GRAWUL DIOP A MILANO

 

Pap Khouma

 

 

 

 

1.

La settimana dopo la scoperta del cadavere della vecchietta che abitava nell’appartamento sotto il suo, Grawul Diop accompagnava suo cognato all’aeroporto di Linate. Faceva freddo e pioveva a dirotto da giorni in tutto il nord del paese. Le strade di Milano erano allagate. Quella mattina il traffico era più intenso, le automobili procedevano a passo di lumaca. Erano partiti un'ora prima e non avevano percorso dieci chilometri. Non sapevano se sarebbero arrivati in tempo a Linate. Grawul Diop guidava con difficoltà, non vedeva oltre il parabrezza, a poco serviva l’impegno dei tergicristalli. Il riscaldamento della macchina funzionava come meglio poteva, ma i suoi piedi erano congelati dentro le lunghe polacchine e il freddo lo pungeva fino ai polmoni, fino al cuore. Soffriva molto il freddo, era raffreddato dall’inizio di settembre alla fine di giugno.

Suo cognato, Sakho Sumaré, che in altri momenti avrebbe patito il freddo peggio di lui, esaltato dalla sua partenza imminente per l’Africa o solo per indole, si sfogava. Abbassava il vetro, senza curarsi della pioggia e del freddo, se la prendeva con l’ignaro automobilista che si ritrovava a fianco. Rialzava prontamente il vetro, non soddisfatto, imprecava contro il traffico di Milano e contro gli automobilisti di tutto il mondo. Imprecava contro la pioggia, imprecava soprattutto contro Grawul Diop e il suo modo di guidare che non lo convinceva per niente, glielo aveva detto migliaia di volte, lui non lo ascoltava:

«Cognato, te lo ripeto, non sai guidare.»

«Pazienza.»

«Pazienza un corno... Siamo intrappolati come degli stupidi in questo imbottigliamento, è colpa tua.»

«Perché non vieni a guidare, la macchina è tua.»

«Non arriverò mai all’aeroporto. Avrei fatto meglio a prendere un taxi.»

 

Era la fine di un inverno capriccioso. Prima di questa pioggia incessante, si erano alternate lunghe, gelide e buie giornate a lunghissime giornate di sole accecante.

Un inverno funesto. La morte per assideramento era stata inclemente con troppi anziani. Naturalmente i clochard non erano stati risparmiati. Erano successi tragici incidenti dovuti alla nebbia, allo strato sottile di ghiaccio che ricopriva la strada, all’imprudenza dei conducenti soprattutto.

All’inizio di questo strano inverno, lui e Sakho Sumaré erano scampati per miracolo a un incidente vicino a Milano, nel quale era morto un loro amico caro, Mar Lam.

La vecchietta che abitava al piano di sotto era anche lei rimasta vittima dei capricci di questo strano inverno. Aveva più di ottant’anni, abitava da sola e nessuno veniva mai a trovarla. Però, nonostante attaccasse bottone con tutti gli inquilini, con quelli simpatico come con quelli scorbutici, nessuno nel palazzo si era accorto della sua insolita assenza durata più di dieci giorni. Non si era mai allontanata così tanto. Non andava da nessuna parte né d’inverno né d’estate. La vecchietta si fermava tutte le sere davanti alla sua porta a salutare anche chi non la salutava. Era una simpatica attaccabrighe e piaceva veramente a tutti gli inquilini senza eccezione. Era in gamba, con le sue battute era arrivata più di una volta a far rilassare o solo a strappare un sorriso, a «strappare i sorrisi giornalieri» come diceva lei, agli stressati che incontrava per le scale del palazzo. E tranne qualche altro vecchietto il palazzo era abitato da zombie e da schizzati.  Era ben informata sulla vita del palazzo, ci abitava da prima della Seconda guerra mondiale.

Erano stati i cani di Maria, la portinaia, cani che lei odiava senza ritegno, ad avere portato alla macabra scoperta. Avevano abbaiato davanti alla sua porta per tre giorni, prima di attirare l’attenzione di un inquilino del palazzo a fianco, un tale disturbato nel riposo perché di giorno doveva dormire. Era un fornaio e quindi faceva pesanti turni di notte.

Era stata ritrovata rinsecchita, rannicchiata sul suo letto posto in mezzo alla gelida solitudine della propria abitazione.

La vecchietta del piano di sotto sbottava sempre contro Maria e i suoi cani, che non lasciavano in pace nessuno, neppure lei. Diceva a Grawul Diop: «Sa giovanotto, questa Maria, con questi capelli sempre arruffati, farà fatica a trovarsi un uomo che le voglia bene, poi, con questi suoi cani. Ha visto come si concia? È un peccato per una donna della sua età, ancora giovane. Potrebbe essere una donna tanto carina, sa .

Maria era presente ai funerali della vecchietta, aveva portato un mazzo di margherite bianche. Era triste nella chiesetta durante la funzione funebre. Peccato che la vecchietta non potesse vederla, perché Maria si era fatta carina, proprio come lei aveva sempre desiderato. Era andata finalmente da una parrucchiera diversa dalla solita e per l'occasione si era messa un vestito decente.

Pochi giorni prima di morire, la vecchietta si era lamentata con Grawul Diop di un raffreddore che la tormentava da un po’ di tempo. Era in vestaglia rosa a fiori bianchi, portava le sue solite pantofole azzurre consumate, il foulard di seta azzurra che copriva la testa era legato sotto il mento. In tutti quegli anni, la vecchietta aspettava sulla soglia che Grawul Diop ritornasse dal lavoro, la sera. Non l’intimidivano né la faccia da finto cattivo di Grawul Diop né il suo mutismo. Lo fermava e con la voce velata di quelli della sua età, attaccava discorso: «Giovanotto, si fermi. Dove corre? È arrivato a casa, sa. Non ha corso abbastanza per tutta la giornata? È ora di darsi una tregua, non pensa?». Altre volte, aveva sgridato Grawul Diop con severità per il fumo sulle scale, oppure per la musica troppo alta la sera o per la sua mania di trascinare le sedie sul pavimento, la notte. Lui salutava, sorrideva, spegneva la sigaretta e, senza mai rispondere, continuava la sua corsa ansimando per le scale fino al quarto piano, maledicendo i cani di Maria, che gli stavano alle calcagna abbaiandogli addosso fino al secondo piano, tutte le sere e tutte le mattine.

Quando aveva saputo, non si sa come, dell’incidente di Grawul Diop e dei suoi amici, la vecchietta aveva detto: «Giovanotto, se corre in automobile come corre per le scale tutte le sere con la sigaretta accesa, senza guardare in faccia nessuno, non saprà mai dove andrà a sbattere.  Sa, mi dispiace tanto per quel suo amico morto e per voi che vi siete fatti male. Deve essere prudente, sa. Abbiamo una sola vita e io ci tengo molto a conservare la mia, per parecchi anni ancora».

 

 

2.

 

Ieri notte Sakho Sumaré aveva festeggiava il suo addio a Milano alla discoteca Old Zimba. Aveva dato appuntamento a suo cognato a corso Buenos Aires per recarsi poi insieme alla discoteca. Erano molto dispiaciuti che non ci sarebbe più stato il loro amico defunto, Mar Lam, un po’ più giovane di loro e al quale piaceva divertirsi, scherzare.

Grawul Diop quindi si avviava verso la metropolitana per andare all’appuntamento, col cognato, quando senti all’improvviso una frenata stridente di un’auto che pensava sarebbe andata a schiantarsi da qualche parte. Neanche il tempo di spaventarsi, avverti il rumore sordo di due portiere che sbattevano una dopo l’altra e una voce secca, una voce femminile intimare.

«Non scappare! Fermati!».

«Ti abbiamo preso, non ti muovere!», aveva detto simultaneamente una altra voce calma,

maschile, che sentiva molto più vicina della prima.

          Grawul Diop non aveva nessuna intenzione di scappare. Si era visto circondato da due poliziotti con la pistola in pugno, la divisa impeccabile. Era vicino alla metropolitana Melchiorre Gioia. Aveva appena spostato la sua automobile dopo aver strappato e buttato via una multa inserita tra il tergicristalli e il parabrezza. Qualche ora prima aveva parcheggiato in seconda fila, come fanno tutti a Milano. Adesso l’aveva spostata in quella via dove aveva trovato l’unico buco libero, dopo aver girato a vuoto per mezz’ora. In quella via dove, dal mattino presto al crepuscolo, battevano le prostitute e vagavano e accattonavano ragazzi e ragazze tubab drogati.

          Grawul Diop odiava i drogati. Appena metteva il naso fuori casa, gli chiedevano la droga.  Aveva risposto con pazienza, col sorriso che lui non era spacciatore. Aveva finto l’indifferenza, si era arrabbiato, aveva cambiato strada e marciapiede moltissime volte. Insistevano, lo imploravano, non gli davano tregua, lo seguivano giorno e notte, fino all’atrio del suo palazzo. Così si era attirato l’ostilità degli altri inquilini, che alla fine l’avevano denunciato alla polizia. Era stato pedinato, fermato, portato in commissariato, sgridato dai poliziotti, come fosse un bambino e sbeffeggiato, come si fa con i delinquenti impediti.

          Grawul Diop, assediato da tutte le parti, aveva rinunciato parecchie volte a uscire di casa, se non per andare al lavoro, per non essere circondato da questi ragazzi in crisi di astinenza. E per non subire la prepotenza dei poliziotti che lo insultavano, lo deridevano, gli tiravano l’orecchio, gli buttavano i documenti in faccia, si divertivano a svuotare e a spargere il contenuto delle sue tasche per terra.

Un giorno, davanti al suo palazzo, gli erano saltati i nervi. Si era scagliato contro i drogati, ne aveva acchiappati un paio e li aveva massacrati di botte, con una violenza che non si riconosceva. Era la prima volta, da quando viveva a Milano, che menava qualcuno. Era stata chiamata la polizia, la polizia non era arrivata.

Il suo più acerrimo nemico del palazzo, quello furioso dei secondo piano con le occhiaie da stressato cronico, che si divertiva a umiliare il proprio figlio colpevole di essere grassottello e di arrancare mentre saliva o scendeva le scale, ne aveva parlato come di un regolamento di conti tra negri e balordi.

La vecchietta che abitava al terzo piano, indignata, prima era scesa al secondo piano per smentirlo. Aveva colto l’occasione per dirgli di trattare il figlio con decenza, altrimenti avrebbe chiamato i carabinieri, la polizia, gli avvocati, i servizi sociali... Dopo aveva sgridato Grawul Diop, perché non aveva apprezzato la sua reazione violenta contro i drogati: «Giovanotto, lei si deve vergognare. Perché non si è comportato da vero signore. Questi ragazzi, hanno perso la testa, sa. E lei che fa. Perde la testa come loro? Oh signur! Andrò da questi poveri ragazzi e gli spiegherò che lei non è uno spacciatore e li pregherò di lasciarla in pace».

La vecchietta del piano di sotto era andata a parlare «con questi ragazzi che non capivano più nulla». Il suo intervento non era servito. Gli stessi drogati che Grawul Diop aveva picchiato, ormai confusi, appena lo scorgevano, lo seguivano ancora per la loro dose.

Nella stessa via, appena calava il crepuscolo e le prostitute finivano la loro giornata, salivano sul marciapiede e sfilavano senza veli, sui tacchi alti, decine di sfrontati neri e meticci. Alcuni di questi viados erano di una bellezza inquietante. Sembravano creature fuggite da un pianeta remoto: begli occhi, labbra carnose, tette grosse sode, glutei rotondi alti, capelli lunghi, belle gambe, mani fini, pisello cancellato dalla faccia del pube. Tutto un corpo da femmina scolpito alla perfezione sulla copia di un maschio.

Altri erano allucinanti, volgari, raccapriccianti, dei mostri. Affollavano le lussuose automobili dei clienti, tutti tubab, eccitati, che facevano quasi la ressa per assaggiare questa carne assai rara e tante volte maledetta. Viados, papponi, clienti in automobile e drogati si erano liquefatti alla frenata stridente della polizia. Erano spariti nel nulla non si sa come.

Grawul Diop era rimasto solo nella via coi poliziotti schierati, con l’arma in pugno e l’aria cattiva. Gli colava il naso, temeva di fare un qualsiasi movimento per prendere il fazzoletto. Si innervosiva, balenavano, inconsciamente, nella sua testa tante congetture. Credeva di sentire già uno di loro, un ragazzo, lo sguardo storto, con tono autoritario che non lasciava scampo, intimargli di mettersi al muro, di non muoversi, di alzare le mani. E mentre si metteva al muro, l’altra sua collega, una ragazza pure lei, viso imperturbabile, gambe allargate, pistola tenuta a due mani puntata verso di lui, gli ordinava di spegnere la sigaretta e di non tentare di muovere un passo verso il muro, di stare fermo dove si trovava.

Tanto lui era già stato confuso dalla frenata stridente di poco fa, adesso era inchiodato come un colpevole colto sul fatto, lì, sul marciapiede in mezzo alle macchine in sosta in doppia fila e non sapeva cosa fare. Stare fermo o andare al muro? Era meglio mettersi al muro, no, no, meglio di no, l’altra, la ragazza aveva ordinato di non tentare di muovere un passo.

Il termometro posto sul tetto di un palazzo in mezzo ai cartelli pubblicitari luminosi segnava meno tre gradi, ma Grawul Diop non sentiva più il freddo. Non sapeva come aveva fatto a spegnere la sigaretta e a soffiarsi il naso. Si vedeva già spintonato, senza delicatezza, verso il muro dal poliziotto, che quasi gli strappava i revers del cappotto. Sentiva il gelo della pistola della ragazza appoggiata alle sue tempie.

Piovevano le loro domande, su che cosa ci fa in questa via deserta, perché è vicino a questa macchina, di chi è la macchina... ancora domande, domande a non finire: «La droga... dove hai nascosto la droga, le bustine di droga... Ah... vuoi fare il furbo, con noi... Sei nei guai, lo sai... voi siete tutti uguali... non rispondi... sei ottuso?». Lui era paralizzato, incapace di intendere. Prima non poteva neppure scappare, come i viados, i loro papponi, i loro clienti e i drogati di nessuno. Loro erano abituati alle retate, lui era stanco, aveva lavorato in fabbrica tutta la giornata senza fermarsi, senza mangiare, aveva trovato un traffico infernale sulla strada di casa e in più il freddo non aiutava tanto a reagire con prontezza. E perché doveva scappare poi, aveva soltanto spostato la sua automobile, aveva strappato e buttato via la multa trovata sul parabrezza, come aveva visto fare a tanti a Milano...

In realtà, ieri sera, erano la fame, la stanchezza insieme al freddo ad avere giocato un brutto scherzo a Grawul Diop. Nessuno gli aveva detto di spegnere la sigaretta, spintonato, minacciato di alcunché o fatto una sola domanda o affermazione, anzi i poliziotti gli avevano salvato la vita a sua e a loro insaputa. Grawul Diop, beffato dalla propria immaginazione, era rimasto impalato, perso in mille pensieri, mentre i due poliziotti sloggiavano una persona in agguato dietro a un’auto non tanto distante da lui. Era un uomo svelto, fuggito saltando il muro vicino che dava su un immenso cantiere di palazzi e al quale era caduto un coltello. Il coltello era destinato a lui!

Lui aveva visto l’uomo scappare, ma non il coltello cadere, né la ragazza, la poliziotta, mentre lo recuperava con cautela, che poi era saltata in macchina per rincorrere il collega che tentava inutilmente di aggirare a piedi il cantiere e bloccare il balordo. Appena la macchina della polizia aveva girato il angolo, erano ricomparsi naturalmente transessuali ancora più scatenati, sinistri papponi, eccitati clienti in macchina. La via aveva ritrovato la sua quotidiana normalità. Grawul Diop aveva almeno fatto in tempo a riconoscere quel pregiudicato. Era uno degli spacciatori al quale aveva spaccato il naso dopo una seconda rissa scatenata da lui per liberarsi dei drogati, che lo assillavano. La polizia era arrivata e aveva fermato Grawul Diop e un folto gruppo di balordi. In commissariato tutti erano stati schedati, fotografati, impronte digitali prelevate. Qualche pregiudicato in libertà vigilata, tra cui quello col naso spaccato, era ritornato in carcere e aveva promesso a Grawul Diop di fargliela pagare appena sarebbe uscito. Quel pregiudicato era spesso nei paraggi, era rimasto troppo poco in carcere, e aveva tenuto parola, lo importunava mentre passeggiava da solo o con Federica Martin, la sua ragazza.

Lui non lo temeva assolutamente.

Rilassandosi Grawul Diop aveva acceso una sigaretta, sembrava che il raffreddore fosse guarito in un lampo. Aveva guardato istintivamente in giro se Gianni, suo amico travestito, aveva assistito all’incidente. Gianni, che voleva cambiare sesso, diventare donna, talvolta si vendeva su questa via per racimolare il denaro necessario all’operazione.

Aveva preso la metropolitana per Porta Venezia. Era arrivato in ritardo all’appuntamento e non aveva più trovato suo cognato. L’aveva cercato in mezzo a tutti quei nottambuli, appiedati o in macchina di corso Buenos Aires. Sembrava che tutti si fossero dati appuntamento qui per poi ignorarsi, prima di iniziare il pellegrinaggio nei templi della notte.

Grawul Diop, guarito dal raffreddore almeno per ora, si era tuffato in mezzo al traffico difficoltoso, assordante, tra macchine in sosta nei posti più inimmaginabili, si era districato in quella folla indifferente che riempiva i bar. Era entrato nei bar a cercare suo cognato, aveva sbirciato distrattamente le vetrine illuminate. Aveva comprato le sigarette dal venditore abusivo, scambiato i saluti e chiesto ai venditori di borse taroccate e collane disposte sopra pezzi di stoffa bianca stesi a terra se conoscessero suo cognato e l’avessero visto passare.

Sakho Sumaré aveva sfruttato il ritardo del cognato per intrufolarsi nelle edicole di Corso Buenos Aires, la sera trasformate in pornoedicole. Si era rifornito di cassette e riviste hard. Le aveva messe dentro a sacchetti di carta, proprio uguali a quelli usati dal panettiere per servire i propri clienti.

Quando aveva visto avvicinare il cognato con la sigaretta accesa, aveva tentato di occultare la «refurtiva» sotto il cappotto.

«Cognato, ancora cassette porno... inutile nascondere.»

«Senti chi parla... proprio tu che frequenti Gianni, quel ‘puttano’ di tubab. Per questo arrivi sempre in ritardo, cognato. Scommetto che è stato quel tuo amichetto uomo-donna a trattenerti fino adesso, caro... Chissà che cosa avete combinato questa sera?  Sei un fellone.»

«La polizia...»

«La polizia... e non ti hanno messo in gabbia? La polizia cerca gente come te e fa bene. Se non ci fosse la polizia qui...»

«Chiudi il becco e fammi vedere le porcherie che hai preso. »

«Lo sai meglio di me, che queste cassette e riviste particolari mi servono per oltrepassare la dogana di Taagh. Ho comprato tanti vestiti da rivendere e non voglio guai alla dogana.»

«E vuoi corrompere qualche doganiere con cassette porno, bravo, sei un maiale delinquente. »

«Quella gente è già marcia, io non c’entro. È tutto marciume sotto le loro divise. Tutti delinquenti in divisa. O li corrompi o ti sequestrano la merce, anche se eri disposto a pagare regolarmente. In parole chiare o li corrompi o ti rubano tutta la merce e la rivendono per conto proprio ai bottegai della città. Fingi di non capire come funzionano le cose a Taagh, cognato? Bene, cavoli tuoi... Però, prima di salire sulla mia macchina, spegni questa sigaretta. Non hai rispetto per i miei polmoni... per la mia ulcera. Mi raccomando, non far salire su questa macchina né Federica, né quella zoccola di Gianni. E la mia macchina subito a Genova e via sulla prima nave per Taagh.»

In macchina Grawul Diop aveva continuato a fumare e Sakho a parlare, a parlare:

«Cognato, lo sai, passeremo la notte in coda qua, in corso Buenos Aires.  Non te ne importa un bel niente, lo so, ma io voglio arrivare presto all’Old Zimba...»

«Cognato siamo fermi qua, sulla Circonvallazione, in un mare di macchine, da un'ora, forse di più, da due ore, sarà sicuramente per tutta la notte, m’è già successo. Tutti a clacsonare o a rimorchiare puttane e travestiti, cognato, fai qualche cosa. Cognato, ti sto parlando, hai perso la lingua?  Mi ascolti, scemo?»

Erano arrivati malgrado tutto e due ore dopo all'Old Zimba. Sakho Sumaré si era scatenato sulla pista inondata da luci di volta in volta soffuse, spente, accecanti, eccitanti, nauseanti, ipnotiche.

La discoteca era gremita. Si sentiva parlare confusamente italiano, spagnolo, wolof, arabo, inglese, tigrino, mandingo, francese, milanese e altro. «Taagh, Taagh! La mia città!», aveva gongolato Sakho. Non aveva smesso di ballare un minuto ai ritmi riecheggianti di reggae, m’balax, zouk, sukus, salsa, blues.

Grawul Diop, rimasto tutto il tempo seduto in un angolo, si era divertito abbastanza osservando uomini e donne, bianchi, arabi, neri, giovani e meno giovani... uomini di colore e uomini senza colore che si contorcevano, si abbracciavano, si baciavano, mescolavano corpi e sudori, si scambiavano lo stesso bicchiere, la stessa sigaretta.

Ora voleva tornare a casa. Sakho non ancora, non si era divertito abbastanza: «Cognato, se era per cacciarti in un angolo dell'Old Zimba e fermare sigaretta dopo sigaretta, potevi rimanere a gironzolare in corso Buenos Aires. Lì ti divertivi di più a respirare i gas di scarico delle auto e farti venire una bella bronchite o magari un cancro. Se te ne vuoi andare dalla tua amante, vai, ma a piedi. La odio, la odio quella Federica. Oppure... oppure, caro mio cognato, vuoi andare dal tuo amichetto, Gianni, che ne so io, tu sei capace di tutto... Va bene, va bene, andiamocene via, ti accompagno a casa, guastafeste».