è un potenziale detonatore nelle menti del popolo ravennate. Fuori. E’ l’irredentismo sloveno a togliere il lavoro a Ludmilla e a spedirla per due anni a Ponza. E alcuni scarabocchi con nomi e cifre sono il foglio di via per la biellese Amalia.
Siamo al 1935. L’Italia, che ha sempre sofferto di un nazionalistico complesso di inferiorità nei confronti dei paesi vicini colonizzatori, è impegnata su più fronti di conquista possibile. In Africa, sottomettono Libia, Etiopia e Eritrea e, già che ci sono, offrono man forte a Francisco Franco nella guerra di Spagna. Qualcuno è un po’ perplesso sull’effettiva validità di questa strategia, qualcun altro per motivi personali o religiosi (avventisti e testimoni di Geova) dissente dalla strategia militarista. Il fascismo non approva il “disfattismo” pessimista di queste persone e li manda ad accrescere il già consistente numero di confinati. Ovviamente, anche qui le donne giocano un ruolo cruciale. Perché si può essere comuniste, “fasciste-fasciste”, anarchiche o indifferenti, ma si è sempre madri o sorelle di qualcuno che è stato spedito in guerra o che corre questo rischio.
Inizialmente si viene puniti solo per attività connesse alla guerra di Spagna. Combattere coi repubblicani spagnoli permette agli antifascisti italiani di eliminare, alla luce del sole, qualche fascista nostrano e Gioiosa è tra le donne condannate per aver permesso l’espatrio verso la Spagna dei nemici del regime. Successivamente è la Seconda Guerra Mondiale a causare la rabbia e la voglia di ribellione delle donne italiane, già fortemente provate nel sostituire gli uomini sul posto di lavoro e nel dover essere l’unica ed esclusiva fonte di cibo per la famiglia. Enrichetta lo urla in piazza che Mussolini è uno “svuota-salvadanai” e che chi ne tesse le lodi è un “pappagallo”. E Rachele, ironicamente un nome molto caro al Duce, viene arrestata per aver addirittura sputato sulla sua effigie. Altrettanto drastiche la bolognese Rosa e la torinese Francesca che desiderano una pallottola da piantare in faccia a Mussolini. Invece Maria Angela non commette nessun gesto eclatante, è solo una povera contadina che fa il suo lavoro, ma è una testimone di Geova e obbedire al proprio Dio piuttosto che al Duce la manda un anno a Ventotene.
Per quelle come Maria Angela, la vita al confino non è facile. Lontane da ogni ideale politico, si ritrovano spesso isolate nelle discussioni, che inevitabilmente vertono sul fascismo. La jugoslava Meta lamenta di essere l’unica donna del suo gruppo e ciò le crea un comprensibile imbarazzo e senso di solitudine. La già citata Amalia, invece, una volta a Ponza comincia subito a organizzare riunioni e gruppi, tanto che le sono imposte, come misure restrittive, prima il divieto di andare a braccetto con gli uomini e poi di non poterci parlare affatto. Amalia è solo la prima di una serie di donne a cui venne impedito, per motivi di ordine generale, di parlare con altri uomini.
Un altro problema era quello della sopravvivenza economica. Il sussidio giornaliero calò drasticamente da dieci a sei lire e qualsiasi spesa straordinaria, persino le cure mediche, doveva essere chiesta al Ministero che, con calma e a discrezione, avrebbe preso provvedimenti. Oppure il problema dell’indennità dell’alloggio, che obbligò Maria a vivere a Ponza, col suo bambino, in una stanza umida messa pietosamente a disposizione dagli altri confinati. A Lipari, Paola lamenta le discriminazioni nel trattamento delle confinate donne che non ricevono dallo Stato nemmeno di che vestirsi. Savina1, dal cosentino, lamenta che i generi alimentari stanno scarseggiando. L’assistenza sanitaria era altrettanto latente: si denunciavano condizioni igieniche al limite della tollerabilità, donne incinte o con problemi di reni abbandonate a loro stesse.
A differenza dei confinati maschi, le donne non avevano un organo amministrativo che documentasse le loro richieste, eccezion fatta per le fonti di polizia. E’ da questo archivio che viene fuori un universo femminile provato dalle torture del confino ma che, nelle sue richieste, mantiene inalterata una dignità che il regime fascista non riuscì assolutamente a stroncare.

IL CONFINO NELLE COLONIE

Anche il colonialismo italiano era nato, inizialmente, come valvola di sfogo per deportare i numerosi briganti che infestavano l’Italia. Tuttavia finì presto con l’estendersi, e in forma massiccia, anche alla popolazione locale dei paesi conquistati, che venivano obbligati ai lavori forzati nella costruzione delle opere di regime in Africa. Molto spesso, si attuavano anche delle deportazioni di massa, visto che i luoghi dove la “manodopera volontaria” risiedeva erano distanti dai cantieri. Si crea “Lo statuto degli indigeni”, dove si ribadisce l’importanza della punizione corporale che è aberrante per un europeo, ma sicuramente più congeniale alla mente primitiva del colonizzato di colore. Lo stesso primitivo che protesta, e anche energicamente, perché la procedura di confino non prevede un processo, e quindi ritiene incivile condannare qualcuno senza l’intervento di un giudice.
La colonizzazione in Africa e i relativi sconfinamenti avvengono in tre fasi. La prima fase fu nel 1885, con l’impianto a Massaua. Gli italiani si trovarono davanti un mondo praticamente sconosciuto, che non sapevano come gestire e che si rivelò subito insidioso con il massacro di cinquecento soldati a Dogali. La repressione del governo fu altrettanto dura e vide la nascita di due tipi di “relegazioni”: quella interna all’Africa ebbe come centro l’isola di Nocra, un campo di raccolta dalle condizioni di vita molto dure, mentre quella esterna vide i Ras, i capi ritenuti più pericolosi dell’opposizione indigena, in viaggio verso località italiane come Procida. Il clima troppo freddo per gli africani e le proteste solidali degli italiani fecero scemare rapidamente questo flusso coatto.
La seconda fase del colonialismo italiano riguardò la guerra di Libia (iniziata nel 1911 e protrattasi, a fasi alterne, fino al 1931) e in particolare la repressione dopo il tradimento di Sciara Sciat (quando le truppe di rinforzo arabe abbandonarono a loro stessi i bersaglieri italiani in battaglia). Se la “relegazione esterna” riguardò le Tremiti (la Libia reclama ancor oggi le salme dei deportati), quella interna fu ancora più devastante. Per ordine del generale Rodolfo Graziani, la massima autorità italiana presente sul campo, fu attuata la politica della “terra bruciata”: interi villaggi, senza alcun rispetto per gli anziani o i bambini, furono deportati in pieno deserto in grezzi campi di concentramento e praticamente abbandonati al loro destino.
La terza fase vedrà ancora protagonista lo spietato Graziani, ma stavolta come causa scatenante. E’ un attentato ai suoi danni, organizzato dagli etiopi al suo servizio, a scatenare la repressione e il confino, nuovamente in Italia, dei Ras locali. Poi, per esplicito intervento di Mussolini, secondo cui “c’erano troppi neri a giro”, la deportazione esterna avrà fine, per concentrarsi sul lager somalo di Danane, le cui torture quotidiane sono raccontate nella testimonianza diretta, recentemente pubblicata, del comandante Mazzucchetti.
Una menzione particolare la merita Isaac Menghistu Isaac, l’unico a ricevere un trattamento equivalente a quello dei confinati italiani. Persona di notevole cultura, venne a Roma nel 1930 per studiare Ingegneria e si lasciò scappare affermazioni antimperialiste, durante le ultime tragiche notizie sulla guerra in Etiopia. Deportato tra Ponza, Ustica e Ventotene, si darà attivamente alla militanza politica, diventando anche amico di Sandro Pertini che, nel 1980, lo riceverà al Quirinale.

IL CASO MASETTI

Bologna, 30 ottobre 1911. E’ mattina nel cortile della caserma e i soldati si stanno preparando per raggiungere i loro compagni in Libia. Quella della Libia è una campagna dai risultati alterni, l’ennesimo capitolo dalla fine incerta della colonizzazione italiana in Africa e in molti, in tutta Italia, hanno già iniziato campagne per la smilitarizzazione. Al contrario, il tenente colonnello Stroppa a questa guerra ci crede. Ma Augusto Masetti, un soldato fra tanti, non vuole andare in guerra. Soltanto la settimana prima ci sono stati i massacri dei soldati italiani a Sciara Sciat e a Tripoli, seguiti da una spietata repressione nei confronti degli arabi. Pagine tristi o infamanti di cui non andare fieri. Stroppa e i suoi superiori puntano ad altro. Ma anche Masetti. Precisamente sta puntando il suo fucile verso il suo stesso esercito. E spara. Tutti gli sono addosso, Masetti grida “Viva l’anarchia! Abbasso l’esercito!”. Stroppa è colpito, ma non muore, è solo ferito.
La notizia che un soldato ha sparato a un suo superiore si sparge rapidamente, gettando nel panico le autorità. Durante gli interrogatori, Masetti dà ogni volta una giustificazione diversa per il suo atto e appare confuso. Si decide di verificare il suo stato psichico. La prima visita è l’8 novembre al manicomio di Reggio Emilia, per stabilire se sia processabile o meno. La vita di Masetti è analizzata in ogni deviazione: dall’isterismo del ceppo materno al sonnambulismo di cui ha sofferto da piccolo fino ai suoi problemi con l’alcool. Si applica anche il metodo lombrosiano, perché col suo aspetto grezzo, quasi scimmiesco, Masetti rientrerebbe nelle categorie “degenerate” dei criminali. Il giudizio finale è che Masetti non è un anarchico come si è proclamato ma, più semplicemente, un uomo incapace di dominare le proprie emozioni. Un degenerato da internare nel manicomio di Reggio Emilia.
Una volta in manicomio, Masetti alterna momenti di quiete alla disperazione. Gli giungono molte cartoline di sostegno, che mettono in allarme le autorità. Trasferito a Montelupo Fiorentino, sembra ravvedersi del suo gesto, tanto che il direttore si mostra favorevole ad un suo ritorno nel mondo civile. Segue un nuovo trasferimento a Imola, il cui direttore Ferrari aveva destato scalpore nel mondo psichiatrico italiano per i suoi tentativi di civile recupero degli internati. Qui Masetti trova anche un lavoro come calzolaio. Ma non è ancora finita, c’è un nuovo trasferimento al manicomio di Padova, dove i suoi sorveglianti notano l’atteggiamento quieto e la speranza in una liberazione ormai prossima. Ma i giudici continuano a non fidarsi delle perizie mediche.
I comitati Pro Masetti cominciano a diffondersi e ad alzare la voce. Gli anarchici accusano il governo di aver voluto punire Masetti con la pazzia, piuttosto che con la fucilazione, perché consapevoli dell’antipatia che il popolo italiano aveva per la guerra. Oltre alla salvezza di Masetti, ci si adopera anche per la propaganda antimilitarista nelle caserme, a cui seguono scioperi e manifestazioni. Tre persone vengono uccise a Ancona.
La perizia del 1915 stabilisce che Masetti deve restare internato e viene rispedito a Imola. Le proteste e le lotte in suo favore, più demoralizzate di lui, si spengono e addirittura alcuni suoi sostenitori passano all’interventismo. Masetti trova un amico nel direttore Baroncini, che si dimostra fiducioso nel suo recupero, tanto da ricevere dei richiami dall’alto per le uscite premio che concede a quell’internato pericoloso. Nel 1919, grazie a una supplica della madre, Masetti esce dal manicomio per essere curato in una casa privata a poca distanza.
La triste vicenda di Masetti è un esempio lampante di come un regime poteva sfruttare a suo piacimento anche la scienza, soprattutto una così potente come la psichiatria. E l’accanimento nel tenerlo rinchiuso è solo un’anticipazione del confino a Sassari, che lo attende negli anni ’30, per la sua esposizione contro la guerra in Etiopia. Da quella fucilata del 1911, la vita di Augusto Masetti sarà per sempre imbrigliata e decisa dalle autorità. Persino nella morte, causata con ironia da un motorino che lo travolse, ormai ottantenne, nel 1966. A guidarlo, un vigile urbano.

L’IMPEGNO DELLA PROVINCIA DI PISA

21 morti in conflitti a fuoco e 63 sedi di partiti, sindacati o cooperative distrutte. 58 confinati, senza contare i residenti mandati al confino da altre regioni. Questo è parte del tributo che l’antifascismo di Pisa ha pagato nella sua lotta contro il regime. Una provincia molto attiva, quando si è trattato di alzare la voce nelle varie fasi di maggiore protesta e che poteva contare su un sottobosco di riviste gestite e scritte da operai. Ed è un fatto notevole, se si pensa che la media lavorativa degli operai era di dieci ore al giorno e la stragrande maggioranza non era andata a scuola oltre le elementari, costruendosi di conseguenza una cultura da autodidatti.
Uno dei primi a provare personalmente l’emarginazione di regime fu il 57enne livornese, ma pisano d’adozione, Virgilio Salvatore Mazzoni, esponente della Camera del Lavoro, intellettuale dalle valide doti oratorie e animatore della vita culturale pisana. In una prima fase l’impegno del fascismo fu colpire personalità come lui (che già aveva subito il domicilio coatto sotto Crispi), gli intellettuali che potevano creare un’opposizione concreta e ragionante, senza fare politica attivamente, ma comunque offrendo una linea di pensiero contrastante. Nella prima fase (dalle Leggi Eccezionali alla chiusura di Lipari), verranno confinate altre figure di intellettuali, come l’ex sindaco di Carrara Edoardo Starnuti, direttore de “La Sveglia Repubblicana”, Roberto Barsotti, organizzatore degli Arditi del Popolo, o il propagandista comunista Giuseppe Ciucci che, tanto per smentire le teorie “vacanziere”, al confino si ammala e muore.
La seconda fase comprende il periodo delle guerre di Etiopia e Spagna, dove oltre ai contrari ai conflitti si cerca di bloccare quelli che in guerra ci vogliono andare, ma in Spagna, per sparare ai fascisti. Tra le figure principali, Francesco Fausto Nitti, già nell’organizzazione antifascista “La Giovane Italia”. Combattente in Spagna, si sposterà poi nella Resistenza Francese. Catturato e confinato a Lipari, tanto per non smentirsi, sarà protagonista della fuga dall’isola assieme a Emilio Lussu. Oppure Florindo Eufemi, ciclista, astro nascente dello sport fascista, che al traguardo della Nizza – Marsiglia, tira diritto per andare a combattere in Spagna, dove poi verrà ucciso. I nemici del regime sono cambiati: non sono soltanto gli intellettuali da incarcerare preventivamente ogni volta che un gerarca arriva in città, adesso ci sono anche gli operai e i piccoli artigiani, quella massa imprevedibile che Mussolini vuole imbrigliare, ora che il consenso popolare e la sintonia con i Savoia sembrano aver raggiunto l’apice. E chi si ribella riceve una punizione esemplare. L’imbianchino Fulvio Bianchi ha solo detto “Si muore di fame già adesso, figuriamoci con la guerra!”, ma ciò non gli impedisce di essere confinato per quattro anni.
Dal 1939 al 1943, anno in cui la pratica del confino viene finalmente abolita, le vittime principali sono i reduci della Resistenza spagnola, come Ideale Guelfi e Guido Ciardi, arrestati in Francia e internati nei campi di lavoro locali. Oppure Umberto Raspi, operaio anarchico di Volterra, che partecipa al Biennio Rosso tra gli Arditi del Popolo e poi va a combattere in Spagna. Dopo il confino, va a Genova a sostenere la Resistenza. Catturato dalle SS, viene deportato a Buchenwald e fucilato. Una fine altrettanto tragica era toccata due anni prima ad un altro operaio anarchico, Gino Piaggesi, morto per le dure condizioni di vita nel carcere di Palermo. Sono comunque gli ultimi sussulti di una repressione talmente morente che da indagini successive si scoprirà che molti “ribelli” avevano la tessera del PNF, segno di una crisi irreversibile nel regime. Le ultime due denunce di rilievo sono per l’ebreo (particolare sottolineato nella denuncia) Giangiacomo Gallico e per il fruttivendolo Romolo Corucci, entrambi accusati di raduni sovversivi.

Molti dei personaggi sopra elencati sono passati dallo status di aspiranti eroi a quello di illustri dimenticati, per pigrizia, mancanza di memoria storica o altre giustificazioni, comunque non abbastanza valide. L’iniziativa della BFS (iniziativa autogestita, teniamo a ricordarlo) è servita a ribadire dei punti fermi nella storia di una nazione, che si vuole dimenticare con troppa faciloneria. Dietro il lavoro di bombardamento alleato, che viene portato come unica e sola causa della fine del fascismo, ci sono stati tantissimi uomini e donne, piccoli forse e insignificanti agli occhi della Storia, le cui parole, battaglie, ma soprattutto lo spirito di sacrificio hanno permesso di spianare la strada alla vittoria finale. Consapevoli di poter sparire o di poter morire. Abbiamo voluto ricordarli coi fatti, senza eccessiva retorica, perché è solamente col ricordo e lo studio dell’esperienza passata che l’umanità può pretendere di migliorarsi e giungere ad una società civile e democratica.

1 ACS, Agr, Confino Politico, fasc. “Savina B.” b. 94

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