PER UNO STATO LAICO, PER UNA IDENTITA’ RELIGIOSA INTIMA E SINCERA

 

Di Stefano Martello

 

 

 

La natura dell’intervento per il quale mi appresto a dare una mia umile riflessione è delicatissima; risulta altresì lampante come tale riflessione non possa e non debba considerare solo l’episodio che mi ha “regalato” lo spunto – la rimozione del crocefisso da parte di una insegnante, poi sospesa dall’incarico, in una scuola della provincia di La Spezia -, ma altresì sia permeata da elementi che “vivono” in ogni ambito dell’attuale società, come tragicamente e limpidamente confermato dai fatti dell’11 settembre.

Ho letto con crescente interesse i vari interventi di sapienti colleghi in merito all’argomento, e ho tratto dagli stessi l’impressione di un sentimento di “tolleranza” (e mi perdonino i miei interlocutori per il termine improprio) nei confronti del gesto “coraggioso” dell’insegnante, un gesto che non può definirsi “sbagliato” nel senso letterale del termine, ma che nel contempo rompe un orientamento consolidato.

Quanto sopra emerge con chiarezza dalle parole del Dott. Salvatore Prisco che, nel sentito intervento del 16 novembre 2001 al Forum on line dei Quaderni Costituzionali, afferma che, “educato da cattolico secondo la fede dei miei genitori e di altri prima di loro, mi sento da lungo tempo un laico problematico, epperò consapevole con Benedetto Croce (ecco il punto) che non possiamo non dirci cristiani”.

Risulta così come, pur vivendo l’ambito religioso come intriso di problematiche sociali, lo stesso riesca ad imporsi nel nostro modo di vivere alla stregua di un dato predefinito che può essere modificato in alcuni aspetti esteriori, ma che rimane intatto e perfetto nella sua essenza più intima.

Quanto sopra emerge in maniera lampante anche e soprattutto dal lavoro intellettuale dei primi giuristi; scriveva Ulpiano nel primo libro delle Istituzioni a proposito del diritto che esistono due tipi di diritti: il diritto pubblico considerato di competenza dello Stato unitamente a quello privato che viene finalizzato all’utilità dei singoli cittadini.

Ma l’elemento che maggiormente interessa questo intervento risulta essere la sottodivisione del diritto privato che – sempre secondo il pensiero di Ulpiano – è costituito da precetti legati alla Natura contrapposti ai precetti legati ai popoli; proprio tale ultima “famiglia” trova la propria essenza e fallibilità nella nascita ad opera dell’ingegno umano, essendo costretta così a ricorrere al diritto naturale come fonte infallibile e inderogabile.

Lo stesso pensiero si deduce dagli scritti di Ermogeniano in merito all’istituto dell’affrancamento, in cui la pratica della schiavitù viene intesa come opera dell’uomo – in quanto secondo il diritto naturale tutti gli uomini nascono liberi, tutti sotto il “dominio” di Dio – ed identificando quindi l’istituto dell’affrancamento come unico mezzo per ristabilire un equilibrio divino e assolutamente giusto, precedentemente “bypassato”.

Mi vorranno perdonare i lettori per questa breve quanto inadeguata dissertazione in materia di Diritto comune, ma quanto sopra scritto per dimostrare come il pensiero religioso abbia rappresentato per secoli un sentiero chiaro pronto a guidarci alla vetta del monte e pronto a salvarci dall’incertezza di non sapere realmente cosa ci aspetta dopo l’inevitabile passaggio.

E senza poi andare troppo indietro nella storia dell’umanità, basti vedere l’attuale influenza religiosa nella visione del diritto penitenziario, e, più nello specifico, nella visione del lavoro da parte del detenuto all’interno dell’Istituzione totale; una influenza che vede il detenuto – punito per crimini commessi nei confronti della società civile, e quindi “reati laici” – relegato in un limbo dove il suo unico compito è quello, tradizionalmente cattolico, di espiazione della pena, intesa come momento in cui tutte le normali attività sono precluse, a vantaggio di un isolamento culturale e lavorativo che trova la propria essenza nel concetto del pentimento.

Niente a che vedere con l’orientamento di stampo anglosassone risalente al diciannovesimo secolo, in cui il detenuto, proprio perché “contrario” alle norme istituzionali di un contesto civile, deve essere “rieducato” al rispetto di tali norme attraverso lavori sociali che lo identifichino nuovamente come “consociato” e non alla stregua di una pedina impazzita all’interno di un meccanismo perfetto; quanto sopra per giustificare la visione del lavoro dei detenuti nel modello inglese ed americano e per condannare l’assoluta inerzia lavorativa del detenuto italiano che si deve misurare con un sentimento antistorico e ancorché poco utile ai fini della tanto conclamata “risocializzazione”(1).

Di poi – in ambito prettamente sociale - anche e soprattutto l’attuale prevalere di visioni antropocentriche che si sono contrapposte alla cultura monoteistica e panteistica e si sono affermate come punto centrale di inizio e di dibattito in merito a problematiche quali l’eutanasia o le tecnologie della riproduzione assistita (2); tali visioni, aiutate dall’emersione di una società dai caratteri marcatamente laici e complice un innegabile progresso della scienza medica, hanno provocato una netta flessione dei sentimenti religiosi, ritenuti ormai obsoleti e poco consoni al nuovo assetto sociale.

Quanto detto mi induce ad una necessaria riflessione: forse il sentimento religioso è nato ed è prosperato nei secoli sotto l’ègida dell’alibi? Forse proprio l’eterna incertezza si è posta come terreno fertile per la nascita di valori che nulla hanno a che vedere con il contesto sociale ma che si affermano solo come elementi di “felicità apparente” (3)?

Sono d’accordo con il Dott. Prisco (4) quando ricorda le sapienti parole dell’insigne giurista e colto pubblicista Calamandrei, ma nel contempo non posso scordare come lo stesso Calamandrei ha affermato che il giudice “deve essere tanto sicuro del suo dovere, da dimenticare, ogni volta che pronuncia la sentenza, l’ammonimento eterno che gli viene dalla Montagna: Non giudicare” (5).

Non quindi portatore di giustizia semidivina, ma dispensatore di una giustizia fallibile, perché umana, necessaria, perché in sua assenza si avrebbe un clima di anarchia; una giustizia che afferma “il nome di giudice che è un nome onesto ed austero, come quello che distingue un ordine religioso” (6), ma in questo caso la religione non si identifica nella certezza assoluta, bensì si trasforma in fede nei confronti di quei valori – libertà, uguaglianza, tolleranza – che nel corso dei secoli spesso sono stati collocati in dottrine religiose, ma che forse, a parere di colui che impudentemente scrive, hanno più attinenza con il cammino laico dell’umanità.

E proprio a proposito del sentimento della tolleranza, non posso scordare come – all’interno dello statuto della Académie Universelle des cultures – una delle dichiarazioni introduttive affermi la tutela del grande “meticciato di culture” europeo, con un indiretto riferimento alla negazione del concetto di melting pot (7).

Una problematica che, prima di essere religiosa, quindi, riversa i propri effetti nella sfera economica e sociale; non si discute più sull’ammissione in università europee di studentesse con il chador, o sulla costruzione di moschee in città italiane, ma si discute animatamente sui mezzi di tutela giuridici ed economici da accordare; la religione non è più un problema, lo è invece l’ancora instabile assetto mondiale (8)!

Ancora sulla tolleranza – e quindi sull’intolleranza -, mai come oggi il fondamentalismo si afferma come un male assoluto, strettamente legato ai tragici fatti dell’11 settembre; ma il fondamentalismo è intollerante?

Umberto Eco afferma che lo è solo sul piano ermeneutico, ma non necessariamente su quello politico (9), riportando l’esempio della corrente political correctness nata in America con l’espresso fine di tutelare ogni differenza, religiosa, razziale e sessuale, e divenuta nel tempo una vera e propria corrente fondamentalista che investe il linguaggio quotidiano e che “lavora sulla lettera a scapito dello spirito”.

Basti poi vedere le reazioni – alibi della popolazione italiana, quando nel 1997 numerosi albanesi entrarono nel nostro paese a bordo di insicure barche poi filmate nel film “Aprile” di Nanni Moretti: accoglienza e cortesia in apparenza; intolleranza cieca nelle interviste anonime.

Come risolvere il problema?

Forse sganciarlo da settori troppo ingombranti quali la religione; trattarlo da problematica sociale, o meglio, trattarlo come necessaria evoluzione sociale e storica; perché il problema non esiste, si tratta solo di approntare un adeguato piano di protezione e lasciare che la Storia faccia il suo corso.

Se vi piace sarà così, e se non vi piace, sarà lo stesso! 

In conclusione, non riesco a condannare il gesto dell’insegnante, proprio perché quel crocefisso rappresenta per me un simbolo estraneo all’aula scolastica, collocandosi piuttosto in maniera ottimale in una sfera intima e privata, e che proprio nella sua intensa soggettività rifiuta ogni schema predefinito ed ogni regola: da cittadino sono tenuto, per necessità e nel contempo per consapevolezza, a seguire delle norme che mi “regalano” diritti e doveri; ma nel mio intimo sono – devo essere - totalmente libero di identificare in quella figura un martire, un combattente, un poeta o un grande pensatore.

Tale conclusione non vuole e non deve essere interpretata come un tentativo maldestro di sottrarre al pensiero religioso valenze culturali, bensì vuole cercare di riconsegnare allo stesso quei principi che furono testimoni della sua “nascita”; quegli stessi principi che, “sporcati” e mutati da sentimenti umani nel corso dei secoli, hanno determinato la nascita di un culto di massa che nulla ha a che vedere con il significato originario della religione.

 

Note

 

(1) Senza contare poi il sentimento di inerzia culturale che, ad onore di cronaca, si sta cercando di combattere; a questo proposito l’Autore vuole citare la testimonianza di un detenuto che ha partecipato ad un esperimento teatrale condotto da Lamberto Giannini all’interno del carcere “Le sughere” di Livorno: “all’inizio è stato pesante, come togliersi la maschera davanti a tutti e mostrare il proprio volto…i miei compagni di corso sono tutti dentro per storie di droga e rapine, ma durante la lezione sembra che il problema sia lontano da loro come se appartenesse ad un’altra vita…quando siamo tornati nelle celle eravamo accompagnati da una allegria insolita”. 

 

(2) Il cd. rapporto tra i diritti della personalità e la scienza bioetica, che ha posto l’esigenza di passare “dal problema alla norma” (la definizione è di Alessio Liberati) studiando la possibilità di legiferare solo principi guida – la giuridicizzazione dell’etica – rimettendo ad apposite istituzioni la regolamentazione dei profili specifici. Allo stato dei fatti, tale percorso si afferma come unica alternativa, ma nel contempo lo stesso si pone come fonte di possibili ed eventuali disuguaglianze, con il rischio di probabili “oasi dell’eutanasia” dove il dettato legislativo è più “morbido” e permissivo; senza contare poi l’eventuale sfruttamento di paesi politicamente instabili ed economicamente poveri.

 

(3) Conseguentemente “cadendo” nel contesto sociale attuale, dove l’unica incertezza riguarda il momento del trapasso.

 

(4) Il lettore può leggere l’intervento nel Forum dei Quaderni Costituzionali della Casa editrice Il Mulino.

 

(5) La frase è contenuta nel libro “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, Edizioni Ponte alle grazie, ultima edizione del 1956, all’interno del capitolo sulle somiglianze e le differenze tra giudici e avvocati.

 

(6) La frase risale al lontano 1938 ed è contenuta nella prima edizione del libro “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”.

 

(7) Basti osservare la città di New York dove diverse culture coesistono, dai portoricani ai cinesi, dai coreani ai pakistani; Umberto Eco anzi afferma che “la popolazione detta bianca, a New York, si avvia ad essere una minoranza, il 42% dei bianchi sono ebrei, e l’altro 58% sono di diversissime origini, e tra loro i wasp (bianchi, anglosassoni e protestanti) sono la minoranza” (tratto da U. Eco, Cinque scritti morali, pasSaggi Bompiani, Milano, 1997).

 

(8) Per motivi che molti, ostinatamente, continuano a definire “religiosi”, ma che in realtà sono solo e solamente interessi economici legati a risorse economiche.

 

(9) “Si può immaginare una setta fondamentalista che assume che i propri eletti abbiano il privilegio della retta interpretazione delle Scritture, senza peraltro sostenere alcuna forma di proselitismo e volere pertanto obbligare gli altri a condividere quelle credenze, o battersi per realizzare una società politica che si basi su di esse” (tratto da U. Eco, Cinque scritti morali, pasSaggi Bompiani, Milano, 1997). 

 

Stefano Martello (1974), Giornalista, saggista e poeta, per la Rivista Sagarana ha già pubblicato i saggi “Per una cultura popolare ed istituzionale” e “Per un nuovo servizio civile”. Attualmente collabora con il portale giuridico Diritto.it, con articoli giuridico-sociali.