CENERI

Olivier Adam

"Mi sento vuoto. Ci penso di continuo, a questo vuoto dentro. Mi dico che se potessi sondarmi in profondità, aprirmi la testa e il cuore e guardarci dentro, non vedrei nulla. Niente. Vento, deserto, una distesa di ghiaccio dove non si muove niente".
Il tizio parlava e sentire il suo sfogo mi innervosiva, ho cambiato stazione. Guidavo da un'ora e il caffè era diventato freddo. Guidavo nella notte, ero stanco morto, mi si chiudevano gli occhi, prendevo strade a caso, strade deserte e procedevo a passo d'uomo. Il rumore delle ruote sulla neve, il sibilo del riscaldamento, la radio in sottofondo mi martellavano il cervello. Non pensavo a niente, giravo a vuoto, avvolto dalla notte ovattata. Lo stridio dei tergicristalli mi teneva sveglio, la brina che si formava qua e là offuscava le luci. Non avevo motivo di fermarmi. Nessun cliente. Nessuna chiamata dalla centrale. La gente se ne stava chiusa in casa e faceva bene. A un certo punto ho costeggiato una chiesa ed era bella la facciata con il cristo e gli alberi intorno. Mi sono fermato per due minuti in contemplazione.
Poi ho ripreso a girare inutilmente per le strade tranquillee deserte, guardavo i palazzi con le luci spente che si susseguivano lenti. L'intonaco era screpolato e dietro le finestre s'intravedevano televisori accesi, uomini stanchi che fumavano in camera da letto, vecchie insonni che scostavano le tendine e bevevano la loro tisana. Ho ripensato al tizio della radio, alla sua voce calma e posata, alle sue parole: mi sento vuoto. In fondo, forse gli assomigliavo. Forse io e lui eravamo uguali.

A mano a mano che mi allontanavo dal centro tutto si degradava e intorno a me vedevo solo magazzini, casermoni popolari, terreni incolti e bar aperti di notte. Più avanti c'era casa mia e Claire leggeva sdraiata sul divano del salotto, oppure fissava il soffitto e non pensava a niente. I bambini dormivano uno sopra l'altro nella loro piccolissima camera. Avevano coperto le pareti di disegni, non li sgridavo più per queste cose. Ho pensato che era da molto tempo che non gli passavo le dita sulla fronte mentre dormivano.

Ero quasi all'uscita della città e la radio si è messa a gracchiare. Una donna chiedeva che qualcuno la andasse a prendere, aveva un accento marcato, cinese o coreano. Ho sentito chiaramente la voce che diceva ok, ma ho fatto finta di niente. Nella piazza i chioschi dei fiorai erano chiusi, e gli abeti erano impacchettati nelle ghirlande. Ho fatto il giro e un po' più giù lungo il viale l'ho vista, era là davanti all'albergo, un albergo squallido dove i clienti portavano le puttane del boulevard. Mi ha fatto un cenno, ho guardato nello specchietto retrovisore, non c'era nessuno e ho rallentato. Era molto pallida. I capelli neri mossi dal vento le coprivano
il viso, si irrigidivano in piccole ciocche di ghiaccio. Nascondeva il mento in una sciarpa di lana e teneva qualcosa tra le mani. Si è chinata, ha aperto lo sportello posteriore e l'aria gelida ha invaso l'abitacolo. Ho alzato il riscaldamento. Emetteva un leggero ronzio che copriva la radio e il rumore del motore. Lei ha detto qualcosa che non ho sentito. Ho abbassato la musica.
"Pont du 11-Novembre, per favore".
Per tutto il tragitto non ha aperto bocca. Dal retrovisore la vedevo asciugare i finestrini appannati, guardare fuori. Aveva un occhio leggermente più piccolo dell'altro. Le ho domandato da che paese veniva, ha risposto che i suoi genitori erano di Kyoto e ha chiuso gli occhi. Teneva le braccia incrociate sul petto. Accanto a sé aveva posato un pacchetto avvolto in carta di giornale.

Sul ponte tirava un forte vento, un uomo camminava a fatica tenendo l'ombrello con tutte e due le mani. Lungo il fiume le macchine marciavano al rallentatore. Sulle due sponde c'erano palazzi moderni e già vecchi, vetro misto a cemento sporco. Le insegne erano accese anche di notte. Vicino all'isola mi ha chiesto di parcheggiare e di aspettarla. Nella luce dei fari l'ho guardata dirigersi verso la statua, raggiungere la scalinata e sparire. Mi sono acceso una sigaretta. Non pensavo a nulla, immerso nel mormorio del riscaldamento e della radio, nello stridio lieve dei tergicristalli. Da dov'ero riuscivo a vedere il fiume denso e oleoso. Ho reclinato il sedile. Faceva caldo, sentivo la musica e il rumore delle macchine sulla neve, le ruote nella poltiglia grigia.
Quando ho riaperto gli occhi erano le quattro passate e lei non era tornata. Aveva ripreso a nevicare ancora più forte, il ponte spazzato dal vento era quasi bianco. In giro non c'era più nessuno, come se la città fosse stata abbandonata. Il freddo mi ha aggredito, pungeva da far male, la neve mi bruciava le labbra e gli occhi. Ho sceso la scalinata tenendomi alla ringhiera. Il giardinetto era chiuso. Ho scavalcato il cancello e mi sono strappato i pantaloni. C'erano delle lastre di ghiaccio e ho rischiato più volte di cadere. Un uomo dormiva su una panchina imbacuccato in tre o quattro coperte. L'ho scrollato e lui ha brontolato. Gli ho domandato se aveva visto una ragazza asiatica. Mi ha dato dello stronzo e mi ha detto che non aveva visto niente perché dormiva e poi mi ha mandato a fare in culo. Il suo cane si è messo ad annusarmi le palle, l'ho colpito sul muso e lui ha guaito. Ho pensato che probabilmente la donna se ne era andata da un pezzo. Che forse era risalita mentre dormivo. Il freddo mi penetrava nella giacca e nella camicia, non riuscivo a smettere di battere i denti. Mi sono acceso una sigaretta, ci ho messo un po' per via del vento e mi sono bruciato con l'accendino. Un fiocco di neve è caduto sulla fiamma con un leggero crepitio. Merda. Che cosa ci facevo a quell'ora sotto un ponte a correre dietro a quella ragazza? Che cosa me ne fregava? Era proprio nel mio stile perdere tempo con stronzate del genere. Non mi aveva neppure pagato la corsa. Ho pensato al tassametro che girava, ai soldi che andavano in fumo.
Mi sono voltato un'ultima volta e l'ho vista. Era là, sul margine del lungofiume, sopra l'acqua piena di gorghi, era là con lo sguardo assente, la bocca socchiusa, si dondolava avanti e indietro sul bordo, nei suoi abiti troppo grandi e portati male, si dondolava biascicava aveva l'aria di una pazza. Mi sono avvicinato. Piangeva e teneva tra le mani la scatola aperta. Fissava l'acqua dondolandosi, tremava, lo sguardo vuoto, quegli occhi disuguali e i capelli tagliati male. Ho detto solo: signora, è sicura di star bene? E lei sembrava che non sentisse, è rimasta ferma, immobile davanti all'acqua che scorreva. Il coperchio della scatola penzolava nel vuoto e dentro c'era un fondo di cenere grigia.

Le ho toccato la spalla. ha sussultato e si è messa a urlare. Eravamo faccia a faccia e lei strillava, l'ho stretta tra le braccia e si è dibattuta, ho stretto più forte, le ho urlato di calmarsi e a un tratto ha smesso di muoversi e il suo corpo è diventato molle e i suoi occhi completamente vuoti. Ha aperto un po' la bocca ma non è uscito alcun suono. Quando la scatola è caduta a terra ha fatto un rumore sordo e le sue mani vuote hanno continuato a tremare. Mi sono chinato a raccoglierla. Era una scatola nera di legno laccato. Sopra c'erano due ideogrammi e un fiore disegnato. L'ho richiusa. Avevo un po' di cenere sulle dita.
"Dobbiamo tornare in macchina. Così prende freddo".
L'ho presa per un braccio e lei mi ha seguito. Adesso era calma. Abbiamo fatto la scalinata come due vecchi, fermandoci a ogni gradino.
Ho pensato a mio padre, verso la fine non riusciva neppure più a camminare. Dopo la cremazione avevo tenuto le sue ceneri in casa per alcuni mesi. Le avevo nascoste nella credenza del salotto, dietro una pila di strofinacci. Claire non voleva più aprirla e tutte le volte che il mio sguardo finiva su quel maledetto mobile pensavo alla piccola urna argentata. Non sapevo che cosa fare, non mi sembrava normale tenerla in casa, vivere con le ceneri del proprio padre in fondo a una credenza. Certe notti avevo gli incubi. Un giorno. rovistando dappertutto in cerca dei regali di Natale, i bambini l'hanno trovata. Che cos'è?, hanno domandato. I1 nonno, ho risposto, E sono scoppiato in lacrime davanti a loro, era la prima volta che mi vedevano piangere e mi sono vergognato. Quel giorno ho scavato una buca in fondo al giardino, sotto il nocciolo. Ho sotterrato l'urna, avvolta in un cencio rosso, e sopra ci ho messo una grossa pietra per essere sicuro di non dimenticare il punto esatto. È strano, ma dall'oggi al domani il cane si è messo a pisciare lì, sistematicamente.

Ho parcheggiato davanti all'hotel. Lei non si muoveva, come se non avesse capito che eravamo arrivati. Che poteva uscire e ritornare in camera. Le ho aperto lo sportello. Mi ha guardato con aria assente e si è alzata. Ho preso il suo cappotto e la scatola. Quando ci ha visti, il portiere ha fatto uno strano sorriso d'intesa.
"L'accompagno in camera", ho detto.
Ha scrollato la testa ed è tornato al bancone, si è girato a guardare il televisore pensile.
La scala era stretta e puzzava. La carta da parati era strappata, grandi brandelli penzolavano fino a terra. La camera dava sulla strada. Sul comodino c'era una bottiglia di vodka mezza vuota. Ho preso due bicchieri dal bagno. La mensola era coperta di creme e medicinali. Ho guardato le scatole. sonniferi, ansiolitici. antidepressivi.
Abbiamo bevuto senza guardarci, lei seduta sul lettuccio stretto. io sulla poltrona accanto alla finestra. I nostri piedi quasi si toccavano.

"Mi scusi".
È sparita in bagno. Ho sentito che spostava tubetti e flaconi. In televisione c'era una partita di tennis ma non conoscevo nessuno dei due giocatori. Erano secoli che non guardavo quelle stronzate. Ho seguito gli scambi per qualche secondo e poi tutto ha iniziato a sfocarsi e ho sentito che mi stavo allontanando. Sono rimasto sospeso nel vuoto.
Quando è tornata indossava una lunga camicia di cotone che aderiva al suo corpo bianco. Gli occhi erano struccati, le guance lavate. È scivolata sotto le lenzuola e ho spento il televisore. Non ho chiuso le tende. Sono rimasto seduto sulla poltrona accanto alla finestra. Aveva smesso di nevicare. Si vedeva addirittura la luna. Ogni tanto passava una macchina. Tre puttane litigavano sotto un lampione.

Sono arrivato a casa, con Bill Evans e il giorno che spuntava. Il vicino cercava di mettere le catene alle ruote. Avrei potuto dirgli che non era necessario, che la strada era pulita, ma davvero non me ne fregava niente, facesse quel che gli pareva. I bambini erano svegli, in pigiama davanti ai cartoni animati. Era mercoledì. Mi sono detto che sarebbe stato bello portarli da qualche parte, per una volta.

 



(Racconto tratto da Passare l'inverno, Minimum Fax, Roma, 2006.Traduzione da Elisa Artuffo, Lilia Barmina, Teresa Benincasa, Ester Borgese, Alessandra Bussolino, Monica Cirtoli, Dario Gianozzi, Sara Merlino e Alessandra Molino.)

Olivier Adam è nato nella banlieue parigina nel 1974. Oltre a Passare l'inverno, che ha vinto la Bourse Goncourt de la Nouvelle nel 2004, ha al suo attivo altri sette romanzi.

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