IL MORTO

Ryszard Kapuściński

L'autocarro si muove velocemente nel crepuscolo, con i fari come pupille che cercano il punto d'arrivo. Jeziorany è vicina, venti chilometri. Ancora mezz'ora e saremo arrivati. L'autocarro è lanciato al massimo: è rischioso, il vecchio motore non è adatto a queste distanze.
Nel cassone c'è una bara.
Sul coperchio della cassa nera c'è una corona di angeli stravolti. In curva è pericoloso: la cassa scivola e minaccia di spezzare le gambe di quelli seduti sulle sponde. Bestemmiano, dissacrando i resti contenuti dalla bara.
La strada si inerpica per tornanti. Il motore urla, singhiozza, tossisce e si ferma. Un altro guasto. Una figura sudicia smonta dalla cabina. E Zieja, il guidatore. Striscia sotto il camion in cerca del guasto. Nascosto lì sotto impreca contro il mondo corrotto. Sputa quando una goccia di olio caldo gli cade sulla faccia. Poi si trascina fino al centro della strada e si scrolla la polvere dai vestiti. «Kaput», dice. «Non ripartirà. Potete fumare.»
Al diavolo le sigarette. Ci viene da piangere.
Due giorni fa ero in Slesia, alle miniere di Alessandra-Maria. Dovevo fare un'intervista al direttore dei dormitori. Lo trovai nel suo ufficio che stava parlando con sei giovani. Rimasi lì a origliare.
Il problema era questo. A seguito di un'esplosione un blocco di carbone aveva investito un minatore e lo aveva ucciso. Avevano subito estratto il corpo da sotto le macerie, ma il minatore era morto sul colpo. Nessuno lo conosceva bene. Lavorava in miniera da appena due settimane. Il cadavere venne riconosciuto.Nome: Stefan Kanik. Età: diciotto anni. Suo padre viveva a Jeziorany, in Masuria. La direzione avvertì per telefono le autorità locali. Il padre era paralitico, non avrebbe potuto viaggiare per presenziare ai funerali. Le autorità di Jeziorany chiesero di trasportare le spoglie nella città natale del giovane. La direzione si disse d'accordo, mise a disposizione un autocarro e incaricò il direttore dei dormitori di trovare sei lavoratori disposti ad accompagnare la bara.
I giovani che si trovavano in quell'ufficio erano i convocati. Cinque accettarono, uno rifiutò. Non voleva perdere gli straordinari. Così mancava una persona.
Posso essere io il sesto?
Il direttore scosse la testa: un giornalista che fa il becchino?


Questa strada vuota, questo rottame di camion, quest'aria senza un filo di brezza.
Questa bara.
Zieja si pulisce le mani con uno straccio. «Che si fa?» chiede. «Saremmo dovuti arrivare stasera.»
Ci stendiamo sull'orlo di un fosso, sull'erba coperta da una patina di polvere. Ci fanno male le gambe e la schiena; gli occhi bruciano. Il sonno, non invitato, si presenta: caldo, amichevole, accattivante.
«Credo che una dormita ce la meritiarno», dice Wiśnia rannicchiandosi.
«E poi?» dice Zieja, sorpreso. «Ce ne andiamo a dormire? E di quello cosa facciamo?»
Non avrebbe dovuto parlarne. Alla luce di quella domanda metterci a dormire ci appare sconveniente. E il sonno scompare. Ce ne stavamo distesi, sopraffatti dalla fatica, e ora siamo ansiosi e confusi, fissiamo intorpiditi il cielo inondato di stelle d'argento.
Dobbiamo deciderci. «Cosa facciamo? Forse tu lo sai.»
«Aspettiamo che faccia giorno. Domani possiamo arrivare in città e farci prestare un trattore. Non c'è motivo di affrettarsi. Non siamo mica il fornaio», dice Woś.
«Non possiamo aspettare domani. È meglio sbrigare questa faccenda prima possibile», fa Jacek.
«Che ne dite se prendiamo la bara e la trasportiamo fino in città? Era un bravo ragazzo, ed è rimasto per un bel po' sotto quel blocco di carbone. Non peserà molto. Per mezzanotte avremo finito», fa Kostarski.
L'idea è folle ma piace a tutti. Diamoci da fare. E appena calata la sera e non ci sono più di quindici chilometri. Li faremo. E poi c'è dell'altro. Acquattati sull'orlo del fosso, avendo respinto la tentazione di dormire, cominciamo sempre di più a pensare che con quella bara letteralmente sospesa sulla testa stiamo facendo una veglia funebre, nella totale oscurità, tra le ombre, gli arbusti e il silenzioso, indifferente orizzonte: la tensione per l'attesa del giorno sarebbe insopportabile. Meglio andare, meglio trasportarlo! Fare qualcosa, muoverci, parlare, allontanare il silenzio della cassa nera, provare che si è parte del regno dei vivi, nel quale lui, inchiodato nella cassa, rigido, è un intruso, un alieno, che non ci somiglia.
Allo stesso tempo ci sorprendiamo a considerare un compito che abbiamo davanti, quell'arduo trasporto, alla stregua di un omaggio al morto, così da essere lasciati in pace, liberi dalla sua ostinata, tenace presenza.
La marcia con la bara sulle spalle è cominciata male. Dal nostro punto di vista il mondo si è contratto in un piccolo segmento: l'oscillare delle gambe dell'uomo che sta sopra, una nera striscia di terreno, l'oscillare delle nostre gambe. Con una prospettiva così ristretta, un uomo istintivamente chiede aiuto all'immaginazione. Già, il corpo può essere vincolato, ma la mente rimane libera.
«Se qualcuno venisse da questa parte e ci incontrasse, di certo scapperebbe.»
«Sai una cosa? Se comincia a muoversi lo abbandoniamo e ce ne andiamo via.»
«Spero solo che non si metta a piovere. Se piove si impregna d'acqua e allora siche diventa pesante!»
Ma non c'è aria di pioggia. La serata è calda e il cielo enorme e chiaro sovrasta un mondo silenzioso, tranne che per il canto dei grilli e il ritmo dei nostri passi.
«Settantatré, settantaquattro, settantacinque.» Kostarski conta. A duecento si cambia. Cambiamo lato, da destra a sinistra, poi cambiamo ancora. L'orlo della bara, duro e tagliente, affonda dentro la spalla. Lasciamo la strada asfaltata e prendiamo un sentiero, una scorciatoia che passa accanto alla riva di un lago. In un'ora non abbiamo fatto più di tre chilometri.
«Com'è, si chiede Wiśnia, che una persona muore e invece di venire sepolta nella terra se ne va a spasso sfinendo gli altri? E non solo. Tutti che si fanno in quattro per portarla a spasso. Perché?»
«Ho letto da qualche parte, fa Jacek, che durante la guerra, quando sui campi di battaglia russi la neve cominciava a sciogliersi, le mani dei morti emergevano dritte verso l'alto. Tutto quello che si vedeva in giro erano la neve e queste mani. Te lo immagini? Nient'altro. Quando un uomo muore non vuole sparire. Sono gli altri che lo nascondono alla propria vista. Per essere lasciati in pace, lo nascondono. Da solo non sparirebbe.»
«Proprio come il nostro, dice Woś, ci seguirebbe in capo al mondo. Tutto quello che dovremmo fare è portarcelo in giro. Credo che potremmo pure farci l'abitudine.»
«Perché no?» scherza Gruber da dietro la bara. «A ognuno la sua croce. La carriera per qualcuno, per altri i figli, per altri ancora la moglie. Perché non dovremmo portare anche noi la nostra?»
«Non parlar male di lui se non vuoi che venga a tirarti i piedi mentre dormi», lo mette in guardia Woś.
«Lui non è pericoloso, sussurra Gruber, fino a ora si è comportato bene. Dev'essere stato uno a posto.»
In realtà nessuno di noi sapeva come fosse. Nessuno di noi l'aveva mai visto. Stefan Kanik, diciotto anni, morto in un incidente. Tutto qua. Ora possiamo dire che pesava intorno ai sessanta chili. Un tipo giovane e snello. Il resto è mistero, congettura. Ora questo enigma - chiuso, invisibile, sconosciuto - questa figura, questo alieno, questa bara, guida sei uomini vivi, monopolizza i loro pensieri, sfinisce i loro corpi e in silenzio accetta il loro sacrificio.


«Non m'importa dovermelo trascinare dietro se era un bravo ragazzo, fa Woś, ma se era un figlio di puttana... possiamo anche buttarlo in acqua.»
Ma com'era? puoi stabilirlo? Certo! Ce lo stiamo portando a spasso da cinque chilometri e abbiamo cacciato fuori un barile di sudore. Non abbiamo investito una grossa mole di lavoro, le nostre forze, la nostra serenità, in queste spoglie? Questo sforzo, parte di noi stessi, comunica con i suoi resti, innalza il loro valore ai nostri occhi, di unisce, ne fa un fratello attraverso la barriera tra vita e morte. La sensazione dell'estraneità svanisce. È diventato parte di noi. Non possiamo gettarlo nell'acqua. Gravati da questa responsabilità porteremo a compimento fino alla fine ilnostro compito.
Il sentiero conduce alla riva del lago. L'aria si è un po' rischiarata. Woś chiede una pausa e comincia a fare un fuoco.


La fiamma sale immediatamente, impudente e gioiosa. Ci sistemiamo in circolo e ci togliamo le camicie fradice e fetide di sudore. Nella luce del fuoco possiamo vedere i nostri visi sudati, i nostri petti scintillanti, le spalle rosse e gonfie. Ilcalore del fuoco si propaga a onde. Retrocediamo, lasciando la bara accanto al fuoco.
«È meglio spostare questo pezzo di mobilio prima che cominci ad arrostire e puzzare» dice Woś.
Spostiamo la bara fino agli alberi e Pluta rompe alcuni rami per ricoprirla.
Torniamo a sedere. Respiriamo ancora affannosamente, lottando contro il sonno e la sensazione di ansietà, arrostendoci al calore e crogiolandoci alla luce apparsa miracolosamente dalle tenebre. Cominciamo a sprofondare in uno stato dì inerzia, di abbandono, di indolenzimento. La notte ci ha isolati, tagliati fuori dal resto del mondo, da ogni altra esistenza. Proprio in quel momento sentiamo il sonoro, sgomento sussurro di Wignia: «Zitti, sta venendo qualcuno!»
Un improvviso e insopportabile spasmo di terrore, come spilli ghiacciati nella schiena. Contro il nostro volere guardiamo attraverso la boscaglia in direzione della bara. Jacek non ce la fa: affonda la testa nell'erba ed esausto, assonnato, terrorizzato, comincia a piangere. Ciò ci fa ridestare. Woś si riprende per primo e si lancia su Jacek, lo strattona e lo scuote. Lo colpisce con forza finché il pianto del ragazzo non diventa un lamento e poi un prolungato sospiro. Infine Woś si rialza, si appoggia a un tronco e si riallaccia le scarpe.
Nel frattempo le voci avvertite da Wiśnia si fanno distinte: si avvicinano. Ora udiamo canti, risate, grida. Ascoltiamo attentamente. In questa landa scura la nostra carovana si è imbattuta in presenze umane. Le voci adesso sono molto vicine. Scorgiamo infine le sagome. Due, tre, cinque.
Sono ragazze. Sei, sette.
Otto ragazze.
Le ragazze - dapprima spaventate, indecise - finiscono per restare. Appena inizia la conversazione si sistemano attorno al fuoco, accanto a noi, così vicine da poterle cingere con le braccia. Si sta bene. Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo una giornata di viaggio, una marcia estenuante, la tensione nervosa, dopo tutto ciò, o forse a dispetto di tutto ciò, stiamo bene.
«Anche voi tornate da un'escursione?» ci chiedono.
«Sì», fa Gruber, mentendo. «Bella serata, vero?»
,,<Be,lla, sì.Sto cominciando a godermela. Come tutti, del resto.»
«Non tutti, fa Gruber, c'è chi non apprezza niente, mai.»
Osserviamo da vicino le ragazze. Le loro vesti colorate, le spalle scoperte e abbronzate nella luce cangiante dall'oro al bruno, gli occhi che appaiono indifferenti e al contempo provocanti e vigili, accessibili e irraggiungibili, che fissano il fuoco e sembrano arrendersi allo strano e quasi pagano sentimento suscitato dalla notte e dal fuoco. Guardando queste inattese ospiti ci sentiamo riempire da un calore interno, a dispetto del torpore, del sonno e della stanchezza; e allo stesso tempo in cui lo desideriamo, avvertiamo il pericolo che ne viene. L'edificio che sostiene questo straordinario sforzo in nome del morto barcolla immediatamente. Ma perché occuparsene? A che serve, quando si presenta un'opportunità come questa? A legarci al morto è solo un sentimento negativo. Nel nostro nuovo stato d'animo possiamo distaccarcene completamente e ogni ulteriore sfacchinata ci sembrerebbe una perfetta idiozia. Perché farlo? essere così stupidi?
Dopo l'incidente con Jacek, Woś è ancora di umore tetro e non partecipa al corteggiamento. Mi prende da parte.
«Avremo problemi», mi sussurra all'orecchio. «Qualcuno si perderà dietro qualche gonna. Se qualcuno va via non saremo piùin grado di trasportare la bara. Cosa faremo?» Da un anfratto, con le gambe quasi accostate al fianco della bara, seguiamo la scena che si svolge alla luce del fuoco. Gruber andrà via dì certo. Kostarski e Pluta no! E Jacek? Chi lo sa! È un ragazzo schivo e non farà niente se non sarà una ragazza a fare la prima mossa: e poi desisterà al primo «no». Ma appunto perché il suo carattere non gli offre troppe possibilità, se qualcuna si fa avanti afferrerà avidamente l'occasione.
«Sicuro come la morte che Jacek va ... » dice Woś.
«Torniamo al fuoco, gli dico, da qui non risolveremo niente.»
Cosìtorniamo. Pluta ha messo dell'altra legna sul fuoco. Le ragazze stanno cantando Ricordi, era d'autunno. Stiamo bene e siamo inquieti. Nessuno ha detto una parola sulla bara, che però è sempre lì.La consapevolezza della sua presenza, della sua ingombrante partecipazione, ci rende diversi dalle ragazze.
Stefan Kanik, diciotto anni. Qualcuno che è scomparso e che al tempo stesso è il più presente. Se allunghi un braccio puoi cingere i fianchi di una ragazza; se fai due passi puoi appoggiarti a una bara: siamo tra la vita e la sua manifestazione più bella e la morte e la sua rappresentazione più crudele.
Il morto era per noi uno sconosciuto e proprio per questo lo potevamo identificare con qualsiasi ragazzo che avevamo incontrato. Si,era lui; lui di certo. Se ne stava davanti a una finestra, con addosso una camicia a scacchi sbottonata, e guardava il passaggio delle automobili, ascoltava il cicaleccio di una conversazione, osservava l'andirivieni delle ragazze: il vento sollevava le gonne svelando il biancore delle mutandine inamidate, così rigide che potevi farle star dritte per terra come mucchi di fieno. Dopo lui scendeva a sua volta per strada per incontrare la sua ragazza e passeggiare con lei, le offriva caramelle e le limonate più costose - Moorish Delight. Lei gli offriva fragole e poi andavano al cinema a vedere Vacanze con Monica, dove un'attrice dal nome difficile si spogliava davanti a un attore dal nome difficile, cosa che la ragazza non aveva mai fatto davanti a lui, nemmeno una volta. Poi nel parco lui la baciava, guardando con la coda dell'occhio dietro la testa di lei, attraverso i suoi capelli sciolti e trascurati, per assicurarsi che nessun poliziotto stesse arrivando, che nessuno gli avrebbe preso il nome o l'avrebbe rispedito a scuola, o multato di venti zloty quando in due non arrivavano a cinque. E dopo la ragazza diceva «Dobbiamo andare ora», senza voler affatto lasciare la panchina del parco; lei diceva «Dai, andiamo, è tardi» stringendosi ancora più forte contro e lui diceva «Sai come baciano le farfalle?» e sbatteva forte le palpebre e sfiorava le sue guance con le ciglia, cosa che forse la vellicava perché scoppiava a ridere.
Forse lui l'avrebbe incontrata ancora, ma nella nostra mente quella immagine ingenua e banale era l'unica e l'ultima, e dopo vedemmo solo quella che non avremmo voluto mai vedere, mai, fino all'ultimo giorno della nostra vita.
E quando scacciammo quella immagine sgradevole ci sentimmo nuovamente bene e tutto divenne piacevole: il fuoco, l'odore dell'erba pestata, le nostre camicie asciutte, il silenzio della terra, il gusto delle sigarette, il bosco, le gambe riposate, le stelle cadenti e la vita; la vita, soprattutto.
Infine riprendemmo il cammino. L'alba ci venne incontro. Il sole ci scaldò. E continuammo la nostra marcia. Le gambe si piegarono sotto il peso, le mani si gonfiarono ma riuscimmo ad arrivare al cimitero, alla fossa, il nostro ultimo approdo sulla terra dove infine fu deposto, per mai più salpare, Stefan Kanik, ucciso in un tragico incidente, durante un'esplosione, da un blocco di carbone.

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