ALKAZAR-EL-KIBIR


Edmondo De Amicis

A un certo punto l'Ambasciatore fece un cenno al Caid, la scorta si fermò, e noi, accompagnati da alcuni soldati, andammo poco lontano di là a visitare le rovine d'un ponte. Arrivati sulla sponda, ci fermammo: del ponte non rimanevano che pochi ruderi sulla sponda opposta. Si stette qualche minuto guardando alternatamente quei ruderi e la campagna, ciascuno assorto nei suoi pensieri. E il luogo era degno veramente di quella testimonianza muta di rispetto. Duecentonovantasette anni prima, il giorno quattro d'agosto, sopra quei campi fioriti tuonavano cinquanta cannoni e turbinavano quarantamila cavalli sotto il comando di uno dei più grandi capitani d'Africa, e d'uno dei più giovani, più avventurosi e più sventurati monarchi d'Europa. Per le sponde di quel fiume fuggivano alla rinfusa, rotolavano nel sangue, domandavano grazia, si precipitavano nelle acque per sfuggire alle scimitarre implacabili degli arabi, dei berberi e dei turchi, il fiore della nobiltà portoghese, cortigiani, vescovi, soldati spagnuoli e soldati di Guglielmo d'Orange, avventurieri italiani, tedeschi e francesi: e la cavalleria musulmana calpestava sei mila cadaveri di cristiani. Eravamo sul terreno di quella memorabile battaglia d'Alkazar, che costernò l'Europa e fece risonare un grido di gioia da Fez a Costantinopoli. Quel fiume era il Mkhacem. Su quel ponte passava. al tempo della battaglia, la strada d'Alkazar. In vicinanza del ponte era l'accampamento di Mulei Moluk, sultano del Marocco. Mulei Moluk veniva da Alkazar, il re di Portogallo veniva da Arzilla. La battaglia fu combattuta sulle rive di quel fiume, nella pianura che ci si stendeva dintorno. Quante immagini ci si affollavano! Ma fuorché le rovine del ponte, non v'era una pietra, un segno che ricordasse qualcosa. Da che parte aveva fatto le sue prime cariche vittoriose la cavalleria del duca di Riveiro? Dove aveva combattuto Mulei-Amed, il fratello del Sultano, il futuro conquistatore del Sudan, capitano sospetto di codardia la mattina, re vittorioso la sera? In qual punto del fiume s'era annegato Mohamed il nero. fratricida scoronato, provocatore della guerra? In qual angolo del campo il re Sebastiano aveva ricevuto il colpo di fucile e i due fendenti di scimitarra, che uccidevano con lui l'indipendenza del Portogallo e le ultime speranze del Camoens? E dov'era la lettiga del Sultano Moluk, quand'egli spirò in mezzo ai suoi ufficiali mettendosi il dito sulla bocca? Mentre stavamo su questi pensieri, la scorta ci guardava da lontano, immobile in mezzo a quella pianura famosa, come un manipolo di cavalieri di Mulei-Hamed risuscitati da terra al rumore del nostro passaggio. Eppure non uno forse di quei soldati sapeva che quello era il campo della battaglia dei tre Re, gloria dei loro padri; e quando ci mettemmo in cammino con loro, guardavamo ancora qua e là con occhio curioso, come per cercare se in quell'eroe e in quei fiori ci fosse qualcosa di strano che spiegasse la nostra fermata.

Si passò il Mkhacem e l'Uarrur, due piccoli affluenti del Kus, o Lukkos, il Lixos degli antichi, che dalle montagne del Rif, dove nasce, si va a gettare nell'Atlantico a Laracce, e si continuò a camminare verso Alkazar attraverso ad una serie di colline aride, non incontrando che di mezz'ora in mezz'ora qualche arabo e qualche cammello.
Finalmente, pensavamo strada facendo, s'arriverà a una città! Eran tre giorni che non vedevamo una casa e sentivamo tutti il desiderio di uscire per un giorno dalla monotonia della solitudine. Oltre a ciò Alkazar era la prima città dell'interno a cui giungevamo. Sapevamo d'essere aspettati. La curiosità era viva. La scorta si ordinava via via che ci avvicinavamo. Noi stessi, quasi senza accorgercene. ci trovammo schierati in due linee come un drappello di cavalleria, l'Ambasciatore dinanzi, gl'interpreti ai lati.
Il tempo s'era rasserenato, e un'impaziente allegrezza animava tutta la carovana.
Dopo quattr'ore di cammino, all'improvviso, dall'alto d'una collina, vedemmo giù nella pianura in mezzo a una cintura di giardini, la città d'Alkazar coronata di torri, di minareti e di palme, e nello stesso tempo ci ferì l'orecchio uno strepitio di fucilate e il suono d'una musica infernale.
Era il governatore della città che ci veniva incontro coi suoi ufficiali, un drappello di soldati a piedi, e una banda.
Dopo pochi minuti c'incontrammo.
Ah! Chi non ha visto la banda d'Alkazar, quei dieci sonatori di piffero e di corno, vecchi di cent'anni e ragazzi di dieci, tutti a cavallo di asinelli grossi come cani, cenciosi, mezzi nudi, con quelle teste rase, con quegli atteggiamenti di satiri, con quelle faccie di mummie. non ha visto, credo, lo spettacolo più lagrimevolmente comico che si possa dare sotto la volta del cielo.
Mentre il vecchio Governatore dava il benvenuto al ministro, i soldati tiravano fucilate in aria, e la banda continuava a sonare. Ci avanzammo fino a un mezzo miglio dalla città, in un campo arido, dove si dovevano piantare le tende.
La banda ci accompagnò suonando.
Fu rizzata la tenda della mensa, sotto la quale ci riparammo, mentre i cavalieri della scorta facevano le solite cariche.
La banda, schierata davanti alla tenda, continuava a suonare con ferocia crescente.
Un gesto supplichevole dell'Ambasciatore li fece tacere. Allora assistemmo a una scena assai curiosa.
Quasi nello stesso punto si presentarono concitatamente all'Ambasciatore, uno a destra e l'altro a sinistra, un nero ed un arabo. Il nero vestito signorilmente, col turbante bianco e col caffettano celeste, gli depose ai piedi un vaso di latte, una cesta di aranci e un piatto di cuscus: l'arabo, d'aspetto povero, vestito della sola cappa, gli mise dinanzi un montone. Compiuto quest'atto, si scambiarono uno sguardo fulmineo.
Erano due nemici mortali.
L'Ambasciatore che li conosceva e li aspettava, chiamò l'interprete, sedette e cominciò l'interrogatorio.
Erano venuti a chiedere un giudizio.
Il nero era una specie di fattore del vecchio gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della corte di Fez, proprietario di molte terre nei dintorni di Alcazar. L'arabo era un uomo della campagna. La loro lite durava da un pezzo. Il nero, forte della protezione del suo padrone, aveva fatto più volte incarcerare e multare l'arabo accusandolo, e sostenendo l'accusa con molte testimonianze, d'avergli rubato cavalli, bestie bovine, derrate. L'arabo, che si diceva innocente, non trovando nessuno che osasse pigliar le sue difese contro il suo persecutore, un bel giorno aveva abbandonato il suo villaggio, era andato a Tangeri, aveva chiesto quale fosse l'Ambasciatore più generoso e più giusto, e inteso nominare l'Ambasciatore d'Italia, era andato a sgozzare un agnello davanti alla porta della Legazione, chiedendo in questa forma sacra a cui non si può opporre un rifiuto, protezione e giustizia. L'Ambasciatore l'aveva esaudito, s'era intromesso per mezzo dell'agente di Laracce, s'era rivolto alle autorità della città di Alkazar; ma per la lontananza sua, per gl'intrighi del nero, per la fiacchezza delle Autorità, il povero arabo era rimasto nelle stesse peste di prima: fatto anzi vittima di nuova accuse e di nuove persecuzioni. Ora la presenza dell'Ambasciatore doveva sciogliere il nodo.
Tutti e due furono ammessi a dire le proprie ragioni: gl'interpreti traducevano rapidamente.
Nulla si può immaginare di più drammatico del contrasto che presentavano le figure e il linguaggio di quei due personaggi. L'arabo, un uomo sui trent'anni, infermiccio, d'aspetto triste, parlava con foga irresistibile, tremando, fremendo, invocando Iddio. battendo i pugni in terra, coprendosi il viso colle mani in atto di disperazione. fulminando il suo nemico con sguardi che nessuna parola può esprimere. Diceva che aveva corrotto i testimoni, che aveva intimidite le autorità, che lo aveva fatto imprigionare per estorcergli dei denari, che come lui aveva fatto cacciare in prigione molti altri per poter violare le loro donne, che aveva giurato la sua morte, ch'era il flagello del paese, un maledetto da Dio, un infame, e così dicendo mostrava sulle braccia e sulle gambe nude le traccie dei ferri della prigione, e l'angoscia gli strozzava la voce. Il nero, una figura di cui ogni tratto confermava una di quelle accuse, ascoltava senza guardare, rispondeva senz'alterarsi, sorrideva impercettibilmente con la punta delle labbra, immobile, impassibile, sinistro come una statua della Perfidia.
La discussione durava da un pezzo, e pareva che non dovesse più finire, quando l'Ambasciatore la troncò con una risoluzione che fu accettata di buon grado dalle due parti. Chiamò Selam, che comparve sull'istante coi suoi grandi occhi neri spalancati, e gli ordinò di saltare a cavallo e andare di galoppo al villaggio dell'arabo, distante un'ora e mezzo da Alkazar, a chiedere informazioni agli abitanti intorno alle persone e ai fatti. Il nero pensava: - Hanno paura di me: o mi sosterranno o non diranno nulla. - L'arabo pensava invece, e con più ragione, che interrogati da un soldato d'un'Ambasciata, avrebbero avuto maggior coraggio di dire la verità.
Selam partì come una freccia: i due contendenti si allontanarono, e non li rividi più. Seppi poi che gli abitanti del villaggio avevano tutti testimoniato in favore dell'arabo e a carico del nero, il quale, per sollecitazione dell'Ambasciatore, fu condannato a restituire alla sua vittima tutto il denaro che le aveva estorto.

1878

Tratto da Marocco, Scriba / Ars Medica edizioni, Gallarate, 2005)

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