LA GUERRA CONTINUA

 

 

IL MONDO IN GABBIA

 

Isidoro D. Mortellaro

 

Che paradosso! E’ toccato proprio a Kofi Annan, mentre gli si consegnava a dicembre il Premio Nobel per la pace, rendere l’ennesimo tributo alla guerra, alla violenza, all’11 settembre come sigillo e forgia della storia, del tempo: “Siamo entrati nel terzo millennio per una porta di fuoco”. Anche in questa limpida e terrificante rivelazione, però, straordinario s’avverte il contrasto tra la precisa sottolineatura della censura, del colpo subito – anche questo secolo, fin dai primi passi, “è già stato violentemente disilluso di qualsiasi speranza ce il progresso verso la pace e la prosperità globale sia inevitabile” – e l’incertezza dei nuovi orizzonti. Si rinvia al terzo “millennio”, all’indefinito per eccellenza. Finisce così col prevalere quel ‘nulla sarà come prima’ che ha campeggiato fin dalle prime ore sulla dissoluzione delle Twin Towers e che, riproposto a distanza di mesi, rischia ormai di produrre nebbia e approssimazione.

In verità, proprio il trascorrere di dicembre e del 2001 può aiutare. Coincide con alcune tappe e perciò con primi bilanci: la prima fase della ‘guerra infinita’, all’Afghanistan; ma anche il primo anno di presidenza del giovane Bush’. Con le perimetrazioni permesse da questi paletti, restringendo così l’orizzonte, è allora possibile ritornare anche sull’11 settembre e sul suo significato, per meglio cogliere i processi lì scatenati, provare a schizzarne dinamiche e traiettorie.

 

L’ultimo muro

 

Tanti di fronte all’11 settembre, a quelle atomiche urbane lanciate su New York e nei video, nel cervello e nella coscienza del pianeta, hanno evocato e istituito un confronto con Pearl Harbour. In scia, quasi tutti hanno sottolineato la fine dell’invulnerabilità degli Usa, ricavandone, in molti, un ennesimo millenaristico termine: The end, non più della Storia, ripresa ora in sfrenato galoppo; ma magari della sicurezza occidentale o, secondo vedute e convinzioni, della globalizzazione, piombata ora dalla Belle Epoque nel terrore. Si è scavato poco, invece, in un tratto pur insistito del gesto terroristico: la scelta ultima del kamikaze. stando all’Osama Bin Laden del video ‘ritrovato’ e ‘restaurato’. Dappertutto, con un’istantaneità da globalizzazione inattinta anche dall’apocalisse di Hiroshima, un brivido ha raggelato e annichilito il pianeta: c’è chi fa leva sulla proprio vita per farla esplodere, moltiplicata all’infinito dalle reti e dai simboli della globalizzazione; c’è chi osa e costringe a varcare la soglia della mutua distruzione. Con l’11 settembre non è crollata soltanto una paratia che divideva da un’epoca di indistinto terrore. È stato piuttosto abbattuto un muro che aveva funzionato da architrave per un’intera età, risorsa e condanna della guerra fredda. Come deterrenza nucleare, per quasi mezzo secolo aveva trattenuto, congelato il mondo e l’umanità sull’orlo dell’abisso, del suicidio. Teorizzata e moltiplicata fino all’inverosimile come minaccia permanente, la M. A. D., Mutual Assured Destruction, aveva rinchiuso le due super potenze nel rilancio e nel ricatto della corsa agli armamenti. Le aveva condannate a vivere come ‘scorpioni in bottiglia’, ma anche esaltate come reggenti del mondo sospeso nella condizione, tratteggiata da Raymond Aron, di “pace impossibile, guerra improbabile.” Nè quel ricatto s’era dissolto con la fine del bipolarismo. Era sopravvissuto come risorsa estrema della potenza egemone, gli Usa, attenti, di fronte alle incognite della globalizzazione, non solo a conservarla, come ancoraggio, morso del mondo messo a soqquadro dalla globalizzazione neo liberista, ma a rafforzarla nel monopolio di nuove armi e scudi stellari.

È agli Usa di ‘Bush il giovane’, del rinnovato ‘scudo spaziale’ che il terrorismo sottrae la minaccia e l’arma della mutua distruzione assicurata. Non solo osando l’impensabile, l’unthinkable su cui s’erano arrovellati per decenni scienziati e strateghi, schiere di Stranamore, ma anche negando un punto dì applicazione alla dissuasione nucleare, sottraendosi allo sguardo e alla mira, alla rappresaglia dell’iperpotenza americana. Si è parlato di guerra asimmetrica per raffigurare la dissoluzione del terreno di battaglia tra opposte statualità e la sua dispersione nelle reti e soggettività del post-guerra fredda. Minore attenzione si è piuttosto prestata alla straordinaria simmetricità con cui il terrorismo ha mimato e riprodotto l’asimmetria messe in campo dall’Occidente e dagli Usa con la guerra celeste, la guerra intelligente, condotta da lontano, al riparo dalla risposta e dai colpi dell’aggredito. Da ambo i campi si sceglie simmetricamente invisibilità e distanza, ancorchè conquistate e conservate i  forme e con mezzi diversi.

L’11 settembre viene infranta la pietra angolare su cui gli Usa avevano conquistato a sè il primato e al mondo un rovinoso equilibrio. Ne è ben conscio – e non a caso – il vice presidente Dick Cheney, ora vero uomo ombra della presidenza e pivot di tutta la squadra di  cold warriors, strateghi della guerra fredda, che contorna Bush e che ora dirige le operazioni di guerra. IN unam delle sue rare interviste, Cheney ha espresso con chiarezza il salto: “Un tempo c’era la guerra fredda, ma noi ci difendevamo con la deterrenza...ora siamo vulnerabili come società, perchè ci sono persone che ci vogliono morti e sono pronte a morire per ottenerlo”.

Con il sistema della mutua distruzione crolla l’ultimo muro. Aveva delimitato i grandi spazi del bipolarismo, degli imperi contrapposti. ma anche garantito un confine, un contenimento, una misura della potenza spaventosa accumulata dalla guerra moderna. E non è un caso che ora, dopo l’11settembre, non vi sia più remota nè freno. L’atomica – arma fondativa della globalizzazione, dell’unificazione del mondo e dell’umanità in comunità di destino – torna a popolare l’incubo planetario quotidiano. Osama Bin Laden nel suo primo proclama, in risposta all’attacco in Afghanistan addita Hiroshima e Nagasaki a peccato originale degli Usa e dell’Occidente, a moderno confine tra credenti e miscredenti. Di converso Rumsfeld non esclude l’utilizzo della bomba. E l’atomica torna a farsi minaccia sul confine indo-pakistano o nel triangolo mediorientale disegnato da Israele, Iran ed Iraq in cui matura la nuova puntata della guerra al terrore . In attesa, la dismisura promessa dal suo utilizzo fa da padrona nella condotta concreta del conflitto, che, come Guerra Santa, del Bene contro il Male, del ‘Dio è con Noi’, diventa onnipotenza tecnologica, escalation nell’utilizzo di ordigni sempre più terrificanti. Ossessionati dal Ground Zero sempre più larghi e profondi nelle montagne afghane. Conquista attenzione e audience uno dei conservatori più battaglieri, Charles Krauthammer, che rifacendosi all’insegnamento di Bin laden – “quando il popolo vede un cavallo forte e uno debole per sua natura sceglie quello forte2 – pontifica dalle colonne del “Washington Post”: “Come vincere una guerra santa? Bombarda i guerrieri della jihad e intimidisci gli spettatori...la vittoria cambia tutto”. A ruota, Kissinger, dimentico dell’abisso volta a volta contornato e evitato, si produce nella revisione a tutto campo dell’ultimo mezzo secolo e nell’elogio sperticato di guerra e violenza: guai ad affidarsi “unicamente alla diplomazia”, si ripeterebbe “l’errore degli ultimi cinquant’anni”. E conclude sulla vacuità di una lotta al terrorismo risolta nella diplomazia, “non appoggiata dalla minaccia della forza”.

      È il logico approdo di una corsa che ha abbattuto ogni ostacolo e che ora, alla chiusura del decennio aperto dalla Guerra del Golfo, allinea, assieme a una miriade di conflitti civili, più o meno locali, ben tre guerre globali, lanciate nel mondo in nome e per conto dell’umanità.

 

Dismisure e metamorfosi

 

Ma è nella risposta all’attacco terroristico che la dismisura della guerra si rivela appieno, mettendo a nudo non già un ritorno della politica e del Leviatano, dopo la sbornia globalista del mercato, ma le loro iperboliche metamorfosi nel mondo, nella globalizzazione del XXI secolo.

Contrariamente alla vulgata dominante nella maggior parte dei commenti e delle analisi, il Congresso americano non ha largheggiato con George W. Bush nella concessione dei poteri di guerra. Anzi. Il 14 settembre, nelle aule del Senato e della Camera dei Rappresentanti riuniti per votare la guerra, prevale ancora il sospetto per un presidente imposto, al paese e agli elettori spaccati, da un colpo di mano della Corte Suprema. Aleggiano diffidenza e sconcerto per chi, sballottolato per cieli e basi segrete nelle prime ore dopo l’attacco, si è rivelato clamorosamente spaesato e assente. Anche così si spiega la strada scelta da deputati e senatori. Sicuramente quella della guerre. Lo sottolinea, se ce n e fosse bisogno, il ricorso alla War Power Resolution, la Risoluzione sui poteri di guerra con cui il Congresso era riuscito finalmente, nel novembre 1973, a disciplinare e ridurre l’ampia discrezionalità conquistata in materia dalla presidenza, in particolare con l’escalation vietnamita. Viene però fatta una scelta precisa fra le tre possibili soluzioni che la legge contempla per dare la parola alle armi: una formale dichiarazione di guerra; una autorizzazione legislativa; una risposta improvvisa a una emergenza. Le Camere escludono la dichiarazione di guerra: si spoglierebbero d’ogni potere a favore della presidenza. Provano a tenere le briglie al collo di Bush e scelgono così l’autorizzazione legislativa, con il voto su una risoluzione congiunta: è una strada che la legge costella di controlli periodici e rapporti al Congresso. L’illusione di mantenere il controllo è però vanificata ab imis dall’oggetto stesso della risoluzione: scegliere la guerra in risposta al terrorismo, all’iperterrorismo dell’11 settembre. È come acchiappar mercurio a mani nude: fatica vana e infinita. La lettura del dispositivo rivela subito come l’oggetto sfugga a qualsiasi misura o contenimento: intanto alla forma tradizionale della guerra che, nell’individuare il nemico, si dà spazi  di intervento e manovra, obiettivi precisi su cui mirare e vie da percorrere e tempi, quelli della propria e dell’altrui resistenza e sopravvivenza. Niente di tutto questo. Nelle risoluzione si legge che “il presidente è autorizzato a usare tutta la forza appropriata e necessaria contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che, a suo giudizio, hanno pianificato, autorizzato, commesso o agevolato l’attacco terroristico dell’11 settembre o hanno ospitato simili organizzazioni e persone, anche per prevenire ogni futuro atto di terrorismo internazionale contro gli Usa”. La carta bianca, negata nelle forma, è imposta dalla sostanza di una guerra su scala planetaria, dichiarata ad un nemico senza volto, che il presidente degli Usa volta a volta potrà individuare e nominare anche per prevenire attacchi futuri. Si gareggia con l’Onnipotente: si punisce non solo il ‘peccato di opere’, ma anche quello di ‘pensiero. Di lì a poco Bush aggiungerà quello di ‘omissione’ quando, all’inizio dei bombardamenti sull’Afghanistan, ma poi anche nel massimo consesso mondiale, all’assemblea dell’Onu, proclamerà che “ogni nazione dovrà scegliere. In questa guerra non c’è neutralità”.

Rispetto ad un conflitto che dilaga nel mondo, si stenta ad enumerare tempi, obiettivi e forme. Esponenti dell’amministrazione Usa parleranno di oltre 60 possibili scenari. da bush e dai suoi collaboratori arriveranno profezie di guerre che sorpasseranno le generazioni e le forme conosciute. Figlie e profeti della società dell’informazione dovranno abituarsi al segreto, a operazioni invisibili. la comunicazione deve cedere il passo alla deformazione. Non sorprende ceh per battezzare l’annuncio non di una semplice guerra, ma di una nuova fase della storia degli Usa e del mondo, si sia scelto il nome di Infinitive Justice. Inappropriato il sostantivo sommamente se applicato alla guerra. Ma l’aggettivazione esprimeva a pieno la dismisura di intenzioni e processi. Nomina sunt consequentia rerum: gli Usa hanno avviato il mondo per una guerra senza confini, globale, e perciò inevitabilmente guerra civile. Anche questo è un portato dell’era atomica, quando il conflitto contempla inevitabilmente l’umanità come bersaglio e non conosce più il nemico esterno, non sa e non può più trattenersi in spazi e contenitori dati. 

A rafforzare la deriva verso un conflitto civile planetario hanno, però, contribuito potentemente la crisi manifesta dell’Onu e la subalternità del Consiglio di Sicurezza rispetto alla lettura di scenari e conflitti proposta dagli Usa. Le deliberazioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 12 settembre provvedevano alla pronta condanna dell’atto terroristico, alla più piena attivazione di tutti gli Stati nella lotta al terrorismo, considerato, nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza, come “una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”, sulla scia di precedenti risoluzioni che individuavano nella “soppressione del terrorismo internazionale un atto essenziale per preservare la pace e la sicurezza internazionale”.

E’ con la deliberazione del 28 settembre, successiva alla concessione dei poteri di guerra a Bush, che il Consiglio di sicurezza – opportunamente pungolato dal rappresentante Usa Jhon Negroponte – imbocca una via senza ritorno. Come già nella Risoluzione del 12, si provvede a “riaffermare il diritto naturale di legittima difesa individuale i collettiva”. Ma si tratta, come ben chiarisce l’Art. 51 della carta delle Nazioni Unite, di un diritto naturale esplica “rispetto ad un attacco armato” e “fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza o internazionale.” Non sta al Consiglio di sicurezza o alle Nazioni Unite riconoscerlo o meno. Insistere nel riconoscimento, senza assumere alcuna misura volta ad assorbire o sostituire l’autodifesa in atto, significa solo legittimare, come ha già chiarito Gianni Ferrara, le decisioni americane. Queste però, in base alla deliberazione congiunta da parte del congresso del 14 ottobre, non sono affatto rivolte solo all’Afghanistan, come sottolinea Ferrara. Consegnano al presidente e alle forze armate americane un mandato e un raggio di azione planetari. E perciò, quando il Consiglio di sicurezza con i commi successivi, decide il 28 settembre di chiedere a tutti gli stati di prevenire o reprimere ogni atto terroristico, provvede  all’interruzione e al prosciugamento di canali e fonti di finanziamento, scompaginando reti di reclutamento e addestramento, collaborando sul piano internazionale con lo scambio di informazione, e segnalazioni, mobilitandosi insomma a ogni livello contro ogni forma di terrorismo internazionale, disfatto e formalmente chiede ad ogni Stato di disporsi a terminale e ganglio dell’azione globalmente proclamata dagli Usa, ma amministrata su scala mondiale dalla presidenza americana e dai suoi vari bracci esecutivi. Quanto e come gli Usa siano pronti a utilizzare nuovi spazi aperti alla propria azione da questa risoluzione del consiglio di Sicurezza diviene chiari il 7 ottobre, mentre iniziano i bombardamenti nell’ Afghanistan. Il rappresentante permanente degli Usa all’ Onu indirizza al Presidente del Consiglio di Sicurezza in cui notifica l’avvio delle azioni militari in Afghanistan, “ nell’esercizio di diritto naturale di legittima difesa” dagli atti terroristici dell’11 settembre: una ‘legittima difesa’ preannunciata dalla Risoluzione del 28 settembre.

L’effetto di questa richiesta globale dell’Onu di mettere il mondo in sicurezza, in coda e coordinamento all’azione americana, è duplice. Da un lato, l’organizzazione della lotta globale al terrorismo, si muta in legittimazione e incrudelimento, nei punti più caldi del pianeta, di conflitti civili o intestini preesistenti o preannunciati. Sono in molti, e tra i più potenti, a celebrare sacrifici sull’altare di quella guerra santa: kla Russia di Putin offre la Cecenia, la Cina le sue minoranze musulmane o buddiste, Israele prova a stroncare l’Intifada, l’India chiede che il Pakistan smetta di fomentare il Kashmir, per rimanere ai casi più noti. A ruota segue la militarizzazione di ordinamenti, la stretta di vite e l’espansione della legislazione anti-terroristica, a imitazione e amplificazione delle restrizioni varate negli Usa in materia di libertà civili, di movimento e di difesa legale. Dall’altro lato, gli Stati Uniti vedono moltiplicare il loro potere di coalition building, la capacità di assemblare alleanze e coalizioni il cui unico denominatore è la battaglia dei propri interessi e prerogative, nazionali o imperiali. Finora agli Usa non è costato nulla tessere queste reti, fino a potersi permettere il lusso di tenere in riserva la Nato, prontamente scesa in campo nell’inedita attivazione dei meccanismi per la difesa comune.

 

 

 

La presidenza imperiale.

 

        Appropriatamente Edward Luttwak si è rifatto alla Santa Alleanza per provare a delineare contorni  e baricentro di questa inedita costellazione di poteri. Il paragone è felice e potrebbe sprigionare ampie possibilità analitiche se inserito in un giudizio adeguato sul profilo internazionale dell’amministrazione Bush. Ma in materia quasi unanimemente hanno imperversato, dapprima, la fascinazione per il nuovo corso di politica estera inaugurato dalla presidenza Bush, in risposta all’11 settembre, e, successivamente, lo sconcerto, a mano a mano che sui campi più disparati e sui capitoli più scottanti- dalla denuncia del trattato Abm alle proposte di finta riduzione dell’armamento atomico, dai rifiuti su varie convenzioni in materia di armamenti alle trattative in materia di commercio internazionale – Bush il giovane e la sua squadra sono ritornati, accentuando toni e sostanza, a posture più schiettamente unilateralistiche.

     Nel merito, nulla più del capitolo scottante dei prigionieri di guerra può permettere di fare chiarezza. E’ noto intanto come l’amministrazione americana preferisse evitare un dopoguerra – impensabile, per definizione, in una ‘guerra infinita’ – o un retroguerra, costellato di carceri e tribunali, potenziali altari o tribune di un terrorismo votato al martirio e ferratissimo nella comunicazione. Di qui la condotta più volte esplicitamente teorizzata e praticata dal ministro della Difesa Rumsfeld, al grido del ‘niente prigionieri’ e col vanto di ordigni inumani dispensati sulla già desolata gruviera afghana. Parallelamente Bush, in collaborazione con il retrivo Ashcroft ministro della Giustizia, approntava, tra approssimazioni e modifiche progressive, tribunali militari dipendenti dall’esecutivo e paralleli al sistema giudiziario americano, incaricati di perseguire e processare su scala globale i sospettati di terrorismo. E’ seguito l’approntamento, a Guantanano, di una base militare collocata non su suolo americano ma fittata dal governo cubano, di un carcere assemblato con tiger cages, gabbie da tigre, in cui trasferire e serrare i ‘detenuti’ della guerra afgana. A costoro, in assoluto contrasto con lo stato di guerra proclamato istituzionalmente e a ogni livello della vita nazionale e internazionale, si nega sia la qualifica di ‘prigionieri di guerra’- dovrebbero godere della protezione di varie convenzioni internazionali e comunque essere liberati alla cessazione delle ostilità, se non indagati di circonstaziati crimini di guerra- sia l’accesso al suolo americano, per impedire che possano chiedere di essere giudicati dal sistema giudiziario americano. Lo ius ad bellum squarcia con immensi Ground Zero lo ius in bello e il diritto internazionale. In attesa che si decida come processare realmente  i ‘detenuti’, li sospende in un limbo amministrato dalla presidenza Usa e dalle sue emanazioni, in barba a ogni regolamentazione internazionale ma anche all’equilibrio dei poteri della repubblica americana. Inquieto s’affaccia un dubbio: potrebbe costituire un precedente, ritorto magari contro i tanti marines che s’aggirano per il mondo da chi dovesse ritenere illegittima guerra a stelle e strisce.

      In vitro il caso è rivelatore di uno straordinario terremoto che sta mutando la scene internazionale americana. Bush il giovane – che con la sua risicata vittoria doveva segnare il tramonto definitivo della ‘presidenza imperiale’ – è ora, con la sua squadra di pretoriani, al centro di una ridefinizione imperiale dei poteri e della politica di inusitata estensioe e profondità. Alcuni esempi, sulla scorta dei tribunali militari speciali, sono particolarmente illuminanti: con Putin si è abbozzata una riduzione degli armamenti atomici per gentleman’s agreement e non per trattato, e perciò non soggetta a ratifica congressuale; così è stato anche per la denuncia del trattato Abm, decisa senza il concorso del Congresso; il presidente ha ottenuto da un ramo parlamentare il cosiddetto fast track, ovvero mano libera nelle trattative in sede di Wto, su materie e contenziosi paragonati da Zoellik, il rappresentante americano, a vere e proprie bombe atomiche, in particolare tra Europa e Usa; e così via.

         Si può allora capire meglio l’insistenza, soprattutto ad opera di Rumsfeld e Cheney, nel paragonare la ‘guerra infinita’ alla ‘fredda’, alla loro Cold War. Allora la costrizione ultima della deterrenza atomica impediva il conflitto aperto. La guerra cessava di essere la continuazione della politica,ma diveniva a sua volta politica. Stato duale, camicia di forza che segnava i confini di sistema e condizionava il gioco degli attori, le loro lealtà. Anche con la guerra infinita, la lotta al terrorismo, la ricerca del nemico diviene costrizione generale, codice che alimenta la riscrittura delle regole.

          Quel che muta è l’unilateralismo dell’attore fondamentale. Allora gli Usa, con presidenza e Congresso affratellati nel ‘consenso della guerra fredda’, tennero a battesimo Onu e Nato, Ocse e successivi sviluppi comunitari, Fmi e World Bank. Oggi una nuova presidenza imperiale affastella coalizioni che si nutrono della decomposizione delle istituzioni internazionali affidata alle cure esclusive degli esecutivi e al riparo di Parlamenti. Ma nel fuoco di un conflitto che prova a ricondurre a disciplina il mondo uscito dai cardini a Seattle e Genova.

            Mai come in quest’alba di secolo pace e guerra appaiono nitidamente forme alternative alla politica. Non quella auspicabile, ma quella vissuta e agita dai due campi contrapposti – quello oligarchico e quello democratico – che da trent’anni e passa provano a regolare, a costituzionalizzare la polis globale in cui il mondo si viene organizzando. L’11 settembre ha rivelato, sotto l’urto di una guerra intestina alle oligarchie del pianeta, tra i vincitori della guerra fredda, che siano a un salto e un’accelerazione nella regolazione oligarchica e neoliberistica del mondo. Chi finora ha vinto – nella moderna guerra dei trent’anni aperta dall’emergere, con il ’68, di un globalismo democratico, partecipato – sta accelerando il passo nella riscrittura delle regole del gioco. Sarà un passo più lungo della gamba, se dall’altro lato il globalismo democratico, riemerso a Seattle e Genova, saprà continuare a mettere in crisi egemonie liberiste e pretese oligarchiche e, soprattutto, vorrà fare della pace il cardine di un’altra agenda e di una nuova politica. 

 

                       

 

(da La Rivista del Manifesto n. 25, febbraio 2002)