Il non plus ultra dei safari


Nadine Gordimer

 

L'avventura nella tua Africa continua...!
Il non plus ultra dei safari e delle spedizioni con
accompagnatori che conoscono davvero l'Africa.
Annuncio pubblicitario, "Observer",
Londra, 27 novembre 1988

 

Quella sera la mamma andò allo spaccio e non tornò indietro. Mai più. Cos'è successo? Non lo so. Anche il babbo un giorno se n'era andato e non era più tornato; ma lui stava facendo la guerra. Pure noi eravamo in guerra, ma noi eravamo piccoli, eravamo come la nonna e il nonno: non avevamo fucili, noi. La gente contro la quale combatteva il babbo - i banditi, come li chiama il nostro governo - era dappertutto e noi li fuggivamo come polli inseguiti dai cani. Non sapevamo dove andare. La mamma era andata allo spaccio perché qualcuno aveva detto che si poteva trovare dell'olio per friggere. Eravamo contenti perché non assaggiavamo una goccia d'olio da secoli; forse l'aveva trovato e qualcuno l'ha colpita nel buio per portarglielo via. Forse ha incontrato i banditi. Se li incontri, quelli ti ammazzano. Al nostro paese erano già venuti due volte e noi eravamo fuggiti e ci eravamo nascosti nel bush e dopo che se ne erano andati, tornando avevamo scoperto che si erano portati via tutto; ma quand'erano venuti per la terza volta non c'era più niente da portar via, né olio, né cibo, così avevano dato fuoco alla paglia e i tetti delle nostre case erano crollati. La mamma aveva trovato dei pezzi di lamiera che avevamo messo su parte della casa. E lì la stavamo aspettando, quel pomeriggio, ma lei non è più tornata.
Avevamo paura di uscire perfino per fare quello che dovevamo fare perché i banditi sono venuti anche quella volta. Non in casa nostra - senza tetto doveva dare l'impressione di essere vuota, priva di tutto - ma nel resto del paese. Abbiamo sentito la gente correre via urlando. Noi avevamo perfino paura di correre via, senza la mamma a dirci dove andare. Io sono quella di mezzo, e il mio fratellino mi si stringeva contro lo stomaco, con le braccia attorno al collo e le gambe attorno alla vita come una scimmietta si stringe alla sua mamma. Per tutta la sera il mio fratello maggiore aveva tenuto in mano un pezzo di legno che aveva preso da una delle travi bruciate che reggevano il tetto. Per difendersi, se i banditi lo trovavano.
Siamo rimasti là tutto il giorno. Ad aspettarla. Non so che giorno era; nel nostro paese non c'erano più né la scuola né la chiesa e così non sapevamo se era domenica o lunedì.
Al tramonto sono venuti la 'nonna e il nonno'. Qualcuno in paese aveva detto loro che noi bambini eravamo soli, che la mamma non era tornata. Metto la 'nonna' prima del 'nonno' perché è così: la nonna è grande e forte, non ancora vecchia, e il nonno invece è piccolo, non si vede quasi in quei suoi calzoni troppo larghi, sorride ma non sente quello che dici, e i capelli sembrano sempre pieni di schiuma. La nonna ci ha portati a casa sua - me, il piccolo, il fratello più grande e il nonno - e tutti (a parte il piccolo, addormentato sulla schiena della nonna) avevamo una gran paura di imbatterci nei banditi per la strada. Dalla nonna abbiamo aspettato a lungo. Forse un mese. Avevamo fame. La mamma non è mai arrivata. Mentre l'aspettavamo, la nonna non aveva niente da darci da mangiare, e non ne aveva nemmeno per sé e per il nonno. Una donna con tanto latte nel seno ce ne ha dato un po' per il mio fratellino, anche se a casa mangiava come noi farinata di avena. La nonna ci ha portati a cercare gli spinaci selvatici, ma tutti al suo paese l'avevano già fatto e non ne era rimasta nemmeno una foglia.
Il nonno, restando qualche passo più indietro rispetto agli altri, è andato a cercare la mamma con un gruppo di uomini più giovani, ma non l'ha trovata. La nonna ha pianto con le altre donne e tutte insieme abbiamo cantato gli inni. Loro avevano portato qualcosa da mangiare - dei fagioli - ma dopo due giorni non ce n'erano più. Una volta il nonno aveva tre pecore e una mucca e un orto, ma i banditi tanto tempo prima gli avevano portato via le pecore e la mucca, perché avevano fame pure loro; e così quando è venuto il tempo della semina, il nonno non aveva neppure un seme da piantare.
È stato allora che hanno deciso - è stata la nonna; il nonno ha fatto qualche verso ondeggiando di qua e di là ma la nonna non ci ha fatto caso - ce ne saremmo andati. Noi bambini eravamo contenti. Volevamo andare via da quel posto dove non c'era più la nostra mamma, e dove avevamo fame. Volevamo andare dove non c'erano banditi e c'era roba da mangiare. Eravamo felici al pensiero di andare in un posto così; lontano.
La nonna ha dato via i vestiti della festa in cambio di un po' di farina, poi ha fatto la polenta e l'ha avvolta in uno straccio. Quando siamo partiti l'abbiamo portata con noi, e lei ha pensato che l'acqua l'avremmo presa dai fiumi, solo che non ne abbiamo trovati e allora ci è venuta così tanta sete che siamo dovuti tornare indietro. Non fino alla casa dei nonni, solo a un paese dove c'era una pompa. Lei ha aperto il cesto coi vestiti e la polenta e ha venduto le sue scarpe per comprare una grande tanica di plastica per l'acqua. Io ho detto, Gogo, come farai ad andare in chiesa adesso senza neppure le scarpe, ma lei ha risposto che dovevamo fare molta strada e avevamo troppe cose da trasportare. In quel paese abbiamo trovato altre persone che se ne stavano andando. Ci siamo uniti a loro perché a quanto pareva loro sapevano meglio di noi dove andare.
Per arrivarci abbiamo dovuto attraversare il Kruger Park. Sapevamo del Kruger Park. Un intero paese di animali - elefanti, leoni, sciacalli, iene, ippopotami, coccodrilli, ogni specie di animale. Prima della guerra ne avevamo qualcuno anche nel nostro paese (il nonno se lo ricorda; noi bambini non eravamo ancora nati) ma i banditi gli elefanti li uccidono e poi vendono le zanne, e i banditi e i nostri soldati hanno mangiato tutte le antilopi. Nel nostro paese c'era un uomo senza gambe - gliele aveva portate via un coccodrillo nel fiume; comunque il nostro paese è un paese di persone, non di animali. Sapevamo del Kruger Park perché molti uomini delle nostre parti ci andavano a lavorare, nei posti dove i bianchi vanno per vedere gli animali.
E così ci siamo rimessi in cammino. C'erano donne e altre bambine come me che dovevano portare i più piccoli sulla schiena quando le donne si stancavano. Un uomo ci ha fatto da guida nel Kruger Park; siamo già arrivati, siamo già arrivati, continuavo a chiedere alla nonna. Non ancora, ha detto l'uomo quando lei gliel'ha domandato. Ha aggiunto che dovevamo fare molta strada per girare attorno alla recinzione, ci avrebbe uccisi, ha spiegato, arrostito la pelle non appena l'avessimo toccata, come i fili in cima ai pali della luce che portano l'elettricità nelle nostre cittadine. Ho visto quel cartello con la testa senza occhi né pelle né capelli, l'ho visto su una scatola di ferro nell'ospedale della missione prima che questo saltasse in aria.
Quando ho domandato di nuovo, hanno risposto che eravamo nel Kruger Park da un'ora. Ma sembrava del tutto simile al bush, che avevamo percorso tutta la giornata senza vedere nessun animale se non le scimmie e gli uccelli che ci sono anche dalle nostre parti e una tartaruga che, naturalmente, non ha potuto scapparci. Mio fratello maggiore e gli altri maschi l'hanno portata all'uomo per ammazzarla, cuocerla e mangiarla. Ma lui l'ha lasciata andare perché ha detto che non si poteva accendere il fuoco; nel Kruger Park non avremmo potuto accendere nessun fuoco, per tutto il tempo, perché il fumo avrebbe rivelato la nostra presenza. La polizia e i guardiani sarebbero arrivati subito e ci avrebbero rimandati là da dove venivamo. Ha detto che dovevamo muoverci come animali tra gli animali, lontano dalle strade, lontano dai posti dove si erano accampati i bianchi. E proprio in quel momento ho sentito - sono sicura di essere stata la prima - rumori di rami spezzati e fruscii d'erba e per poco non mi sono messa a strillare perché ho pensato che la polizia, o i custodi - la gente da cui aveva detto di guardarci - magari ci avevano già trovato. E invece era un elefante, e un altro elefante, e altri ancora, grandi macchie scure si muovevano dappertutto tra gli alberi. Avvolgevano le proboscidi attorno alle foglie rosse dei carpini e poi se ne riempivano la bocca. I piccoli si stringevano alle madri. Quelli più grandi facevano la lotta come mio fratello maggiore con i suoi amici - solo che loro usavano le proboscidi al posto delle braccia. Ero così attenta che mi sono dimenticata di aver paura. L'uomo ha detto che dovevamo stare fermi e in silenzio mentre passavano gli elefanti. Questi passavano adagio adagio perché sono troppo grandi per aver bisogno di scappare da qualsiasi cosa.
Le antilopi invece scappavano. Facevano certi salti, sembravano spiccare il volo. I cinghiali selvatici, non appena ci sentivano restavano impalati, poi sterzavano bruscamente come faceva un ragazzo del nostro villaggio quando si allontanava a zigzag in sella alla bicicletta che suo padre aveva portato con sé dalle miniere. Seguivamo gli animali per vedere dove andavano a bere. E quando loro si allontanavano dalle pozze d'acqua, ci avvicinavamo noi. Ogni volta che avevamo sete riuscivamo a trovare l'acqua, invece gli animali mangiavano e mangiavano, non facevano altro. Ogni volta che li vedevamo, erano intenti a mangiare erba, alberi, radici. Noi non avevamo più niente. La polenta era finita. L'unica cosa che potevamo mangiare era quello che mangiavano i babbuini, piccoli fichi pieni di formiche che crescono sui rami degli alberi lungo i fiumi. Era difficile essere come gli animali.
Se durante il giorno faceva molto caldo, trovavamo i leoni addormentati. Erano dello stesso colore dell'erba e così non si vedevano subito, ma l'uomo li vedeva eccome e allora ci riportava indietro e ci faceva fare un lungo giro tutt'attorno al posto dove dormivano. Mi sarebbe piaciuto accucciarmi come i leoni. Il mio fratellino diventava sempre più magro ma continuava a pesare un sacco. Quando la nonna mi cercava per caricarmelo sulla schiena, facevo finta di non vederla. Mio fratello maggiore aveva smesso di parlare, e quando ci fermavamo a riposare, dovevano scuoterlo per farlo rialzare: sembrava non sentire, proprio come il nonno. Una volta sulla faccia della nonna c'erano delle mosche e lei non le scacciava; ho avuto paura. Ho preso una foglia di palma e le ho cacciate via.
Camminavamo di notte come di giorno. Si vedevano i fuochi accesi dai bianchi per cucinare là dove si erano accampati e si sentiva l'odore del fumo e della carne. Si vedevano le iene con la schiena curva come per la vergogna, s'infilavano tra le erbe del bush e seguivano l'odore. Se una voltava la testa, si vedevano i grandi occhi castani e luccicanti simili ai nostri quando ci guardavamo nel buio. Dagli spazi recintati dove vive la gente che lavora lì, il vento portava voci nella nostra lingua. Una notte una donna voleva andare da loro a chiedere aiuto. Possono darci gli avanzi, prenderli dall'immondizia, ha detto, poi si è messa a lamentarsi e la nonna l'ha afferrata e le ha messo una mano sulla bocca. L'uomo che ci faceva da guida ci aveva detto di stare alla larga dalla nostra gente che lavora al Kruger Park; se facevano tanto di aiutarci, rischiavano di perdere il posto. Se ci vedevano, l'unica cosa che potevano fare era far finta di niente: avevano visto solo degli animali.
Certe volte di notte ci fermavamo a dormire un po'. Dormivamo rannicchiati uno contro l'altro. Una notte - non so quando perché camminavamo, camminavamo sempre, per tutto il tempo - abbiamo sentito i leoni vicinissimi. Non ruggivano forte come facevano da lontano. Ansimavano come facciamo noi quando corriamo, ma è un ansimare diverso: si sente che non stanno correndo, aspettano, da qualche parte lì vicino. Ci siamo stretti ancora di più uno all'altro, uno sopra l'altro, quelli più all'esterno lottando per infilarsi in mezzo al gruppo. Io ero schiacciata contro una donna che puzzava perché aveva paura ma ero contenta di tenermi aggrappata a lei. Ho pregato Dio che i leoni prendessero qualcuno in cima e se ne andassero. Ho chiuso gli occhi per non vedere l'albero dal quale poteva saltarne giù uno, proprio nel mezzo dov'ero io. E invece l'uomo che ci faceva da guida è balzato in piedi e ha battuto contro l'albero con un ramo secco. Ci aveva insegnato a non fare nessun rumore ma quella volta si è messo a urlare. Urlava dietro ai leoni proprio come fa un ubriacone del nostro villaggio quando urla al vento. I leoni se ne sono andati. Li abbiamo sentiti ruggire, urlargli dietro da lontano.
Eravamo stanchi, stanchissimi. Quando trovavamo il punto dove attraversare un fiume, mio fratello maggiore e l'uomo dovevano sollevare il nonno da una pietra all'altra. La nonna è forte ma le sanguinavano i piedi. Non riuscivamo più a portare il cesto sulla testa, non riuscivamo a portare più niente tranne il mio fratellino. Abbiamo lasciato le nostre cose sotto un cespuglio. Devono arrivare i nostri corpi, ha detto la nonna. Poi abbiamo mangiato dei frutti selvatici che non conoscevamo e ci è venuto mal di pancia. Quel giorno, quando abbiamo avuto i dolori, eravamo in mezzo all'erba degli elefanti; si chiama così perché è alta quasi come un elefante, e il nonno non poteva chinarsi davanti a tutti come il mio fratellino, chiaro, così si era allontanato nell'erba per stare da solo. Dovevamo stare al passo con gli altri, continuava a ripetere l'uomo che ci faceva da guida, dovevamo raggiungerli, ma noi gli abbiamo chiesto di aspettare il nonno.
E così tutti sono rimasti ad aspettare il nonno, prima o poi ci avrebbe raggiunti. Ma lui non l'ha fatto. Era mezzogiorno; gli insetti ci cantavano nelle orecchie e noi non riuscivamo a sentirlo muoversi nell'erba. Non riuscivamo a vederlo perché l'erba era altissima e lui piccolo piccolo. Ma doveva essere da qualche parte lì in mezzo, nei suoi calzoni troppo larghi e nella camicia strappata che la nonna non poteva cucire perché non aveva neanche un po' di filo. Sapevamo che non poteva essersi allontanato perché era debole e camminava a fatica. Siamo andati a cercarlo, ma in gruppi, così quell'erba alta non avrebbe coperto anche noi. Ci entrava negli occhi e nel naso; lo chiamavamo sottovoce ma il ronzio degli insetti doveva aver riempito il poco spazio per sentire che gli era rimasto nelle orecchie. Abbiamo continuato a cercare ma non siamo riusciti a trovarlo. Siamo rimasti in quell'erba alta tutta la notte. In sogno l'ho trovato rannicchiato in un posto con l'erba tutta schiacciata, un posto che si era preparato lui, come fanno le antilopi quando nascondono i loro piccoli.
Quando mi sono svegliata continuava a essere introvabile. E così siamo tornati a cercarlo, e nell'erba c'erano ormai i sentieri che avevamo fatto andando e venendo, sarebbe stato facile per lui trovarci visto che noi non ci riuscivamo. Per tutta la giornata siamo rimasti seduti ad aspettarlo. È tutto così tranquillo quando il sole è proprio in cima alla testa, dentro la testa, anche se si sta sdraiati, come gli animali, sotto gli alberi. Me ne stavo coricata sulla schiena a guardare quei brutti uccelli con il becco a uncino e il collo spennato che continuavano a volare in tondo sopra di noi. Gli eravamo passati vicini spesso mentre mangiavano le ossa degli animali morti, per noi non restava mai niente. Volavano in tondo, sempre più in alto e poi sempre più giù e poi di nuovo in alto. Vedevo i colli muoversi di qua e di là. In tondo, sempre in tondo. Ho visto che anche la nonna, rimasta seduta per tutto il tempo con il mio fratellino in braccio, li guardava.
Nel pomeriggio, l'uomo che ci faceva da guida è andato dalla nonna a dirle che gli altri dovevano rimettersi in cammino. Se i bambini non mangiano presto moriranno, ha detto.
La nonna non ha detto niente.
Prima di ripartire vi porterò dell'acqua, le ha detto.
La nonna ci ha guardati - me, mio fratello maggiore, e il fratellino che teneva in braccio. Noi stavamo guardando gli altri che si alzavano pronti ad andarsene. Non potevo credere che l'erba sarebbe rimasta vuota lì tutt'attorno a noi, dove erano stati loro. Che saremmo rimasti soli in quel posto, nel Kruger Park, e la polizia o gli animali ci avrebbero trovati. Dagli occhi e dal naso hanno cominciato a scendermi le lacrime, mi sono cadute sulle mani ma la nonna non ci ha fatto caso. Si è alzata, con i piedi divaricati come fa a casa quando deve sollevare la legna, si è caricata il mio fratellino sulla schiena, se l'è legato addosso con il vestito, che in alto era tutto strappato e si vedevano i suoi grandi seni, ma lì dentro non c'era niente per lui. Venite, ha detto.
Così abbiamo lasciato quel posto tra l'erba alta. Ce lo siamo lasciato alle spalle. Ce ne siamo andati con gli altri e con l'uomo che ci faceva da guida. Abbiamo ripreso il cammino, un'altra volta.


C'è una tenda molto grande, più grande di una chiesa o di una scuola, legata a terra. Non capivo che cos'era, quando siamo arrivati. Una volta la mamma ci aveva portati in città perché aveva sentito che c'erano i nostri soldati e voleva chiedere loro se sapevano dov'era il babbo, e lì avevo visto una cosa del genere. In quella tenda, la gente pregava e cantava. Questa è bianca e blu come quella ma non serve per pregare e cantare; ci viviamo insieme ad altra gente venuta dal nostro paese. L'infermiera dice che siamo in duecento senza contare i bambini piccolissimi, ce ne sono di appena nati, venuti alla luce mentre attraversavamo il Kruger Park.
Dentro è buio anche quando il sole picchia ed è come una specie di villaggio. Invece di una casa, ogni famiglia ha un posticino chiuso da sacchi o pezzi di cartone - quello che si riesce a trovare - per far vedere agli altri che quel posto è tuo e che non si deve entrare anche se non ci sono porte né finestre né tetti di paglia, tanto che se stai in piedi, se non sei proprio un bambino piccolo, puoi guardare nelle case di tutti. Certi hanno addirittura fatto dei graffiti e dei disegni sui sacchi.
Certo, un tetto c'è davvero - la tenda è il tetto, lassù in cima. È come il cielo. Come una montagna e noi siamo lì dentro; dalle fessure scendono sentieri di polvere, così spessi che potresti arrampicarti sopra. La tenda tiene fuori la pioggia che cade dall'alto, ma l'acqua entra dai lati e nei corridoi tra un posto e l'altro - si riesce a percorrerli solo uno per volta - i più piccoli, come il mio fratellino, giocano nel fango. Bisogna scavalcarli. Il mio fratellino però non gioca. La nonna lo porta dal dottore, quando viene qua il lunedì. L'infermiera dice che c'è qualcosa che non va nella testa, dice che è perché non avevamo abbastanza da mangiare a casa. Per via della guerra. Perché il babbo non c'era. E poi perché aveva tanta fame nel Kruger Park. Gli piace starsene in braccio alla nonna, tutto il giorno, oppure accoccolato vicino a lei da qualche parte, e ci guarda, ci guarda. Si vede che vuole chiedere qualcosa ma non ci riesce. Se gli faccio il solletico magari sorride. Tutto qui. L'ambulatorio ci ha dato una polvere speciale per fare una pappa apposta per lui e forse un giorno starà bene.
Quando siamo arrivati qua anche noi stavamo come lui - io e mio fratello maggiore. Me lo ricordo appena. La gente che abita nel paese vicino alla tenda ci ha portati all'ambulatorio, è lì che bisogna firmare quando si arriva - da lontano, attraverso il Kruger Park. Ci siamo seduti sull'erba ed era tutto annebbiato. Un'infermiera molto carina, con i capelli lisci e belle scarpe col tacco alto, ci ha portato quella polvere speciale. Ha detto che dovevamo mescolarla con l'acqua e berla adagio. Abbiamo strappato i sacchetti con i denti e l'abbiamo leccata tutta, m'è rimasta incollata alla bocca e allora mi sono passata la lingua sulle labbra e mi sono succhiata le dita. Dei bambini che avevano fatto il viaggio insieme a noi si sono messi a vomitare. Io invece sentivo che si muoveva tutto nella pancia, quella roba andava su e giù come un serpente, e m'è venuto il singhiozzo. È venuta un'altra infermiera e ci ha detto di metterci in fila sulla veranda dell'ambulatorio ma noi non riuscivamo a stare in piedi. Ci siamo seduti qua e là, uno addosso all'altro; le infermiere ci sono venute in soccorso prendendoci per un braccio e ci hanno infilato dentro un ago. Altri aghi ci hanno tirato fuori il sangue che poi è finito in certe bottigliette. Era per non stare male, ma io non capivo, ogni volta che mi si chiudevano gli occhi mi sembrava di essere di nuovo in cammino, l'erba era alta, vedevo gli elefanti, non sapevo che eravamo lontani.
Ma la nonna era ancora forte, riusciva a reggersi ancora in piedi, lei sa scrivere e ha firmato anche per noi. Ha scelto questo posto su un lato della tenda, è il posto migliore perché anche se entra la pioggia, quando fa bello solleviamo un lembo e allora il sole brilla proprio sopra di noi, e gli odori vanno fuori. La nonna ha conosciuto una signora che le ha fatto vedere dove si può trovare l'erba per fare delle belle stuoie per dormire, e lei ne ha fatta qualcuna. Una volta al mese arriva il camion dei viveri. La nonna prende con sé una delle tessere che ha dovuto firmare e, dopo che l'hanno timbrata, ci danno un sacco di farina. Ci sono delle carriole per portarlo alla tenda; mio fratello maggiore l'aiuta e poi, quando sono vuote, lui e gli altri maschi fanno a gara a riportarle all'ambulatorio. Certe volte è fortunato e un uomo che è andato a comprare la birra in paese gli dà qualche soldo per la consegna - anche se non si può, è inteso che bisogna subito riportare la carriola alle infermiere. Se lo pesco, lui compra una bibita ghiacciata e ce la beviamo insieme. Sempre una volta al mese, ma in un giorno diverso, la chiesa lascia una pigna di vestiti vecchi nel cortile dell'ambulatorio. La nonna ha un'altra tessera, gliela timbrano e poi possiamo scegliere qualcosa: io ho due abiti, due paia di pantaloni e un maglione, e così posso andare a scuola.
La gente di qui ci ha lasciato frequentare la loro scuola. Mi ha sorpreso scoprire che parlano la nostra stessa lingua; è per questo che ci permettono di restare sulle loro terre, mi ha detto la nonna. Tanto tempo fa, al tempo dei nostri padri, non c'erano recinzioni che uccidono, non c'era il Kruger Park tra loro e noi, facevamo tutti parte dello stesso popolo sotto lo stesso re, dal paese che abbiamo lasciato a questo posto dove siamo venuti.
Adesso siamo qui nella tenda da tanto tempo - ho compiuto undici anni e il mio fratellino ne ha quasi tre anche se è così piccolo, solo la testa è grossa, non gli funziona ancora nel modo giusto - e alcuni hanno scavato la terra tutt'attorno e hanno piantato fagioli, mais e cavoli. I vecchi intrecciano rami per costruire steccati attorno agli orti. Nessuno è autorizzato a cercare lavoro nelle città, ma ci sono delle donne che ne hanno trovato uno in paese e così possono permettersi di comprare quello che vogliono. La nonna, essendo ancora forte, trova lavoro dove costruiscono le case - in questo villaggio la gente costruisce belle case con mattoni e cemento, non con il fango come da noi. La nonna trasporta i mattoni e fa la spola con cesti pieni di pietre sulla testa. E così ha i soldi per comprare zucchero, tè, latte e sapone. Lo spaccio le ha dato un calendario che lei ha appeso sul nostro lembo della tenda. A scuola sono brava e lei ha raccolto la carta delle réclame che la gente butta via quando esce dal negozio e con quella mi ha ricoperto i libri. Tutti i pomeriggi, prima che faccia buio, fa fare i compiti a me e a mio fratello maggiore perché nella tenda non c'è posto, si può stare solo sdraiati uno vicino all'altro come nel Kruger Park, e le candele costano un sacco. La nonna non ha ancora potuto comprarsi un paio di scarpe della festa, però a me e a mio fratello più grande ha comprato delle scarpe nere per la scuola e del lucido per pulirle. La mattina, quando la gente si alza nella tenda, i più piccoli piangono, tutti si spingono per raggiungere i rubinetti fuori e ci sono bambini che grattano via la crosta della farinata d'avena dai paioli della sera prima, io e mio fratello ci puliamo le scarpe. La nonna ci fa sedere sulle stuoie con le gambe ben tese così può controllarle meglio e vedere se le abbiamo lustrate come si deve. Non c'è nessun altro bambino nella tenda con delle vere e proprie scarpe per andare a scuola. Quando le guardiamo tutti e tre insieme, è come essere di nuovo in una casa vera, senza la guerra, non così lontano.
Sono venuti dei bianchi a vedere come viviamo nella tenda e hanno fatto delle fotografie - hanno detto che stavano facendo un film, non ne ho mai visto uno anche se so che cos'è. Una bianca si è intrufolata dove stiamo noi e ha fatto un sacco di domande alla nonna che ci sono state ripetute nella nostra lingua da qualcuno che capisce quella della donna.
Da quanto tempo vivete così?
Intende dire qui? ha detto la nonna. In questa tenda, due anni e un mese.
E cosa spera per il futuro?
Niente. Sono qui.
E per i bambini?
Devono andare a scuola, così avranno un buon lavoro e dei soldi.
Spera di tornare in Mozambico - nel suo paese?
No, non voglio tornare.
Ma quando non ci sarà più la guerra - non la lasceranno più qui. Non vuole andare a casa?
Mi sa che la nonna non voleva più parlare. Mi sa che non voleva più rispondere a quella bianca. Questa ha piegato la testa da un lato e ci ha sorriso.
La nonna ha guardato da un'altra parte e ha parlato - Non c'è niente. Non c'è casa.
Perché dice così la nonna? Perché? Io ci tornerò. Io ci tornerò attraverso quel Kruger Park. Dopo la guerra, se non ci sono più i banditi, magari la mamma ci aspetta. E forse quando abbiamo lasciato il nonno, era solo rimasto indietro, forse è riuscito a trovare la strada, adagio adagio, attraverso il Kruger Park, e sarà là anche lui. Saranno a casa, e io mi ricorderò di loro.



(Tratto dalla raccolta Il salto, Feltrinelli editrice, Milano, 1991, traduzione di Franca Cavagnoli.)



  Nadine Gordimer è Premio Nobel per la Letteratura 1991.

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