AL DI LÀ DELLA PAROLA:
AFFABULAZIONE E LINGUAGGIO NELLA NARRATIVA MIGRANTE

 

Gabriella Romani
(SETON HALL UNIVERSITY, NEW JERSEY, USA)

 

Il titolo, «Al di là della parola», prende spunto da un saggio apparso sulla rivista on-line «Kumà», scritto da Jarmila Ockayová. in cui l'autrice, di origine slovacca. parla del rapporto tra narrativa migrante e quello che lei definisce il sommerso, quello spazio cioè indefinibile, imprevedibile, ma essenziale della scrittura che si presenta come terra di confine tra due o più culture o lingue di appartenenza. Questo spazio viene descritto non solo nella sua dimensione astratta e referenziale in quanto fonte ispiratrice della scrittura ma anche come vera e propria pratica di scrittura, come fucina quotidiana dell'esperienza letteraria. La scrittura migrante, dice la Ockayová, prova che «questa nuova Babele di linguaggi e di messaggi e di costruzioni espressive può miracolosamente interrompere il vecchio rumore esistenziale, assordante, e farci ascoltare il ticchettio delle nostre anime»1.

Partendo da questo spunto vorrei pertanto proporre alcune riflessioni sul ruolo che oggi la scrittura migrante svolge all'interno della narrativa italiana contemporanea e suggerire una lettura di questa scrittura, ancora oggi relegata al margine del discorso letterario nazionale, al di fuori di prospettive gerarchiche o dicotomiche costruite sull'asse "centro/margine" - espressione spesso di dinamiche che prescindono dal valore intrinseco dell'opera - per approdare ad una diversa comprensione del concetto stesso di margine, il quale, come dimostrano diversi studi teorici e come ha sottolineato Mario Moroni durante questo convegno, può assumere l'accezione positiva di transito, di rimarginazione (dal margine al centro) e quindi di spazio antropologico di trasformazione culturale2. In questa fase storica di grandi cambiamenti nella configurazione etnica, razziale. culturale, e religiosa della nostra società, viene da chiedersi in che modo la letteratura si faccia portavoce di questa svolta epocale e, nel caso specifico della scrittura migrante, in che modo i testi scritti in italiano da autori non di origine italiana possano incidere innovativamente sul panorama delle lettere italiane.

Già una decina di anni fa Armando Gnisci in un convegno tenutosi in Belgio aveva ipotizzato che la letteratura migrante, allora considerata ancora una «letteratura in gestazione» ovvero «di tipo latamente culturale più che letterario in senso proprio» avrebbe presto partecipato alla rivitalizzazione della cultura nazionale, avrebbe cioè contribuito così come è avvenuto in altre letterature nazionali europee alla riformulazione del concetto di nazionalità e di tradizione letteraria nazionale3. A pochi anni dalla formulazione di queste ipotesi e soprattutto a vent'anni dalla nascita di una letteratura migrante in lingua italiana, si può oggi constatare come quella prima fase di gestazione si sia senz'altro conclusa e se ne sia aperta una seconda che io vorrei definire "fase della leggerezza", ricalcando il famoso modello offerto da Calvino in una delle sue Lezioni americane. A pochi anni dalla fine del XX secolo, Calvino descriveva così il futuro delle lettere e non solo italiane:

 

Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio. sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva dalla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite […]Nell'universo infinito della letteratura s'aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo4.

 

Al mondo pesante dell'esistenza quotidiana. scandita da continue e assordanti notizie d'allarme sul futuro incerto d'una Italia multietnica e multirazziale, la scrittura migrante offre una visione di leggerezza che ridefinisce l'immagine spesso distorta dai mass media della popolazione immigrata e che, allo stesso tempo, delinea nuovi percorsi da esplorare in ambito letterario. Per leggerezza si intende la capacità dello scrittore di intervenire per mezzo della levità della parola e del pensiero sul nostro modo di percepire la realtà in cui viviamo.

Come ha giustamente notato Yousef Wakkas, scrittore siriano residente in Italia da molti anni, «l'incontro è stato sempre l'origine di tutte le civiltà»5. Ed è in questa idea di spazio condiviso. di incontro, piuttosto che di scontro, che va riconosciuto il potenziale per la crezione di un immaginario che tenga conto delle trasformazioni in atto nella società italiana. La scrittura migrante in Italia non solo si sta lentamente ma inesorabilmente scavando uno spazio proprio all'interno della narrativa contemporanea, occupando un posto senz'altro visibile a chiunque sia interessato a notare le novità, ma fornisce alla narrativa italiana una vitalità tutta nuova, riconoscibile nell'uso altamente creativo del testo letterario e della lingua italiana.

Mi soffermerò su due scrittori in particolare: Jadelin Mabiala Gangbo e Julio Monteiro Martins, i quali esemplificano per l'incisività del loro stile e la raffinatezza della loro affabulazione la leggerezza di cui dicevo sopra. Il carattere sperimentale sia a livello linguistico che strutturale delle loro opere presenta il testo letterario come momento di riflessione metaletteraria sul ruolo e la natura della letteratura e dimostra, come è stato notato in un recente convegno, che la lingua letteraria non «è semplicemente un prodotto, un oggetto meccanico consegnato al massimo a una dimensione museale ma diviene il momento per così dire più avanzato di riflessione sul linguaggio»6 - una riflessione che necessariamente viene alimentata e influenzata dalla realtà che lo scrittore si trova ad abitare ed interpretare.

Dire che l'identità italiana è in una fase di grande trasformazione può sembrare ad alcuni un'ovvietà, nessuno infatti potrebbe negare che l'Italia del 2006 è un paese profondamente diverso da quello di vent'anni fa. Quando però ci si trasferisce ad un'analisi della trasformazione culturale delle stesse ultime due decadi pochi sono coloro che considererebbero la narrativa italiana, attraverso cui si è sempre voluto vedere una delle fonti principali di definizione dell'italianità, un campo altrettanto trasformato, influenzato dalla presenza degli immigrati, figure che anche in casi di chiaro successo editoriale (si pensi al bestseller Io venditore di elefanti di Pap Khouma) rimangono pressocché invisibili alla critica letteraria7. Considerare la scrittura migrante come fenomeno marginale e transitorio, per ritornare al modello calviniano, significa volerla ridurre ad una dimensione di mera contingenza storica e ignorare gli effetti più sottili ma anche più duraturi che si possono rintracciare sia nel presente che nel futuro nel panorama cultuale italiano.

La scrittura migrante oggi offre delle opere con cui gli scrittori, non solo riescono a 'rispondere,' 'talk back,' come suggerisce Graziella Parati, all'artificiale8 nozione di omogeneità della cultura italiana, ponendosi pertanto in una relazione di dialogicità interculturale, ma per riprendere il titolo iniziale, vanno "al di là della parola" cioè si allontanano dall'aspetto più circostanziale dell'esperienza migrante (pur continuando ad abitarla) per investire, nel senso latino della parola. cioè adornare la narrativa italiana di nuovi spunti interessanti che ci portano a riflettere sul presente e futuro della narrativa italiana. Come ha sottolineato Paola Zaccaria nel suo La lingua che ospita:

 

la nostra Italia che ormai incontra la differenza a ogni angolo della strada, ai concerti. sul lavoro. nelle stazioni, non riesce ancora a prendere in considerazione e ancor meno entrare in rapporto con le lingue, le culture e tanto meno i soggetti ravvisati come 'portatori di diversità' [... ] è innanzitutto nelle opere letterarie [...] che l'approccio alla totalità del mondo si disegna9.

 

La scrittura migrante, a mio avviso, non traccia la mappa di un mondo "immaginato," per dirla alla Benedict Anderson10, di una comunità utopicamente immaginata, ma offre la visione di un mondo immaginario in continua trasformazione fondato sul concetto di diversità, alterità, e creolità costruito lungo delle vie ancora non percorse, ma potenzialmente percorribili. E dall'incontro di mondi culturali e linguistici diversi, in altre parole, che si aprono degli spazi culturali fino a quel momento inimmaginabili. Diversi studiosi hanno elaborato teorie sul modo in cui il mondo della cultura si fa interprete e portavoce di questo incontro inter e intraculturale. Édouard Glissant, ad esempio, ha sviluppato il concetto di creolizzazione secondo il quale il mondo appare come un arcipelago in cui i vari gruppi identitari si mettono in relazione in modo paritario, intervalorizzandosi. II concetto primario di questa cartografia antropologica è quello dell' inevitabile mescolanza culturale e linguistica, per cui «gli elementi culturali più lontani ed eterogenei possono, in alcune circostanze, essere messi in relazione. Con risultati imprevedibili»11. Sempre sul discorso dell'incontro tra culture diverse, è anche utile tenere presente il concetto di «interpolazione»12 formulato da Bill Ashcroft nel suo Postcolonial Transformation, attraverso cui il critico delinea una possibile via di autorappresentazione del soggetto postcoloniale o migrante all'interno di un discorso culturale egemonico di tipo nazionalistico o imperialistico. Secondo Ashcroft, è soprattutto attraverso il linguaggio, inteso come strumento di produzione culturale, che il soggetto riesce ad acquisire visibilità e ad incidere sul processo di trasformazione delle strutture sociali, politiche e culturali in cui vive. Il processo di "interpolazione" costituisce per lo studioso un insieme di strategie che innalzano l'orizzonte delle possibilità di trasformazione di una società grazie a dei sottili ma incisivi interventi culturali che disegnano scenari che sembrerebbero impossibili se considerati unicamente dal punto di vista delle condizioni politiche o economiche in cui queste visioni vengono prodotte. Per Ashcroft la cultura rende visibile quello che politicamente o socialmente sarebbe ancora prematuro da realizzare. Un simile approccio teorico viene offerto anche da Paola Zaccaria, che identifica nel termine "utopianism" quei testi che

 

non nascono con l'intento di creare utopie consapevoli, ma che in quanto propongono visioni alter-native [...] si presentano conte utopie aperte, dinamiche - hanno cioè come effetto quello di creare intorno all'atto di lettura una drammaturgia: chi legge non avverte chiusura e statiticità, senso di compiutezza nel mondo invisionato da chi scrive, ma la sua coscienza viene sollecitata dalle visioni inscenate dal testo13.

 

Zaccaria sottolinea quindi il rapporto imprescindibile tra azione e visione artistica, senza il quale nessuna grande opera umana può essere compiuta.

Tenendo presenti questi scenari teorici, vediamo ora in che modo gli scrittori ci disegnano il potenziale immaginativo dell'opera letteraria, e come ce lo propongono. Inizio con Jadelin Mabiala Gangbo. un giovane scrittore di origine congolese, trasferitosi in Italia alla fine degli anni '70 e cresciuto in contesti linguistici e culturali prevalentemente italiani. Jadelin Mabiala Gangbo è autore di vari racconti brevi e di due romanzi Verso la notte Bakonga e Rometta e Gìulieo, quest'ultimo pubblicato da Feltrinelli nel 2001 e oggetto di un discreto successo sia di pubblico che di critica. La storia. come si capisce subito dal titolo, si ispira alla famosa tragedia shakespeariana, e anche qui infatti l'autore narra le vicissitudini di due giovani che perseguono un amore impossibile. Lei, Rometta, è una giovane studentessa italiana, lui, Giulieo, è un giovane cinese che consegna le pizze a domicilio. L'impossibilità del loro amore non proviene, come si potrebbe a prima vista immaginare, dalle differenze di nazionalità e status sociale, ma piuttosto da un imprevisto di percorso, cioè dal fatto che l'autore stesso durante la stesura del romanzo si innamora della protagonista e diventa rivale del protagonista maschile, il quale alla fine decide di uccidere l'autore e quindi la storia stessa d'amore che non culminerà mai nel raggiungimento dell'agognato "e vissero felici e contenti".

La storia di Rometta e Giulieo si ispira sì alla tragedia shakespeariana, ma il romanzo non rappresenta una parodia (almeno non nel senso tradizionale del termine, come spiegherò in seguito) del testo canonico shakespeariano, quanto piuttosto l'elaborazione di configurazioni narrative nuove che prevedono spostamenti temporali e geografici, contaminazioni di generi letterari e di stili e registri linguistici, a riprova del fatto che il testo letterario di oggi non può non fare i conti con la complessità, molteplicità e diversità del mondo che vuole rappresentare se vuole mantenere una parvenza di autenticità. Il romanzo di Gangbo è sviluppato su due livelli lessicali e stilistici ben distinti ma che partecipano sincronicamente allo sviluppo della fabula: da una parte abbiamo la narrazione in prima persona dell'autore che si fa personaggio e che descrive le difficoltà di stesura del romanzo stesso. L'autore/personaggio si esprime usando un linguaggio moderno farcito di espressioni tratte dal gergo giovanile che riflettono con immediatezza ed autenticità l'ambiente bolognese in cui è cresciuto Gangbo. Dall'altra parte c'è la storia d'amore descritta dall'autore in terza persona attraverso un lessico ricercato, aulico e evocativo dell'atmosfera teatrale shakespeariana. Il romanzo inizia con queste parole:

 

I giorni d'artista, Sire. È questo che tento di raccontarvi, di quando mi sentivo ancora un artista, Sire, di quando mi credevo un coniglio con la testa di cane, un ragno senza zampe che divora un elefante. Le mie giornate passavano simili a quelle di un bastardo, di un miserabile ibrido a cui piaceva stare accovacciato sul davanzale della finestra. Da lì pensavo e fischiettavo. Da lì guardavo in alto e intravedevo le cose del cielo, poi chinavo gli occhi e vedevo gli schiaffi del mare, seppure sotto c'era l'asfalto. [...] Ancora caldo, schifo, caldo, Bologna sembrava l'inferno. Ci voleva un po' d'acqua a liberarmi. Acqua che mi scendesse impetuosa sulla faccia. Mi sfregai la cricca dalla fronte, attraversai la strada ed entrai in un supermercato.14

 

Un esempio del registro più aulico può essere invece trovato tra le pagine in cui viene descritto uno dei primi incontri di Rometta e Giulieo. Parla Rometta:

 

"Oh Ecco il miglior beniamino di pizza ch'io abbia mai veduto! Colui che porta allegria ai nostri ventri, ora sazia anche la vista e il cor mio". E Giulieo risponde: "La tua Margherita, squisitezza! Con un tocco di basilico, che ho provveduto io stesso a cogliere dalla pelle di madre natura. E ti dirò che ella non s'adirò per il torto subito, poiché certa che codesto basilico merita di più le labbra tue che il dorso suo"'15.

 

La commistione di registri e codici lessicali diversificati sincronicamente e diacronicamente. crea una tensione nel testo che potrebbe essere spiegata ritornando proprio al binomio leggerezza e pesantezza descritto da Calvino. Secondo Calvino, il Rinascimento shakespeariano esprime una speciale connessione tra melanconia e umorismo. «Come la melanconia è la tristezza diventata leggera», scrive Calvino. «così lo humor è il comico che ha perso la pesantezza corporea e mette in dubbio l'io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono»16. L'elemento umoristico è di centrale importanza in Rometta e Giulieo e sebbene l'autore rifiuti la definizione di parodia per il suo romanzo, io credo che l'elemento parodico sia invece nel romanzo fondamentale. «In verità, io non vedevo l'ora di disturbare i miei personaggi». afferma Mabiala Gangbo in un'intervista. «Così si è sviluppato tutto il progetto. In definitiva è stato più quest'ultimo aspetto a catalizzare la mia attenzione piuttosto che lo scrivere di una storia d'amore o di una parodia, anche se ci tengo a precisare che la mia non è affatto partita come una parodia»17. L'autore evidentemente interpreta la parola parodia nel senso tradizionale del termine, come una sorta di "tradimento del testo", una forzatura vista appunto come contraffazione in chiave comico burlesca del testo originario. Se però ci avviciniamo al termine parodia nel senso che è stato formulato da Linda Hutcheon18 come forma di ripetizione manifestata con ironica distanza. che marca una differenza piuttosto che una similitudine tra i testi, vediamo come l'intento autoriale di sviluppare un testo indipendente può essere avvalorato in un contesto parodico. L'importanza della parodia qui riflette la struttura fondamentalmente dialogica del romanzo Rometta e Giulieo che mette in relazione il mondo del passato e della tradizione, in questo caso esemplificato dal linguaggio arcaico e aulico del teatro shakespeariano, con la realtà più moderna della vita raccontata da un giovane scrittore alle prese con le quotidiane difficoltà legate alla pubblicazione e al successo editoriale. Il gioco linguistico tra passato e presente. tra il serio e il faceto rappresenta anche una riflessione critica sul rapporto tra linguaggio e identità, sulla ricerca di un linguaggio che non è solo comunicazione ma anche e soprattutto espressione della diversità dell'individuo che si confronta con il mondo circostante perché, nel caso specifico dell'autore, contrassegnato non solo da differenze caratteriali o artistiche (l'autore alla ricerca di un'autentica vena creativa) ma anche somatiche (il giovane che si sente italiano, ma che a causa della sua diversità fisica viene visto come un non italiano). In un'intervista Gangbo dice:

 

Io sono un ibrido, perché ho vissuto in Italia fin dall'età di quattro anni senza mai essere realmente italiano, a causa dei tratti somatici o della mia pelle [...] Mi sono spesso sentito come un osservatore alla ricerca di un'identità e credo che questa condizione si sia riversata in toto nella mia scrittura, costellata di metafore e linguaggi contaminati. Non è un caso che i personaggi delle mie storie non abbiano un'identità precisa e, in ultima analisi, forse non l'avranno mai19.

 

La figura che più si può identificare simbolicamente in questa assenza, intesa come ricerca infinita di identità, è quella del personaggio invocato continuamente dall'autore col nome di Sire. Più che una figura divina o superiore, il Sire costituisce il referente principale attraverso cui l'autore costruisce la sua storia e la sua identità di scrittore. È una figura referenziale silenziosa e senza tratti specifici, ma allo stesso tempo fortemente presente, e la sua presenza sottintende la necessità da parte dell'autore/personaggio di stabilire un contatto con il mondo esterno e creare una struttura narrativa di tipo dialogico piuttosto che monologico, come se alla fin fine la ricerca di questa identità potesse avvenire solo attraverso un confronto con l'altro, anche se l'altro così come l'io autoriale non vengono mai definiti chiaramente. L'autore si descrive all'inizio del libro in piedi sul bordo del davanzale (immagine ripresa dalla copertina del libro) come un essere ibrido che osserva il mondo a distanza, dall'alto. «È questo che tento di raccontarvi, di quando mi sentivo ancora un artista, Sire, di quando mi credevo un coniglio con la testa di cane, un ragno senza zampe che divora un elefante. Le mie giornate passavano simili a quelle di un bastardo, di un miserabile ibrido a cui piaceva starsene accovacciato sul davanzale della finestra». E più tardi sempre invocando la figura del Sire, l'autore scopre l'intuizione artistica che gli permette di descrivere il mondo percepito da osservatore esterno:

 

Ma Sire! Miseria, mio Sire! Come diavolo facevo a intuire che quella mattina si sarebbe svegliata la mia sfortuna? [...] Ma Sire, mi vedete con un tale potere tra le mani? Col sorriso pazzo di chi sta per combinarla grossa? Passai dal letto alla scrivania come un elastico tirato. Aprii un file, battei in cima Rometta e Giulieo, e presi a scrivere ciò che vi ho raccontato poco fa20.

 

Il dialogo col Sire prosegue fino alla fine del libro, quando il protagonista maschile della storia d'amore, Giulieo, spara all'autore/personaggio.

 

Sicché sparò, Sire. Giulieo fece partire una minchia di pallottola, ma non fui io a cadere. Entrambi, lui con un certo sgomento, io rallentato dallo spossamento, rimanemmo a guardare a terra [...] Aprii gli occhi da sopra la mia scrivania. Fissai lo schermo del computer senza mettere a fuoco nulla. E pian piano, con il cuore che cominciava a decelerare, lessi quanto scrissi.

 

Sia la storia d'amore che il processo di autodefinizione dell'autore/personaggio non giungono a una vera conclusione. Il romanzo finisce con un finale aperto, incerto dal punto di vista della successione logica e causale degli eventi narrati. Rimane però netta la sensazione di aver assistito ad un dialogo, forse semplicemente immaginato, ma pur sempre realisticamente rappresentato, tra due figure, l'autore/personaggio e il Sire, entrambi protagonisti della storia, che danno vita a un colloquio in cui le riflessioni sul processo di elaborazione e svolgimento dell'esperienza letteraria si intrecciano alla consapevolezza di un mondo culturalmente diversificato, dinamico, aperto a soluzioni diverse. «Si stava bene», conclude l'autore,

 

con i piedi sul davanzale, Sire [...] Ero ancora il bastardo, il figlio di puttana sul davanzale di una finestra, che guarda in alto e intravede le cose del cielo, poi china gli occhi e vede gli schiaffi del mare dove potrebbe esserci l'asfalto. Toccava a me scegliere, Sire, toccava a me scegliere cosa vedere21.

 

Un altro autore che esemplifica molto bene la fase di leggerezza dell'attuale scrittura migrante in Italia è Julio Monteiro Martins, scrittore di origine brasiliana e autore di numerose opere sia in lingua portoghese che italiana. Con madrelingua Monteiro Martins ci offre un romanzo in progress, nel senso che l'autore consegna al pubblico dei lettori un romanzo "apparentemente" incompiuto. Incompiuto non perché le circostanze abbiano impedito la stesura definitiva del romanzo, ma perché come suggerisce lo stesso autore nel preambolo, l'incompiutezza, la mancanza di confini ben definiti di scrittura, rappresenta uno degli elementi precipui della scrittura migrante: "apparentemente" incompiuto, perché l'autore decide di trasgredire («tradire allegramente» come scrive lui in chiusura) lo stesso concetto di incompiutezza con un colpo finale e inaspettato di penna che ricuce la trama della storia lasciata in sospeso. Julio Monteiro Martins inizia il suo romanzo con questo presupposto: «Dopotutto, cosa si adatta di più a uno scrittore migrante - molte volte migrante - che un romanzo incompiuto? È l'autore che rinviene, come Cenerentola, l'opera che gli calza a pennello: specchio ritrovato di un'esistenza spezzata, destino umano e allo stesso letterario»22; per decidere poi di aggiungere in un post scriptum delle "istantanee" che continuano e concludono la narrazione delle vicende dei personaggi, reintegrati nello spazio narrativo del romanzo. «Voi, cari lettori, siete testimoni della travagliata morfologia di questo libro. Le sue esitazioni - tutto questo andirivieni di voci narranti - sono le stesse della vita [...] Vedete lo scrittore che si morde la mano e si rimangia le parole? Lo scrittore che decide e poi si pente?» Il romanzo si conclude quindi con un ripensamento in extremis a mo' di confessione e con una visione in bilico tra vita e morte che l'autore, immaginando taumaturgicamente la letteratura come il testo che interpreta il mistero dell'esistenza umana, intravede nell'interpunzione come simbolo di una fine annunciata ma mai pienamente realizzata: «Un punto. L'ultimo punto, prima di una pagina bianca. Non è proprio così che finiscono tutti i libri?

Anche in questo caso. ci troviamo di fronte ad un romanzo di tipo metaletterario. tematicamente incentrato sulla figura del migrante, ma che va oltre la rappresentazione delle condizioni di vita dello straniero per proporre attraverso un gioco di rimandi tematici (riferimenti ad eventi storici contemporanei come la migrazione, la situazione politica di paesi come l'Italia, il Brasile e la Colombia), stilistici (narrativa frammentaria e stratificata) e linguistici (insersioni di lemmi stranieri) delle riflessioni sul ruolo dello scrittore che si fa interprete di un mondo multiculturale, senza più reali confini, e troppo complesso ormai da esplicare con modelli narrativi di tipo tradizionale. L'autore infatti spiega:

 

E allora, che cosa è stato bombardato e distrutto? La capacità. la probabilità - e il desiderio - di scrivere un romanzo [...] di struttura più tradizionale, classica, con un inizio, uno sviluppo e una fine, opere che magari offrivano ai lettori un senso di compiutezza e di generale coerenza. Giacché non le trovo più nella mia stessa vita, non posso esprimerle nella mia letteratura, la quale altro non è che luce irradiata dalla vita23.

 

Il testo letterario diventa quindi l'espressione di un disagio epocale avvertito come condizione universale che coinvolge l'umanità intera a prescindere dai connotati anagrafici dello scrittore. «Oggi è quasi impossibile non essere straniero a questo mondo24, afferma Julio Monteiro Martins, e non a caso il concetto stesso di diversità in madrelingua riflette più un'esperienza esistenziale di lacerazione e straniamento che una condizione di dislocazione geografica. Ed infatti entrambi i personaggi principali del romanzo sono contrassegnati, seppure per ragioni diverse, da un senso di disagio esistenziale: Manè, un ex calciatore brasiliano trapiantato in Italia che soffre di saudade (in brasiliano nel testo per esprimere l'irrimediabile nostalgia della patria) e Salvo un italiano che, scontento della situazione politica del suo paese, decide di trasferirsi in Colombia per realizzare pienamente la sua condizione di esiliato che egli sente di avere già in patria.

 

"Si. caro mio" spiega a Manè Salvo, in procinto di partire. E continua:

"Sono un po' cambiato. Mi preparo a diventare uno 'straniero'... Tu che vivi da

tanti anni fuori dal tuo paese natale, dalla tua madrelingua, forse mi potrai spiegare

bene cosa significa diventare uno straniero... Come ci si sente, passati i primi anni".

Manè gli risponde:

"Mah...io mi sento benissimo. Non ho alcun problema. Anzi, credo che gli stranieri se riescono ad emergere dalla convivenza forzata con certi cafoni, siano molto considerati. La componente esterofila, o semplicemente la curiosità in questa società è più forte del razzismo. I...] Ma capisco che non è di questo che vuoi sentirmi parlare, bensì della condizione essenziale dell'essere straniero, della posizione esistenziale. Albert Camus ha già scritto un libro importante sull'argomento e tu dovresti rileggerlo in questa chiave prima di partire, perché appunto parla dell'intrinseca estraneità che ci contraddistingue tutti. Si tratta di una sorta di distacco dalla realtà che ci circonda 25.

 

Con la creazione di un immaginario in cui possiamo vedere un Salvo che lascia l'Italia e un Manè che trova una nuova patria in Italia, Monteiro Martins ci consegna una cartografia della migrazione molto più vasta e complessa di quella che normalmente rinverremmo sfogliando le pagine dell'informazione massmediatica in cui la migrazione ci viene presentata come un fenomeno unidirezionale di spostamento di popoli esclusivamente da paesi del Terzo Mondo verso quelli occidentali. Questa nuova mappatura del mondo migrante permette di rintracciare percorsi trasversali che rendono conto di più esperienze e sfumature della realtà e in ultima analisi ridefinisce la figura stessa di "migrante" ravvisabile non solo nell' "altro", nello straniero, ma potenzialmente in ciascuno di noi. Un elemento fondamentale di questa universalità è per Monteiro Martins il linguaggio, la madrelingua con la emme minuscola, ovvero la parola, la creazione artistica che indipendentemente dai dati anagrafici dell'individuo può assumere più vesti linguistiche e culturali. Pirandellianamente concepita, secondo l'assioma che la vita o la si scrive o la si vive, la scrittura di Julio Monteiro Martins trascende ogni confine geografico e indentitario in quanto:

 

Gli uomini e le donne di lettere hanno scoperto che possono far fagotto e cambiare paese e idioma, come il nostro personaggio Salvo Rizzo [...] Anche perché intuiscono che scrivere non é altro che un lungo congedo dalla vita. un congedo che può durare mezzo secolo e più. E che prosegue sempre con la sua litania, non importa dove ci si va a cacciare26.

 

In conclusione, la scrittura di Jadelin Mabiala Gangbo e Julio Monteiro Martins ci rivela attraverso un abile gioco di rimandi a spazi culturali e immaginativi diversi e diversificati che è possible immaginare un mondo in cui vivere al di fuori di prestabilite gerarchie di potere e valori e ci dimostra che la lingua non è soltanto un insieme di regole grammaticali, sintattiche e un lessico specifico. Una lingua è il risultato di una cultura, un "epifenomeno" dell'esperienza di un gruppo umano sul pianeta lungo i secoli, ossia il risultato di un delicato processo di interazione spirito/mondo, una sintonia fine con tutte le sfumature della realtà quotidiana e con un inconscio collettivo27.

 

 

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Note:

 

1 – Si veda l’articolo sul sito: <http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/poetica.html>

2 – Sul concetto di “confine” e “frontiera” si vedano: P. ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali storici e mentali. Milano, Mondadori, 2002; G. P. CAPRETTINI, “La frontiera scomparsa. Ancora sulla semiotica dello spazio”, in Incontri di culture. La semiotica tra frontiere e traduzioni, a. c. di P. Calefato, G. P. Caprettini e C. Colaizzi, Torino, UTET, 2001. Ringrazio Maria Cristina Mauceri per la segnalazione bibliografica. Segnalo inoltre un saggio ancora inedito di Mario Moroni, intitolato “Limiti e confini romantici” in cui l’autore analizza il concetto di confine inteso come spazio letterario nelle opere di Foscolo e Leopardi.

3 – A. GNISCI, “Testi degli immigrati extraeuropei in Italia in italiano”, Gli spazi della diversità: Atti del convegno internazionale “Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992”, vol. II, a. c. di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bosche, Roma, Bulzoni Editore, 1995, pp. 499-515.

4 – I. CALVINO, “Leggerezza”, in Lezioni americane, Milano, Arnoldo Mondadori, 1993, p. 16 e p. 12.

5 – Si veda il suo saggio intitolato Ex-letteratura sul sito della rivista on-line “Kumà”: http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/poetica.html

6 – E. RAIMONDI, Per la lingua italiana. Manifesto agli italiani, tornata accademica sul tema “L’italiano e gli italiani”. Atti, Ranevva, 16 maggio 2003, Teatro Alighieri, Firenze, Polistampa, 2004, p. 59.

7 – Cesare Segre, ad esempio, nel suo La letteratura italiana del Novecento (Bari, Laterza, 1998), non include nessun autore migrante nella sua analisi della letteratura italiana contemporanea, ma si chiede in conclusione quale sarà il futuro delle lettere italiane soprattutto in visione della presenza di voci più interessanti provenienti da tutto il mondo. Lo studioso scrive: “A parte la crisi di ideali e ideologie, da cui non si sa se ne usciremo, è difficile dire che cosa sia o possa divenire la letteratura entro una società che sta faticosamente diventando multietnica e pluriculturale […] Ci siamo domandati qualche volta, in queste pagine, se la nostra letteratura sia stata in grado di esprimere al meglio le angosce del nostro secolo, e abbiamo dovuto riconoscere che in complesso i nostri scrittori, con eccezioni che abbiamo rilevato, sono apparsi di meno ampio respiro, di più debole capacità di analisi o immaginazione che quelli di altri paesi. Oggi poi il confronto diventa amplissimo, perché, dopo quelli dell’America latina, hanno autorevolmente invaso la ribalta scrittori indiani e pachistani, sudafricani, israeliani ed egiziani, e così via.” (pp. 95-96).

8 – G. PARATI. Migration Italy: The Art of Talking Back in a Destination Culture, Toronto, Uni9versity of Toronto Press, 2005. Parati sottolinea l’importanza di creare nuovi strumenti di analisi della produzione culturale migrante che non rientri in semplicistiche e binarie strutture interpretative basate sul binomio “nativo/migrante”. Il suo libro propone un approccio teorico e critico alla narrativa migrante che tiene  conto della figura dello scrittore migrante non solo come ricevente ma anche come produttore di cultura ‘italiana’.

9 – P. ZACCARIA. La lingua che ospita: poetica politica traduzioni, Roma, Meltemi, 2004, p. 15 e p. 17.

10 – B. ANDERSON. Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi.Roma, manifestoLibri, 2006.

11 – É. GLISSANT. Poetica del diverso. Roma, Meltemi, 1996, pp. 19-20

12 – Interpolation nell’originale inglese. Si veda B. ASHCROFT, Post-colonial transformation, London and New York, Routledge, 2001, p. 14.

13 – P. ZACCARIA, op. cit, p. 36.

14 – J. MABIALA GANGBO, Rometta e Giulieo, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 13.

15 – Ibid. p. 37.

16 – I. CALVINO, op. cit., p. 25.

17 – “Jadelin Mabiala Gangbo. Personaggi senza identità”, Intervista a c. di T. Carpinelli in Fucine Mute, anno 6, n° 69 (Ottobre 2004), on-line: <http://www.fucine.com/network/fucinemute/core/index.pho?url=sommario.php>

18 – L. HUTCHEON, A Theory of Parody: The Teachings og Twentieth-Century Art Forms, Urbana and Chicago, U. di Illinois Press, 2000. La studiosa afferma: “I chose to define parody as a form of repetition with ironic critical distance. marking difference rather than similarity”, p. xii.

19 – Jadelim Mabiala Gangbo. Personaggi senza identità”. op. cit.

20 – J. MABIALA GANGBO, Rometta e Giulieo, op. cit., p. 37.

21 – Ibidem, p. 165.

22 – J. MONTEIRO MARTINS, Madrelingua, Nardò, Besa editrice, 2005, p. 13.

23 – Ibid. p. 59.

24 – Ibid. p. 56.

25 – Ibid. p. 54-55.

26 – Ibid. p. 77.

27 – Ibid. p. 74.

 

 

 

 

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( Tratto da L’italiano lingua di migrazione: verso l’affermazione di una cultura transnazionale agli inizi del XXI secolo, Organizzato da Anna Frabetto e Walter Zidaric’, CRINI – Centre de Recherches su les Identités Nationales et l’Interculturalité, Université de Nantes, France, 2007.)