IL FAZZOLETTO ROSSO

Ugo Moretti


Arrivammo al Comando in quattro, e fu inutile fare l'appello. Gli altri erano rimasti lungo la strada: prima tre, all'imboscata, poi due al passaggio del ponte e gli altri due nel bosco, dissanguati.
In undici eravamo: una piccola banda aggregata, con funzioni di collegamento, undici come una squadra di football, ci eravamo messi i nomi di una vecchia nazionale: Combi, Rosetta, Caligaris e via di seguito, sicché oggi, quando ripenso a loro, i morti e i vivi che non ho visto più, la loro immagine si sottopone a quella dei calciatori fissata in clichès, con la maglia azzurra e lo scudetto sul petto. Non ci pensavamo allora che poteva finire così. L'idea ci aveva divertito e qualche volta discutevamo sull'organizzazione di un grande campionato fra formazioni partigiane, da fare dopo la guerra, dove avremmo sicuramente battuto tutti gli altri.
Eravamo abbastanza giovani per sognare anche questo. Il più vecchio ero io, a venticinque anni, il più giovane Guaita, che ne aveva diciotto, e nella primavera del '44, cacciati dentro un fienile che ci serviva da rifugio, da deposito e da osservatorio, di che avremmo dovuto parlare se non di fascisti, di ragazze e di pallone?
Anche il fienile dove passammo tanti giorni e notti della nostra giovinezza, lo distrussero; nemmeno vale la pena di andarci in pellegrinaggio a cercare tra i pali bruciati le parole e i sogni che lo popolarono. Troppe volte il vento è sceso giù dalla montagna e ha disperso il ricordo di noi in quella valle, e i volti che evocavamo nei nostri desideri e negli odii, quello del tedesco che volevamo far fuori, quelli delle ragazze del paese che ci scaldavano la fantasia.
Cilla, su tutte. Era una di città, si vedeva dai vestiti, dalla maniera di camminare, dal colore della pelle. Andava sempre in nero, e sembrava bella. Nel paese dicevano che suo padre era morto in Africa e suo fratello era uno dei nostri. Che i fascisti la tenevano li confinata come ostaggio.
Chiacchiere che correvano per il paese ma nessuno poteva giurare di averci par-lato. Abitava in una specie di villa recintata, con alti alberi, platani e querce, sui quali sarebbe stato bene un giovanotto col mitra perché dominava la piazza del Municipio e l'imbocco della strada principale.
Con la prima erba cominciò ad uscire e potevamo vederla col binocolo andare su e giù per la passeggiata fino alla piazza, fermarsi nei negozi, tornare. La vedevamo sedersi in giardino con un libro, e rientrava come finiva il sole. Ogni volta che tornavamo da qualche azione di collegamento con le gambe rotte dai chilometri, per prima cosa domandavamo a quelli che erano rimasti: "Che novità di Cilla?".
Così un giorno la vedemmo traversare la piazza ed entrare in chiesa. "Cristo – disse Caligaris che guardava con il binocolo – mi sento urlare nella coscienza mille diavoli per i peccati che ho fatto. Mo' vado a confessarmi e qualche cosa succederà".
"Succederà che ti danno pure l'olio santo. E meglio aspettare stasera e informarci dal Don".
Stava dalla nostra parte, il prete, ed era lui che ci mandava le notizie più importanti, il vino e tutto quanto gli riusciva di rimediare. Quella notte i fascisti fecero fuori anche lui, così è inutile che cerchi di ricordarmi come si chiamava. Don e appresso un nome. Per noi Don semplicemente. Un fatto di prudenza, e perché era il nome di un fiume che ci sarebbe piaciuto andarci a pescare l'estate successiva.
Scese Caligaris, che era il più svelto per trattare con le ragazze. Era uno alto e bruno, e mi ricordo di lui solo che portava un fazzoletto rosso annodato al collo, e non se lo toglieva mai, nemmeno quando scendeva in paese. Scese verso l'imbrunire e lo aspettammo fin quasi all'alba. Ci premeva stabilire un contatto con Cilla, per la sua casa, per gli alberi. C'era tutta una strategia sulla casa di Cilla. Di lì avremmo potuto pistare coi mitra dentro le finestre del Municipio dove erano asserragliati i fascisti e pigliarli tutti, se si fossero arresi, controllare la strada principale, che era poi l'unica a sboccare sulla piazza, e dominare la valle fino al limitare del bosco. Dal bosco, quel giorno, sarebbero venuti gli altri col fazzoletto rosso, sulle due compagnie di tedeschi fermi vicino al fiume. In undici avremmo fatto il lavoro di cinquecento, avendo la casa di Cilla. Be', Caligaris venne su con la prima striscia di sole, ed era pallido, non ce la faceva a parlare.
"Dopodomani – disse – trasloco. Da lei andiamo. È nostra tutta la casa. Così ha detto. Ci ho parlato io, e prima ci aveva parlato Don. Una divisione tedesca arriva, dopodomani, e lei l'ha sentito dire dai fascisti, che le stanno tra i piedi per portarla a letto. Ma lei li odia. Odia i tedeschi. Così noi andiamo, e blocchiamo il Municipio, come s'era detto. I nostri sentono sparare e vengono giù, così quando i tedeschi arrivano si trovano il ponte saltato e tutta la valle pronta a riceverli".
Era quello che avevamo progettato migliaia di volte, ma adesso ci prendeva come un accidente nelle gambe, al momento di realizzare. Troppo bello pareva e poi bisognava prima avvisare il Comando, sentire loro se erano preparati. Ma Caligaris s'impuntava.
"Ci manca il tempo. Manderà Don qualcuno, qualche ragazzo che cammini svelto. Noi dobbiamo andare tutti. Ho ispezionato la casa e in tutte le finestre ci deve essere qualcuno. E sono dodici, una per una noi e una Cilla". Fu allora che mi accorsi che a Caligaris mancava qualcosa. Il fazzoletto rosso. Così lo tirai da parte.
"Che altro t'ha detto – gli chiesi. – E che ti ha promesso?".
"È un fatto tra noi – rispose bruscamente, ma io non mi contentai. Uscimmo fuori e bisognò che parlasse: "È stato un fatto improvviso, quando siamo rimasti soli. E lei ha detto che era come se sposasse in me tutti noialtri. Non c'era tempo. Domani possiamo essere morti, io e lei, e per pegno le ho dato il fazzoletto rosso. Quando sarà tutto finito, almeno qui, lo diremo a Don, che faccia le cose in regola".
"Si – dissi io – è un fatto tra voi".
Rientrammo e gli altri già preparavano i sacchi per il trasferimento. Don mandò su un ragazzo, verso mezzogiorno, con le istruzioni, e scrisse che ci sarebbe stato anche lui a sorvegliare la strada. A mezzanotte ci muovemmo e ci sembrò eterno il sentiero che eravamo abituati a fare in pochi minuti. Quando arrivammo sotto il muro della casa di Cilla, Caligaris fischiò tre volte e la porta si aprì dolcemente. Apparve Cilla, e intorno al collo aveva il fazzoletto rosso. Ci fece cenno di aspettare, imperiosamente, e rientrò dentro lasciando la porta aperta.
Subito un fascio di luce si precipitò su di noi dalla casa e dagli alberi i fascisti cominciarono a sparare con pazza allegria.
Caligaris era già dentro la casa, e lo sentimmo urlare qualche cosa. Vedemmo dalla porta fuggire Cilla nel cono di luce, con le mani alzate, e dietro Caligaris che le sparava. Caddero con la stessa raffica, ma Caligaris riuscì a raggiungerla e le strappò dal collo il fazzoletto rosso.
Fu l'ultima cosa che vedemmo dentro quel giardino. Strisciando, rotolandoci, eravamo arrivati fino al cancello e i fascisti erano stati troppo sicuri di prenderci tutti dentro il recinto, così potemmo arrivare fino al ponte. Ce n'erano altri laggiù e rimasero a fare compagnia a noi due, come ho detto. Nel bosco non c'era più nessuno.


(Tratto da La voce della resistenza, a cura del Comitato nazionale dell’Ampi – Roma, 1981)


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