GIORDANO BRUNO E LA MODERNITÀ

Hilary Gatti

La relazione inizia con la constatazione della difficoltà di definire il significato della parola "modernità" rispetto alla figura e all'opera di Giordano Bruno. Si prende in prima istanza l'idea di periodo storico "moderno e contemporaneo" per collocare Bruno all'interno della cultura rinascimentale italiana, senza tuttavia dimenticare che per lui la figura che aveva dato inizio alla rivoluzione culturale che portava nel mondo moderno era Copernico che, nel 1543, aveva proposto una teoria cosmologica eliocentrica nel suo De revolutionibus.
Senza voler entrare nei dettagli tecnici della cosmologia infinita che Bruno costruisce sulla base dell'eliocentrismo copernicano, la relazione indica alcune importanti conseguenze della nuova omogeneità della sostanza che unisce ogni parte dell'universo infinito bruniano, per poi sollevare il problema (discusso nel nostro periodo dallo storico Thomas Kuhn) delle molteplici ramificazioni delle rivoluzioni cosmologiche, che coinvolgono aree di riflessione apparentemente lontane dalla cosmologia stessa. In particolare la relazione si sofferma sul pensiero di Bruno sui molteplici linguaggi, anche simbolici, che dovevano essere ripensati per esprimere il senso di un nuovo universo infinito. Si arriva così a prendere in considerazione l'arte della memoria di Bruno e i suoi nessi da una parte con sistemi linguistici antichi, profondamente radicati nella psiche europea, ma dall'altra parte con meccanismi logici nuovi che cambieranno i contorni della tradizionale geografia della mente.
La relazione si sofferma poi su una concezione della modernità che si allaccia alla nuova fisica post-einsteiniana, e sviluppa alcune riflessioni su un nuovo modo di leggere alcuni testi di Bruno alla luce di una scienza non più classica e tutta razionale ma di nuovo pervasa da elementi di relativismo concettuale, di scetticismo e di incertezza gnoseologica. E' in questo contesto che viene sollevata la delicata e discussa questione dell'interesse di Bruno per la magia.
Si conclude con alcune brevi riflessioni sulla vita e sulla morte del filosofo nolano che sottolineano soprattutto la sua lunga ed ostinata, seppure infine fallimentare, ricerca di un'istituzione accademica europea fondata sulla libera circolazione del pensiero e delle idee.

 

Giordano Bruno e la modernità
In un celebre saggio su John Stuart Mill, pubblicato nel suo ormai classico volume intitolato "Four Essays on Liberty", Sir Isaiah Berlin, parlando del saggio di Mill sulla libertà, individua come uno dei problemi di maggiore rilievo il fatto che la parola "libertà" vanti più di duecento diverse accezioni codificate. Mi pare che lo stesso problema venga sollevato dal titolo del mio intervento; ossia: come vogliamo definire "la modernità", soprattutto quando consideriamo questa parola in relazione alla figura e all'opera di Giordano Bruno?
Possiamo prendere come una prima accezione della parola quella, che si può forse definire "istituzionale", usata nelle scuole per definire il periodo "moderno e contemporaneo"; ma allora dobbiamo subito constatare che l'inizio di tale periodo rimane assai discutibile.
Mi pare che in Italia viga la consuetudine di fare partire il mondo "moderno e contemporaneo" dall'umanesimo, con l'opera di Petrarca; e questo é del tutto soddisfacente, in quanto l'indiscutibile dominio italiano di tutto l'arco della cultura rinascimentale ci permette di trovare proprio in Italia l'origine della modernità.
Un francese, però, potrebbe obbiettare che una vera modernità comincia soltanto con il pieno dominio della ragione nel '600; e in quel modo risulterebbe all'origine della modernità proprio la cultura francese.
Nell'Europa del nord, invece, si mette l'enfasi sulla nascita della riforma protestante, con il seguente sviluppo di un discorso di pluralismo religioso, in cui si individua la vera radice di una
cultura moderna e democratica.
Così, ancora una volta, ci tocca spostarci sulla carta geografica.
Qui non stiamo parlando di nazionalismi bensì di Giordano Bruno, per molti versi (anche se più per necessità che per scelta), un uomo senza nazione, e perciò pienamente europeo. Del resto è Bruno stesso ad indicarci con molta chiarezza dove inizia per lui la nuova era in cui tutto cambia, a cominciare dalla struttura stessa dell'universo: e cioè, dal momento della pubblicazione del "De revolutionibus" di Copernico, nel 1543. Per lui è Copernico, quell'ingegno "grave, elaborato, sollecito e maturo", come lo definisce nel primo dialogo della "Cena de le ceneri", che ha saputo "liberare sé et altri da tante vane inquisizioni, e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe".
Non è questo il luogo per entrare nei dettagli tecnici della cosmologia infinita che Bruno costruisce sulla base del nuovo eliocentrismo copernicano. Rispetto al tema della modernità che ho proposto per questo intervento, vorrei fare comunque un'osservazione; e cioè: se sono state continuamente sottolineate dai commentatori le dimensioni infinite che Bruno conferisce, sia in termini spaziali sia in termini temporali, ad un universo senza frontiere, meno attenzione è stata prestata al carattere omogeneo del nuovo infinito bruniano, in cui pullula una vita fatta di movimenti infiniti. E' infatti questa omogeneità della sostanza che differenzia "l'infinito" bruniano da quello ermetico che si stava diffondendo nello stesso periodo, in figure come Palingenio, Thomas Digges o Francesco Patrizi: un "infinito", il loro, in cui troviamo sempre due dimensioni dell'essere, espresse in genere come due tipi di luce, uno impuro, mescolato alla materia greve che caratterizza il nostro mondo o sistema stellare, e uno puro e cristallino, di aristotelica memoria, che, estendendosi verso l'infinito, appunto, porta verso la perfetta spiritualità divina.
Ora, dal momento in cui Bruno abbatte questo dualismo e propone un universo infinito ma perfettamente omogeneo, in cui il gioco tra materia e spirito, o luce, diventa tutto interno, e investe ogni parte dell'infinito universale, mentre gli angeli si identificano con gli infiniti mondi che girano intorno ai loro soli, si ha un universo di tutt'altro tipo, soggetto a leggi naturali universali. Ossia, si ha un universo in cui una legge come quella newtoniana della gravità, espressa in una formula concepita come universalmente valida, è già una possibilità teorica. E questo suggerisce anche la possibilità di viaggi spaziali senza limiti; perché omogenea è la sostanza che permea il tutto infinito.
Perciò non si tratta di un semplice balzo dello spirito, o di una gnosi universale, come aveva sostenuto Frances Yates, quando Bruno rivendica la rottura delle barriere che avevano rinchiuso il vecchio universo tolemaico; si tratta, bensì, di un salto dell'immaginazione creativa che anticipa già la possibilità di viaggi reali nello spazio. Non per nulla Bruno li confronta ad altri viaggi eroici, come quello degli Argonauti o la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo. Ora però non si viaggia più per i mari del nostro mondo, ormai quasi tutti scoperti e noti, bensì si viaggia per i cieli ancora vergini alla ricerca dell'ignoto: "Or, ecco quello ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo". E' un errore, a mio parere, considerare emblematico, metaforico, segreto o ermetico questo celebre passo de "La Cena de le ceneri". L'omogeneità della sostanza che riempie l'universo infinito di Bruno, che poi col tempo si rivelerà di carattere atomistico, ci impone di interpretare quel trapasso dei margini del mondo come un viaggio vero, tra spazi ormai illimitati che, nel pensiero del filosofo, un giorno sicuramente avverrà.
Quando Bruno parte dal "De revolutionibus", dà a quella parola un significato estremamente ampio, che va ben oltre il campo specifico della cosmologia per avvicinarsi al senso di un rovesciamento totale di paradigma mentale, molto vicino a come lo intende un pensatore moderno come Thomas Kuhn. Questi, quando parla di rivoluzione scientifica, difatti, riconosce che una rivoluzione in campo cosmologico, per esempio, porta inevitabilmente con sé un rovesciamento di tutti i presupposti su cui si era appoggiato il paradigma cosmologico precedente, sollecitando un ripensamento delle idee chiavi della cultura che si era sviluppata intorno a quel paradigma.
Già Bruno, comunque, posto davanti al trauma concettuale causato nel Cinquecento dalla rivoluzione copernicana, aveva capito che sarebbero state coinvolte aree di riflessione
apparentemente lontane dalla cosmologia in senso stretto, quali la teologia, 1'epistemologia, i valori morali, le regole poetiche ed artistiche, nonché gli stessi parametri linguistici, che ora dovevano essere ripensati a fondo. E' una intuizione da parte di Bruno che ci stimola a chiederci se troviamo anche nel suo pensiero, come si troverà poi in quello di Kuhn (almeno nella sua prima fase), l'idea di una netta incommensurabilità tra paradigmi fisico-cosmologici diversi.
L'argomento viene affrontato esplicitamente da Bruno, sempre ne "La Cena de le ceneri", nel momento in cui il vivace personaggio Frulla, che rappresenta nel dialogo una forma di intelligenza acuta ma poco colta, comincia a fremere di rabbia davanti ai tradizionalisti che non vogliono neanche prendere seriamente in considerazione la nuova e sconvolgente astronomia copernicana: un problema che continuerà più tardi ad assalire Galileo. La soluzione proposta da Frulla prevede un'arte del trapianto avanzata alla quale non siamo ancora arrivati neanche oggi. Perché Frulla vuole sostituire le teste dei vecchi neo-aristotelici con teste nuove, in grado di pensare secondo i nuovi paradigmi mentali che la rivoluzione copernicana stava sollecitando. Dunque, per Frulla, tra i proponenti della nuova filosofia postcopernicana e coloro che rimanevano mentalmente all'interno di un universo ancora tolemaico non c'era possibilità di incontro o di dialogo. I due mondi erano da considerarsi, appunto, incommensurabili.
Questo comunque si rivela come un ordine di idee diverso dal pensiero di Bruno stesso. Intervenendo nel dialogo nella persona del suo portavoce Teofilo, egli sostiene al contrario la necessità di avviare un lento processo di riflessione che abitui la gente gradualmente a comprendere tutte le molteplici implicazioni della recente rivoluzione in campo cosmologico. Si tratta di un dissidio all'interno del dialogo che è soltanto apparentemente scherzoso se non addirittura frivolo. Anzi, la correzione del bizzarro pensiero di Frulla da parte di Teofilo è in realtà profondamente significativa e continuerà a risuonare nelle opere più tarde di Bruno. Perché egli, da poeta ed artista qual'era, oltre che filosofo, capiva che i parametri linguistici tradizionali, e le immagini e i simboli che accompagnano la vita quotidiana di una comunità, hanno radici profonde ed evolvono molto più lentamente del pensiero scientifico. Anzi, spesso sopravvivono al trauma di una rivoluzione cosmologica creando una tensione non facilmente risolvibile tra un nuovo quadro fisico e una vecchia terminologia, fra concetto e immagine, fra parola e pensiero.
Insisto su questo punto, perché credo che ci aiuti a spiegare il ruolo e l'importanza nell'opera di Bruno, dell'arte della memoria, che spesso si intreccia nella sua opera con temi retorici e riflessioni linguistiche. In molte opere bruniane, infatti, troviamo un riferimento a serie di immagini e ad alfabeti o combinazioni di lettere e altri segni di varia natura, presi indifferentemente da lingue antiche e moderne, che Bruno comunque sapeva essere profondamente radicate nella psiche europea.
La strategia che egli segue non è quella di cercare una totale novità sul piano della parola o dell'immagine, ma piuttosto di sfruttare immagini, parole o alfabeti tradizionali, captando così le risonanze che essi suscitavano nei lettori del periodo. Possiamo pensare, come esempio, all'uso delle tradizionali immagini astrologiche in opere come il "De umbris idearum" del 1582 o il "De imaginum, signorum, et idearum compositione" del 1591; un uso che ha molto stupito alcuni commentatori in quanto la nuova cosmologia infinita doveva svuotare di significato i vecchi schemi astrologici.
Ecco allora farsi avanti l'idea di un Bruno tutt'altro che moderno, ma anzi ancora strettamente legato a scienze e tradizioni di pensiero propri di un passato lontano. Si tratta invece di un fraintendimento del suo scopo principale! Perché Bruno slega nettamente le combinazioni di lettere, immagini e segni inclusi nei suoi schemi mnemonici dai loro tradizionali contesti, sviluppandoli in articolazioni logiche nuove ed ardite. Così arriva ad una sorta di algebra dell'immagine o della parola che permette di costruire codici linguistici autonomi; ed ecco che l'arte della memoria partecipa all'invenzione perseguendo l'idea di un linguaggio universale. Senza smettere di guardare indietro, fino alle radici della cultura europea, l'arte della memoria di Bruno guarda avanti, molto avanti. Anzi, così avanti che si vedono sullo sfondo le sagome di una macchina logica capace di tracciare i contorni di una nuova geografia della mente.
A questo punto, però, si può sostenere che l'idea di una modernità che apre le porte al mondo contemporaneo partendo dalla rivoluzione copernicana è stata superata per dare luogo all'idea di una modernità i cui inizi si situano alla fine dell'800 e l'inizio del '900: ossia in concomitanza con la disintegrazione interna del paradigma scientifico classico che aveva dominato da Copernico a Galileo, e da Newton in poi. Entriamo nel contesto della relatività einsteiniana nel campo fisico-cosmologico e della crisi di scetticismo logico ispirata da Gòdel e da Turing.
Negli ultimi anni dell'900, infatti, alcuni aspetti e temi dell'opera bruniana vengono considerati nel contesto di questa più avanzata idea di modernismo, o addirittura del cosiddetto post-moderno. E non sono temi di poco conto! Si è cominciato con gli elementi estremamente arditi di alcune riflessioni bruniane sulla relatività dei rapporti relazionali che si articolano all'interno del suo universo infinito, cosìcche per alcuni aspetti è possibile considerare la sua cosmologia non soltanto come postcopernicana ma anche come pre-einsteiniana, come ha proposto Ramon G. Mendoza nel suo libro "The Acentric Labyrinth: Giordano Bruno's Prelude to Contemporary Cosmology" pubblicato nel 1995.
In un primo momento la tesi viene ignorata come del tutto anacronistica, e di dubbia consistenza sotto il profilo di un metodo storico odierno che non vuole più dare spazio al gioco delle "anticipazioni" che ha tanto dilettato la storiografia del '800. Poi negli anni seguenti, emergono altri temi a conforto del discorso cosmologico di Mendoza.
In un articolo pubblicato nel 1999, il giovane studioso olandese, Leen Spruit, mette alcuni momenti del pensiero di Bruno in rapporto con la "Teoria dei Tre Mondi" di Roger Penrose. E se posso permettermi di fare riferimento anche al mio lavoro più recente, ho voluto sottolineare, nel mio libro su Giordano Bruno e la scienza del rinascimento, pubblicato da Cornell University Press nel 1999 e da Cortina in traduzione italiana all'inizio del 2002, la complessità del pensiero di Bruno nel campo epistemologico, dove per alcuni versi mi sembra già affrontare temi e crisi che diventeranno centrali soltanto nel corso del '900.
E non è da considerarsi estranea a questo discorso la messa in scena de "Il Candelaio" di Bruno da parte di Luca Ronconi, che è stata presentata al Piccolo Teatro di Milano nel corso del 2002. Perché Ronconi riesce finalmente a rendere più che credibile questo problematico, e poco rappresentato, testo drammatico di Bruno utilizzando, con una notevole intelligenza scenica ed interpretativa che vuole evitare qualsiasi banale attualizzazione, parametri teatrali propri del '900 come, per esempio, quelli del cosiddetto teatro dell'assurdo.
La prossima tappa di questa lettura di testi bruniani alla luce di una radicale modernità si è appena verificata con la pubblicazione nella rivista Physis di un mio intervento sugli elementi in Bruno che indicano la possibilità di geometrie non-euclidee: una possibilità interpretativa, questa, già anticipata da Imre Toth nel suo volume "No! Libertà e verità, creazione e negazione", pubblicato da Rusconi nel 1998.
E' importante sottolineare che qui non si sta facendo una generica o ingenua proposta di anticipazioni storiche, come molti hanno sostenuto. Piuttosto si sta postulando una tesi precisa che vuole vedere nell'opera di Bruno l'articolazione, seppure ancora a volte incerta e embrionale, di un paradigma sia cosmologico sia epistemologico che, per alcuni versi, acquista chiarezza e coerenza proprio con il superamento della fisica e della matematica classica alla fine dell'Ottocento.
Un altro esempio. Nel suo capolavoro cosmologico, il "De immenso…" pubblicato nel 1591, Bruno, dopo un discorso dedicato alla spiegazione e alla lode della nuova astronomia copernicana, propone, con tanto di illustrazione dettagliata, un modello di un sistema eliocentrico, in cui la terra, accompagnata dalla luna sul suo epiciclo, circola sulla stessa orbita di fronte a Mercurio, accompagnato da Venere sul suo epiciclo: un sistema basato su un'idea di armonia e di simmetria planetaria che viene giudicato da Robert Westman come decisamente strano, perché è evidente che non rispetta le diverse orbite e tempi di rivoluzione di questi pianeti.
Una lunga tradizione interpretativa, che parte dall'astronomo Schiaparelli nell'800, e include nel '900 nomi illustri come quello di Leonardo Olschki e di Frances Yates, risolve il problema negando a Bruno un qualsiasi minimo senso di metodo logico, e trovando il suo valore eventualmente negli impeti poetici o mistici di uno spirito certamente non razionale o "scientifico". Ma questa spiegazione, che aveva già lasciato perplesso un commentatore di grande valore quale Felice Tocco, non sembra facilmente conciliabile con una lettura del libro di Copernico piuttosto completa e dettagliata, e decisamente all'avanguardia per gli anni '80 del '500: Robert Westman infatti include Bruno in un elenco dei pochissimi pensatori del Cinquecento che hanno caldeggiato una lettura realista della nuova cosmologia. Allora, che significato può avere questo esempio evidentemente irrealistico di modello planetario?
Ho cercato di mettere in rilievo nel mio libro il modo in cui la lettura estremamente entusiastica di Copernico da parte di Bruno si accompagni fin dall'inizio ad un discorso di marcato scetticismo gnoseologico, non soltanto in generale sulla possibilità di misurare con esattezza assoluta il movimento dei corpi, ma in particolare nei confronti di alcuni espedienti concettuali ancora presenti nell'astronomia copernicana, come gli epicicli o gli eccentrici.
Seppure Bruno non si discosti mai dalla sua convinzione che la cosmologia copernicana rifletta meglio di quella tolemaica la realtà della struttura dell'universo, altrettanto profonda è la sua paura che essa non offra un quadro certo o completo della forma del mondo. Da questa preoccupazione nasce la sfiducia nella matematica classica, su cui, al parere di Bruno, lo stesso Copernico aveva fatto troppo affidamento. Perchè per Bruno la matematica ispirata agli antichi, e in particolare ad Euclide, offriva sì uno strumento di calcolo prezioso, ma forse non rappresentava l'unica matematica possibile, nè una ricetta completa per distinguere il vero dal falso.
Del resto, il pensiero di Bruno si sviluppa nel contesto di un'idea di infinito universale basato su un triplice minimo: aritmetico, geometrico e fisico. Ed è proprio nell'allargamento di questo universo atomistico alle dimensioni di una sfera infinita che egli può postulare un numero infinito di "modelli" astronomici, e anche (se pensiamo ad un'opera come il "De triplici minimo" del 1591) di "modelli" atomistici che già segnano l'inizio di un discorso propriamente molecolare. Sono "mondi possibili", come diremmo oggi. Perché per Bruno il nostro mondo non è che un minuscolo frammento di un tutto sconosciuto in cui ogni modello di combinazione atomistica virtuale che possiede una sua coerenza interna rientra nella sfera del possibile.
E con ciò abbiamo raggiunto un contesto di pensiero non soltanto "moderno" ma forse anche già "post-moderno" nella sua tendenza a recidere il filo che avrebbe dovuto collegare gli avvenimenti lungo una sequenza già orientata. Così molte idee di Bruno che sembravano strambe o senza fondamento acquistano invece una loro ragione e coerenza. Nè si tratta ovviamente di sradicarlo dal suo tempo storico o di dimenticare che era tutt'altro che un nostro contemporaneo. Piuttosto si tratta di costatare che, utilizzando certi concetti che vengono articolati soltanto dopo la straordinaria rivoluzione nella fisica e nella matematica delle prime decadi del '900, si profila la possibilità di aprire un nuovo capitolo di lettura dell'opera bruniana che rivaluti alcuni aspetti ancora incompresi del suo pensiero.
Ritengo che sia in questo contesto che si profili la possibilità di sviluppare una nuova lettura di uno degli aspetti ancora oggi più discussi della filosofia bruniana, ossia la sua dottrina della magia. Nonostante il copernicanesimo e l'atomismo, l'universo infinito di Bruno non assume mai un carattere pienamente meccanicistico, ma si fonda sull'idea di un'anima o di uno spirito universale che si annida nelle minime particelle della materia, riempendo e conferendo unità al tutto infinito.
E' evidente che questo animismo in campo ontologico dà luogo ad una dimensione dell'essere che in campo epistemologico tende a sfuggire ad un'indagine puramente logica o razionale, inducendo Bruno a chiamare in causa dottrine tradizionali di magia che hanno dato luogo ad una lunga e ancora attivissima caccia alle fonti, necessaria per chiarire i termini del riferimento filosofico di Bruno alla magia; ma se l'individuazione delle fonti risulta certamente un aspetto importante di un moderno gioco ermeneutico, non può ovviamente considerarsi sufficiente davanti ad un tema così vasto e complesso come quello della magia nell'opera di Bruno.
Anche perché tende inevitabilmente a schiacciare il pensiero di Bruno su un aspetto magico che in realtà è solo a momenti dominante nella sua opera. Si tratta di un aspetto del suo pensiero estremamente complesso e variegato, se è possibile - come a me sembra - individuare momenti in cui la magia diventa un vero e proprio scacco per il filosofo furioso, mentre in altri momenti troviamo ricuperi sorprendenti ed aperture inattese, anche se spesso ambigue.
Quello che tuttavia mi sembra ormai stabilito è che la dottrina della magia in Bruno, che indubbiamente esiste, non può più essere utilizzata, come è successo tante volte dalla pubblicazione del libro di Frances Yates in poi, per escludere, o rendere subordinato, nell'opera di Bruno quello sviluppo di nuove dottrine cosmologiche ed ontologiche che tante volte egli prende come i temi fondamentali delle sue opere. Semmai magia e nuova scienza andrebbero indagati insiemi dagli studiosi. E proprio in questo tentativo può risultare utile guardare avanti e non sempre indietro, per cercare di capire fino a che punto possono essere utili nella lettura della dottrina magica di Bruno concetti articolati all'interno della meccanica dei quanti, per esempio, come il principio di incertezza, o il ricorso a calcoli di probabilità: ossia a quegli elementi moderni di scetticismo, di nuovo presenti nell'indagine sul mondo naturale che mettono in forse la possibilità di arrivare a delle certezze naturali assolute.
Infine, non è possibile chiudere questo intervento su Bruno e la modernità senza fare un pur breve riferimento agli elementi della sua vita che lo avvicinano a noi oggi.
Nel mio primo libro su Bruno del 1989, che si occupava soprattutto dei suoi rapporti con la cultura inglese, ho sottolineato un aspetto che mi sembra ancora sottovalutato della biografia bruniana, e cioè la sua infaticabile e a volte disperata ricerca, nelle maggiori città europee, di un'accademia culturale secolare, senza frontiere geografiche o intellettuali, e basata sul libero pensiero. Bruno la chiama la sua "Accademia Pitagorica", riportando il concetto accademico alle sue più lontane radici filosofiche. Ma il suo sogno educativo, che Bruno delinea nelle pagine finali del dialogo intitolato "La cabala del cavallo pegaseo" scritto e pubblicato a Londra nel 1584, guarda anche molto avanti: così avanti che non poteva che restare un sogno all'interno di un'Europa ancora dilaniata da guerre di religione e tenuta nel morso dell'arroganza dei principi del periodo. C'è da chiedersi poi se ancora oggi riusciamo a svolgere una vita accademica che risponda pienamente ai criteri insieme generosi e rigorosi proposti da Bruno ormai più di quattrocento anni fa.
Del processo e del rogo in Campo dei Fiori, di cui tanto si è già parlato in questi anni intorno al quattrocentesimo anniversario, dirò soltanto che mettono in atto, con logica e ferrea coerenza, la distruzione violenta del sogno della "Accademia" ideale di Bruno, basata sulla libera circolazione delle idee.
È il momento del sogno infranto.
Un lungo momento durato otto anni, che ricordiamo oggi perché alla fine Bruno, quel sogno, non l'ha voluto rinnegare.

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