L'ENORME DESERTO AFFOLLATO:
L'ATTUALITA' DELLE LIRICHE DI CAMILLO SBARBARO OGGI


Silvano Leone


Talor, mentre cammino per le strade
Della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino d'essere
uomo tra gli altri e come smemorato,
anzi, tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi.

M'occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza e d'ansietà
come per mano che mi opprima il cuore.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di meretrici, entro il cervello
mi s'imprimon dolorosamente.
E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l'inutilità della lor vita
amara e il lor destino ultimo, il buio.

Chè ciascun di loro porta seco
la condanna d'esistere: ma vanno
dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall'attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.

Provo un disagio simile a chi veda
Inseguire farfalle lungo l'orlo
D'un precipizio, od una compagnia
Di strani condannati sorridenti.
E se poco ciò dura, io veramente
In quell'attimo m'impauro
A vedere che gli uomini son tanti.


L'angoscia, il timore e l'ansia dell'essere umano di esistere, o meglio, forse, di sopravvivere in una società che di umano non ha più nulla, che va verso un futuro totalmente preda delle macchine, accanto all'estraneità e all'alienazione da quella massa informe e incosciente che è la folla, questi i temi che vagavano come ombre corvine in mantelli vermigli nei pensieri di un poeta di inizio Novecento, oggi forse tristemente dimenticato, Camillo Sbarbaro.
Ha senso parlare oggi di questo illustre fantasma?
In un mondo che è talmente impegnato a guardare al futuro che scorda il passato, le sue liriche non possono che confermare l'affermativa risposta alla sovracitata domanda.
Camillo Sbarbaro viene inserito nel gruppo di quegli intellettuali che si raggruppavano intorno al giornale di Prezzolini-Papini "la Voce", i cosiddetti "vociani", fra i quali figurano nomi quali Clemente Rebora, Dino Campana, Giuseppe Ungaretti e molti altri. Si è soliti parlare di lirismo autobiografico per la poesia di Sbarbaro, ed è possibile vedere la sua poetica come un superamento del crepuscolarismo verso una dimensione ancora più intima, nella quale i temi siano trattati con la stessa dimissione, ma non con lo stesso tono colloquiale che era tipico di poeti quali Corazzini o Gozzano. Indubbiamente il movimento crepuscolare ha influito in maniera notevole su Sbarbaro, difatti sia gli argomenti da lui trattati, sia le conclusioni alle quali perviene, potrebbero essere iscritte nel modus operandi dei crepuscolari, ma il suo stile risulta essere privo di quell'ironia che caratterizzava le opere di Gozzano, mirando piuttosto a una riduzione all'essenzialità della parola, che si fa nella sua unicità, spia della condizione esistenziale dell'individuo, ponendosi sulla linea di quel linguaggio che poi Montale chiamerà "scabro ed essenziale".
Una reazione dunque alla modernità, ad un progresso che arreca sì benessere, ma che allontana sempre più l'uomo dal suo simile, che fa sentire in maniera maggiore la differenza e, conseguentemente, la solitudine. Alla vigilia della Grande Guerra, che stroncherà una generazione di uomini, Sbarbaro ci mostra dal suo osservatorio umano ligure una massa informe che vive senza averne coscienza; a volte può giungere in questo grigio panorama un raggio di luce, ma estremamente fugace e caduco, che riesce solo a mostrare quanto sia forte il contrasto fra la Vita e la vita degli esseri umani; è probabilmente da intendersi il "talora…" con il quale molte poesie di "Pianissimo" iniziano come spia di questo barlume di luce evanescente.
Nell'epilogo della sovracitata lirica in pariticolare, passa a descrivere le sensazioni che, come lo definirebbe Balzac, la "commedia umana" suscita in lui: due similitudini ci mostrano efficacemente lo sconforto del poeta, che dovrà continuare a fingere, poiché deve vivere in quella società, ma, in quell'attimo nel quale lui ha guardato nell'abisso umano, nella riflessione di quanti uomini vivano così, solo un moto di terrore può cogliere il suo animo.
Credo sia possibile suddividere la poesia in quattro sequenze: la prima, dal v.1 a v.9, che ci introduce nella situazione in cui il poeta inizia la sua riflessione, tratta proprio l'alienazione di costui dalla massa ( guardo con aperti estranei occhi ) e il primo sentimento che lo pervade, un "vago" senso di sofferenza, che crescerà con lo svolgersi della poesia. Il ripetersi del titolo al primo verso inoltre, tende a focalizzare il nucleo tematico dell'intero poema immediatamente. Dal v. 10 a v.16 abbiamo la descrizione di cosa vedono gli occhi "aperti" ed "estranei", e lo scenario è quantomai arido e triste: una galleria di soggetti che investe tutte le classi (preti e meretrici sono palesemente i due opposti che contengono dentro tutti i "mestieri umani") e tutte le età (dai vecchi ai bambini) e che si concretizza nell'espressione "facce volpine stupide beate" per identificare l'uomo o la donna medi. Dunque la terza sequenza (dal v.17 al v.27), che ci mostra cosa realmente veda il poeta, cosa gli sia dato di sapere in virtù del fatto che egli vuole sapere: l'inganno, il tremendo inganno nel quale l'umanità giace; un umanità che tuttavia conosce questo inganno ma non vuole accettarlo, fatto palese, in quanto proprio questo ha lasciato dei visibili segni sui volti di questi individui ("il dolore che mise quella piega sul loro labbro"). Un'umanità che dunque porta una condanna che si è dimenticata di avere: la condanna dell'esistere, e che vive solo grazie alle occupazioni momentanee che la distraggono.
La quarta sequenza conclude la lirica: il poeta ci mostra una seconda volta le sue emozioni, ma ora più dettagliatamente che nei vv.7-10. Due similitudini, nelle quali un'azione o una scena in origine allegra viene accomunata a un'azione o scena densa di angoscia: l'inseguire le farfalle è sopra un precipizio, la compagnia è di persone sorridenti, ma condannate. E quindi l'unico sentimento dell'autore dinanzi a ciò può e deve essere uno solo, il sentimento primordiale che accomuna uomini e animali: la paura, amplificata dal fatto che nell'inganno appena svelato vive una enorme quantità di individui, nella quale forse, dopo questa fugace illuminazione, per continuare a vivere, dovrà ricadere anche lo stesso poeta.
Il linguaggio è lontano dal colloquialismo dei crepuscolari, ed è un classico esempio di poesia novecentesca: è essenziale, quasi diafano, e riflette in toto le sensazioni del poeta, che, parlando in prima persona, è come se stabilisse un dialogo con il lettore. Frequente l'uso degli enjambements, che conferiscono unitarietà all'opera e degli iperbati, mentre la musicalità è data dall'utilizzo di anafore e allitterazioni, usate anche in maniera combinata (vv14-15). Il verso è l'endecasillabo, tipico della tradizione italiana, in rima sciolta. Sbarbaro inizia con questo linguaggio una tradizione letteraria che sarà propria degli autori novecenteschi italiani che vorranno esprimere il cosiddetto "male di vivere": un linguaggio essenziale che mostra con figure semplici ma di sicuro impatto l'estraneità dell'uomo al proprio simile al mondo. Montale descrisse tale linguaggio come "scabro ed essenziale", e questa rimane probabilmente la definizione più efficace; in un periodo in enormi stravolgimenti storici il ruolo del letterato è seriamente compromesso, e la reazione di costui si esplicita in vari modi: alla forma classica, ormai vetusta, della poesia si sostituisce lo smembramento di quest'ultima, fino ad arrivare alle opere dell' "allegria" di Ungaretti, nella quale il linguaggio è ridotto all'estremo, lasciando al lettore ogni possibile interpretazione; alle tematiche classiche si oppongono le "nuove tematiche": il progresso entra nell'area della poesia, e viene recepito nei modi più disparati: accolto come life-style, modo di vivere, dai futuristi, rifiutato da poeti quali Montale e Sbarbaro o dai crepuscolari.
La risposta ai tempi moderni di Sbarbaro o Montale è l'alienazione: si è parlato di "sonnambulismo" per la poesia di Sbarbaro, per definire la condizione del poeta alienato da tutto ciò che lo circonda, che vaga fra gli indifferenti.
Importante notare come la massa del popolo entri nella poesia italiana in un modo che ci potrebbe ricordare le poesie dei Tableaux parisenne di Baudelaire: una massa informe, nella quale il poeta è tragicamente solo, dalla quale è travolto e che pure quando è assente, permea la città, come se avesse lascito dei calchi, che ben presto saranno nuovamente occupati. La folla per i poeti italiani è l'emblema della solitudine, dell'alienazione, di un tetro solipsismo dell'individuo, che è tragicamente solo al mondo. In questa ottica il progresso, le comunicazioni non fanno altro che alimentare la solitudine, poiché il nucleo familiare, che fino ad allora era solido, che recava seco valori antichi e dava sicurezza all'uomo, si inizia a smembrare, i ruoli stessi dell'uomo e della donna mutano, in un rapporto nel quale tutti sanno cosa perdono ma non riescono a comprendere cosa hanno in cambio.
La poesia di Sbarbaro riflette tutti questi mutamenti: i timori dell'uomo ottocentesco, le funeste previsioni baudeleriane paiono dunque essersi rivelate giuste nella loro tragicità: l'uomo di Sbarbaro vaga assente, senza una meta, soprattutto senza un Dio.
Tristemente attuale si rivela ancor oggi la poesia del ligure, in un mondo dominato da ipocriti sentimenti di fratellanza universale, ma nel quale l'uomo è non solo nella totale solitudine, ma in costante lotta per la sopravvivenza, in quegli enormi, affollati deserti, che hanno il nome di "metropoli".
Una frase di uno fra i più grandi filosofi di fine ottocento, Friedrich Nietzsche, si adatterebbe ottimamente alla poetica di Sbarbaro, al segno indelebile che l'osservazione della massa lascia in lui: " A furia di scrutare nell'abisso ora è lui che scruta in te". Questa scoperta di Sbarbaro nuoce purtroppo solo alla sua sensibilità, mentre la massa informe va avanti, stupida, volpina e beata.

 


Silvano Leone: Sono nato il tre Ottobre del millenovecentottantuno in Ascoli Piceno. Sono cose che capitano. Ho compiuto gli studi liceali in Teramo, una città molto sobria, il cui aggettivo più appropriato è "grigio", diplomandomi in corso con ottanta centesimi, quindi ho preso immediatamente la decisone di trasferirmi a Roma per le migliori opportunità lavorative e culturali che la città poteva offrire. Dopo il primo anno passato presso la facoltà di "Scienze della comunicazione" mi sono iscritto alla facoltà di Lettere, con indirizzo lettere moderne. Ho conseguito nel 2004 il diploma di laurea in "Letteratura musica e spettacolo", corso di laurea del dipartimento di Italianistica dell'università "La Sapienza" e quindi, nel Luglio del 2006, la laurea specialistica in "Letteratura", naturale completamento della laurea già acquisita un anno addietro.

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