Il confine ovunque

- Dall'America di Steinbeck alle 'favelas' di Rio -

 

Gabriele Favagrossa

 

 



Rio de Janeiro, agosto 2004

Fuori sono ripresi gli spari. Secche, interminabili: le raffiche dei fucili-mitragliatori. Questa sarà un'altra notte di guerra nella favela do Macaco, a pochi passi da qui, da Grajaú, uno dei tanti quartieri di frontiera in una megalopoli che è l'esasperazione del confine. Su 10 milioni di abitanti almeno un terzo vivono nelle favelas, vere e proprie città nella città. Ce ne sono a centinaia, abbarbicate sui morros, i colli che dominano come funghi le zone pianeggianti, quelle dei quartieri della media e ricca borghesia. Perché a Rio non c'è quartiere di ricchi che non abbia a ridosso un morro con arrampicata sopra una favela e, per uno strano gioco del destino, più lussuoso è quel quartiere e più grande, disperata ed esplosiva è la favela che lo scruta dall'alto. A Rio il confine è ovunque, basta girare un angolo e ce lo si ritrova davanti: il quartiere con le sue strade e costruzioni rassicuranti si interrompe e cede bruscamente il posto a un'escrescenza tumorale di catapecchie ammassate le une sulle altre, con le strade che si restringono e diventano cunicoli che si arrampicano su per la collina. Solo chi ci vive può accedervi: chiunque altro rischierebbe la vita, perché di là dal confine ci sono "altre" regole, e se ieri abbiamo potuto entrare in favela è solo grazie al nostro contatto, un ragazzo del posto che ha chiesto e ottenuto dai boss di lasciarci passare. Perché a Rio tre organizzazioni criminali dedite al narcotraffico sono in guerra per il controllo delle favelas, che per loro sono bocas de fumo, ovvero avamposti vitali per lo smercio della droga. Ogni favela è sotto il giogo di una di queste banda che con scagnozzi armati fino ai denti dominano il territorio. Se un gruppo avversario o la polizia militare (una delle più corrotte e violente del mondo) provano a varcare il confine, si scatenano furiose battaglie sotto gli occhi terrorizzati e impotenti della maggioranza degli abitanti della favela, che sopravvivono grazie a piccoli espedienti e rischiano quotidianamente di morire colpiti da pallottole vaganti.
E' a partire dagli anni '70 che le favelas di Rio hanno cominciato a moltiplicarsi, col massiccio arrivo di contadini e spiantati provenienti dalle regioni più povere del paese. Fra il `70 e il `90, almeno 30 milioni di brasiliani sono emigrati verso le grandi città, abbandonando lo campagne. dove l'1% dei proprietari terrieri detiene. quasi la metà delle terre coltivabili, e di queste un 40% vengono lasciate incolte, mentre milioni di braccianti nullatenenti vivono in miseria, lavorando per i grandi latifondisti in condizioni di precarietà e semi-schiavitù.
Questa sarà un'altra notte di guerra nella favela do Macaco, e io mi chiedo che significato possano avere le mie parole di occidentale che l'inferno del confine lo vede solo di passaggio, da spettatore esterno tutelato da solide reti di protezione. Qui sul confine, sotto il crepitio degli spari, il peso specifico del piombo ridefinisce una scala di "valori", dove la legge del più forte e l'istinto di sopravvivenza prendono il sopravvento su tutto, ripristinando uno stadio "primordiale" in cui dominano i bisogni primari: l'incolumità personale, l'urgenza quotidiana di procurarsi le risorse per il sostentamento fisico, la lotta per ritagliarsi uno spazio abitativo, la difesa del territorio. Il confine sta lì, inamovibile: non si può fingere di non vederlo, chiede che se ne dia conto. La sua natura "disumana" reclama una ricerca di senso di fronte alla quale le indagini politiche, economiche e sociali non appagano, non arrivano a toccare le corde più profonde dell'intimo, non sanno dar conto di quello stato interiore di desolazione, spaesamento e oppressione che si prova davanti al confine. Non rendono ragione di questo senso di umanità sradicata, violata e privata brutalmente della sua dignità.
In questa notte di spari, penso ad un'arte che si ponga sul confine, che lo guardi a viso aperto e se ne assuma i rischi, per darne conto in una logica che non sia solo socio-economica ma anche di condivisione umana. Penso a un libro che ho letto poco prima di partire, e che mi sta accompagnando in questo viaggio, in un confuso gioco di rimandi in cui la finzione letteraria del testo si sovrappone alla realtà che sto vivendo. Penso a Furore di Steinbeck: un'opera dove le parole hanno il calibro e l'autorevolezza delle pallottole là fuori nella favela do Macaco. Pubblicato nel 1939, Furore indaga una delle tante vicende storiche che si collocano nel più vasto scenario della "grande depressione" americana degli anni '30: la grave crisi economica che colpì gli stati centro-meridionali degli USA, costringendo centinaia di migliaia di famiglie di piccoli contadini ad abbandonare la loro terra, dando vita a una gigantesca migrazione verso la ricca California. Attratti dal falso miraggio di buone opportunità di lavoro, gli emigranti si scontreranno con una realtà drammatica, ben diversa da quella sperata: le terribili difficoltà di un viaggio estenuante, affrontato con mezzi di fortuna; l'improvviso sradicamento dalla propria terra, con la conseguente drammatica perdita d'identità; l'incontro-scontro con un contesto sociale chiuso e ostile ai nuovi arrivati, visti solo come straccioni affamati e pericolosi per l'ordine pubblico. E poi ancora l'affannosa ricerca di opportunità di lavoro quasi inesistenti, da cui l'umiliazione di trasformarsi in bassa manovalanza. pronta ad accettare condizioni lavorative disumane. Nel testo si intrecciano due trame, legate tra loro a filo doppio: il dramma storico-collettivo di questa grande migrazione e la vicenda dei Joad, una famiglia che la finzione letteraria pone a simbolo dell'odissea di un intero popolo. Capitolo dopo capitolo, nel regolare alternarsi tra la narrazione delle vicissitudini dei Joad e il resoconto storico-sociale degli eventi, il libro tratteggia un potente affresco corale, imperniato sul tema del confine: frontiera geografica e politica tra Stati, ma al contempo barriera economica, sociale e culturale tra gli uomini.
Alla base della vicenda storica, una drastica disuguaglianza nell'allocazione delle risorse economiche genera un incontenibile flusso migratorio: il confine diventa un insieme di barriere manipolate dai più forti, per sancire e difendere le differenze economiche. sociali e culturali con i migranti, impedendo che i privilegi degli uni si stemperino a beneficio degli altri. Questa sperequazione rafforza a sua volta il confine tra senso di identità-appartenenza da un lato e senso di totale sradicamento storico-culturale dall'altro; tra la dignità di cittadini da un lato e l'abbrutimento di emarginati dall'altro: in una parola il confine tutto umano tra speranza e disperazione. E del resto è proprio la continua alternanza tra questi due stati d'animo che scandisce l'odissea della famiglia Joad e di tutti i diseredati che essa rappresenta. Un'alternanza che coinvolge in prima persona anche il lettore, in quanto il testo ha la capacità di "risucchiarlo" poco a poco nelle vesti dei protagonisti. Chi legge avverte su di sé tutta l'angoscia di coloro che, come i Joad, si ritrovano improvvisamente su una strada, in lotta per la sopravvivenza, privati del loro passato e di ogni certezza per l'avvenire.
Furore ha il merito di salvaguardare la lucidità di un'analisi storica, andando oltre l'asettica oggettività di un'indagine socio-economica. Affiora infatti dal testo un sentimento di "comunanza", un guardare alle vicende narrate con un senso di prossimità e condivisione di fronte al dramma della dignità umana violata. Pur davanti alla crudeltà della storia, il libro sa creare un senso di "compartecipazione" per la sorte dei protagonisti c dell'umanità tutta che essi rappresentano. L'essenza della vicenda narrata in Furore è infatti la stessa dei milioni di Joad che vivono nelle favelas di Rio, o di tutte le migliaia di Joad che ogni giorno dal sud del mondo giungono clandestinamente nei paesi occidentali alla disperata ricerca di un futuro.
Furore di Steinbeck sta a dimostrare quanto il dramma del confine sia cruciale nella storia presente e passata della nostra civiltà; ma testimonia al contempo la possibilità di un'arte che stia sul confine e che si esponga, per cercare di darne conto.


 

(Pubblicata sulla rivista "La Mosca" di Milano, n° 11, Novembre 2004)

 

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