IL BIOTERRORISMO

 

Un’intervista con Henri Mollaret, batteriologista

 

 

 

 

 

Lei ha diretto per più di vent’anni il laboratorio dell’ Istituto Pasteur specializzato nello studio della peste, ha collaborato dal 1955 con l’Organizzazione Mondiale della Salute e ha partecipato, insieme alle autorità civili e militari francesi, alla lotta contro l’uso che potrà essere fatto degli agenti biologici patogeni nei confronti della specie umana. Con una tale esperienza, che analisi fa oggi dell’emergenza nata da nuove minacce bioterroriste?

 

Bisogna innanzi tutto ricordarsi che non è possibile lottare efficacemente contro una malattia infettiva qualunque essa sia, di origine naturale o terrorista, senza conoscerla perfettamente – oltre alla sua fisiopatologia – la sua storia, il simbolismo e le condizioni ambientali del suo sviluppo. Questo è particolarmente vero per la peste, che già dall’inizio dell’era cristiana ha ucciso, attraverso tre epidemie, senz’altro più di 200 milioni di persone, e che è stata una grande fonte d’ispirazione artistica. Diversamente dal colera, malattia terrificante ma sulla quale l’iconografia era spesso caricata e faceva ridere per la rappresentazione delle diarree che la caratterizzavano, e diversamente anche dalla lebbra che, altrettanto atroce, uccide lentamente, la peste polmonare, bubbonica, è stata sempre percepita come un male ancora più terribile, poiché essa può uccidere in modo estremamente veloce. Bisogna ricordare che, quando la peste è arrivata nel 1348, ha portato la morte a un terzo, se non alla metà, della popolazione europea.

 

Si sapeva sin dall’inizio del carattere contagioso della malattia?

No. Paradossalmente sono stati i medici che durante i secoli si sono dimostrati reticenti ad accettare questa nozione di contagio. Al contrario, le autorità amministrative capirono rapidamente come la malattia si espandeva e hanno preso a partire dal 1380 delle misure efficaci, appunto perché  basate precisamente sulla nozione del contagio. Da quel momento, hanno blindato le città, hanno chiuso le persone colpite dentro le loro case, che erano chiaramente segnalate agli occhi di tutti, hanno stabilito quarantene tanto sulla terra quanto sul mare. Tutto ciò ha contribuito a frenare l’estensione della malattia, e la peste è sparita alla fine del secolo XVIII laddove simili misure sono state prese. Noi abbiamo ereditato, anche nella nostra epoca tanto laica, il ricordo della peste tra le popolazioni credenti per le quali tale affezione era inaccettabile. Bisogna ricordarsi anche dei soldati dell’esercito di Napoleone che si sono suicidati quando hanno creduto, a Jaffa o oltre, di essere stati contaminati dalla peste. Tutto questo è scritto dentro il nostro inconscio collettivo. Evocate la peste e viene subito la paura, il trauma, le piaghe, la sofferenza, la morte che l’accompagna.

Anche la ricomparsa di queste malattie a causa delle azioni dei terroristi, come la ricomparsa del vaiolo, della lebbra, avrà, nell’opinione pubblica, un’eco formidabile e un enorme effetto di demoralizzazione psicologica. Ciò costituirà parallelamente una grande vittoria per i criminali che le hanno riportate.

 

Quando si è cominciato a immaginare che agenti patogeni come quello del vaiolo, della peste o del carbonchio potessero essere utilizzati per fini bellici o di terroristici?

La storia militare comporta già da lungo tempo episodi di tal genere, come l’uso del virus del vaiolo da parte delle truppe inglesi contro gli indiani d’America del Nord, o il virus della morva per ammazzare i cavalli durante la prima guerra mondiale. Bisogna distinguere due usi possibili: i microbi – virus o batteri – utilizzati come armi dei poveri e i microbi utilizzati in più larga scala. Nei servizi che ho prestato all’esercito in Francia ho lavorato in una serie di commissioni, e devo sottolineare che quel lavoro è sempre stato per me una fonte inesauribile di desolazione.

Così, nel 1980, il segretario generale della difesa nazionale costituì una cellula di crisi per l’ipotesi di un attacco bioterrorista sul suolo francese. Ci incontravamo una volta al mese, tra esperti e responsabili, negli Invalides per sapere se questo o quall’agente doveva o meno figurare su questa o quella lista. Tutti eravamo d’accordo sul vaiolo, la peste, il carbonchio o la tossina botulinica, ma non avevamo una visione esaustiva degli effetti dell’uso dell’insieme degli agenti, e una volta usciti di lì, non succedeva più niente. O più esattamente, si trattava di uno sforzo amministrativo totalmente inadatto al tipo di azioni delle quali potremo diventare vittime prossimamente; così come le informazioni di diffusione limitata della direzione centrale del servizio di salute dell’esercito sulla condotta da tenere nei casi di aggressioni biologiche. È stata, mi creda, la più grande miseria operativa, i responsabili avevano in generale la convinzione che non si sarebbe mai fatto uso di armi batteriologiche. Le misure indispensabili non sono mai, secondo me, state prese. Eppure niente è più facile per i terroristi che procurarsi e usare i più mortali dei ceppi patogeni. Conosco addirittura dei biologi che ancora recentemente hanno commercializzato tutti i tipi di ceppi, compresi quelli della peste.

 

A partire da una tale realtà e dopo l’annuncio di qualche giorno fa del ministro della Sanità Bernard Kouchner relativo alle grandi linee del piano Biotox, quale tipo di azione lei preconizza?

Le minacce bioterroriste ci impongono di riprendere la vaccinazione contro il vaiolo, malattia che è stata estinta grazie alla straordinaria campagna di vaccinazione costata 300 milioni di dollari. Tali misure, previste in questo piano, sono a mio parere essenziali. Conosco bene gli argomenti avanzati da quelli che sono contrari a simili misure e che sottolineano gli effetti secondari, le reazioni a volte anche gravi, osservate a seguito della vaccinazione a partire dall’inizio degli anni ’80 del Novecento. Quando, alla fine degli anni ‘70, abbiamo cominciato a perorare, presso l’Organizzazione Mondiale della sanità, la causa della vaccinazione antivaiolo, due tipi di argomenti sono stati presentati. Il primo era che la vaccinazione era costosa, e il secondo evocava, per l’appunto, gli incidenti che sarebbero derivati da essa. Aggiungevano inoltre che alcune persone, nei giorni successivi alla vaccinazione antivaiolo, avrebbero avuto complicazioni, talvolta gravi. E ancora che si sarebbero verificati casi di morte. Ho riletto tutte le pubblicazioni su questo argomento. Ho interrogato gli esperti di neurologia. Non c’è mai stata, per quello che so io, nessuna certezza che il virus della vaccinazione avesse provocato la morte di persone nei giorni o nelle settimane successive ad essa. Non c’è niente che ci autorizzi a dichiarare legami di causalità oltre a una semplice coincidenza.

 

Lei vuole dire che dopo il 1980 non si sarebbe dovuta abbandonare la vaccinazione contro il vaiolo?

Sì. Ho dichiarato alla stampa, a quel tempo, che si trattava di un vero disastro, una catastrofe che di fronte a una malattia come il vaiolo –  per la quale non esiste nessuna possibile terapia, che ammazza intorno al 40% delle sue vittime e causa la cecità in circa il  15% dei sopravvissuti – non si  ricordi la sua estrema contagiosità, ciò che la fa, appunto, così interessante per un uso militare e terroristico. La strategia consiste nel contaminare inizialmente non più di un piccolo numero di persone, che costituiranno gli agenti di diffusione del virus e delle ulteriori contaminazioni. Si aggiunge a ciò un periodo di incubazione di una settimana al minimo e il fatto che quelli che lanciano l’attacco saranno protetti dalla stessa vaccinazione che noi non utilizziamo più. Potete allora immaginare le difficoltà con le quali dovrà confrontarsi la polizia per identificare le fonti iniziali della contaminazione.

Un simile uso del virus del vaiolo porterà inevitabilmente – diversi studi lo provano – a una epidemizzazione della malattia, e è mio dovere sottolineare che i nostri responsabili sanitari non sono epidemiologisti. E noi disponiamo di elementi seri per credere che i ceppi non ufficiali esistono già in Israele, nell’Iraq e nell’Iran.

 

Ma lei sa che già da vent’anni nessuna nuova vaccinazione è stata obbligatoria per l’insieme della popolazione. Noi le raccomandiamo soltanto a quelli che hanno dei motivi speciali per proteggersi. Crede che torneremo alla situazione precedente e a un obbligo di vaccinazione?

Credo che i responsabili della politica della sanità temano sempre più azioni nell’ambito della Giustizia di quelli che si credono vittime di questo o quel vaccino. Immaginate cosa potrà diventare, nel caso di riapparizione del virus del vaiolo, la responsabilità di coloro che hanno scelto  che la popolazione non sia protetta, ma direttamente esposta a un rischio che poteva essere prevenuto... Dove sono finiti i principi della precauzione? Vorrei aggiungere che qualunque siano le riserve presenti o future relative ai vaccini antivaiolo, non avremo materialmente il tempo di agire con la rapidità necessaria per proteggere la popolazione. Io capisco la complessità del problema e non so dire in verità se questa protezione dovrà essere proposta o imposta, ma credo che dovremo agire al più presto. Queste misure sono essenziali e devono essere intraprese, anche se, parallelamente, dovremo lavorare per perfezionare la sicurezza della vaccinazione.

 

Oltre alla ripresa della vaccinazione antivaiolo, quali altre misure ritiene indispensabili?

Direi che in generale non dovremmo comportarci come se le malattie che abbiamo vinto fossero scomparse. Bisogna necessariamente continuare a insegnare, a vigilare sulla loro ricomparsa qualunque sia la ragione, prevenirle. Senza sminuire i lavori straordinari svolti dalle nuove strutture di vigilanza sanitaria, è necessario creare al più presto un’unità mobile d’epidemiologia e d’intervento immediato di urgenza, capace di dislocarsi non appena un avvenimento sospetto sia identificato. Perché nel caso di un’azione bioterroristica niente, in principio, ci permetterà di dire se si tratti di un fenomeno naturale o provocato. Saranno i responsabili di queste squadre che avranno la missione di prendere i provvedimenti iniziali, di orientare, di fare i prelievi biologici. Dovranno avere anche l’autorità per determinare gli spostamenti della popolazione e, nei casi più gravi, per provvedere al seppellimento di cadaveri in  modo compatibile con la dignità umana.

 

 

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Nato nel 1923 a Parigi, Henri Mollaret ha svolto, a partire dai suoi studi di Medicina, una doppia carriera di insegnante (nella facoltà Paris-Ouest) e di ricercatore in microbiologia all’Istituto Pasteur di Parigi, dove ha diretto, per più di vent’anni, il laboratorio specializzato sugli studi relativi alla peste.

Esperto di fama internazionale della lotta contro questa malattia, ha allo stesso tempo partecipato, a partire dal 1955, a numerose missioni al servizio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in Iran e in diversi paesi dell’America latina e dell’Africa. Autore di innumerevoli pubblicazioni mediche e scientifiche, il professore Henri Mollaret ha scritto molti opere, e tra queste, insieme a Jacqueline Brossolet, Alexander Yersin, o il Vincitore della peste (Éditions Fayard).

Quale esperto scientifico, è fortemente interessato ai differenti aspetti della guerra batteriologica e al bioterrorismo.

 

 

 

 

 

 

 

CHI BADA ALLA PACE?

 

Emir Sader

 

 

 

 

 

Dal terrore negli USA passiamo al terrore nell’Afganistan. Tre settimane di bombardamenti in un paese già distrutto non garantiscono che siamo più vicini alla pace. Al contrario, la paranoia si allarga agli Stati Uniti e a diversi altri paesi, che non si sono mai sentiti così insicuri. Gli USA annunciano una guerra di lunga durata. Osama Bin Laden dice che loro resisteranno sempre. Nel Medio Oriente, nel Cashemir, nessun accordo sembra possibile; centinaia di persone muoiono tutte le settimane in manifestazioni soltanto in Nigeria, contro i bombardamenti nell’Afganistan, i governi irrigidiscono le condizioni di sicurezza a scapito dei diritti individuali; milioni di persone passano a vivere tra l’insicurezza, la paura e il panico.

E chi bada alla pace nel mondo? Certamente non gli USA, coinvolti direttamente in una guerra per molti anni – secondo l’opinione dei suoi stessi dirigenti. Nemmeno l’Europa, capeggiata da Tony Blair in una crociata bellica. Nemmeno la Cina o la Russia, solidali con gli USA. E stavolta nemmeno il Papa ha avuto vere parole di pace, preferendo legittimare il diritto alla difesa degli americani. Governi come quello brasiliano si mostrano solidali con le rappresaglie degli USA anche se contro l’opinione del 75% dei brasiliani. E ancor meno l’ONU e il suo Segretario generale, paradossalmente premiati con il premio Nobel della Pace (sic) nel momento in cui i bombardieri svolazzano senza freni per i cieli del mondo, e l’ONU li lascia fare, dopo la perdita di prestigio portata dalla guerra nell’ex-Jugoslavia, fatta in nome della NATO. Sotto forti critiche da allora, l’ONU si è messa sulla stessa strada della precedente Società delle Nazioni, che di demoralizzazione in demoralizzazione non ha saputo evitare che la guerra tornasse a dominare il mondo.

La guerra è fatta fine a se stessa. Lo scopo della guerra, per i fondamentalisti dei due lati, è fare la guerra. È esasperare i conflitti in termini irriducibili – il Bene contro il Male e viceversa. Il Corriere della Sera ha affermato addirittura che la pace non è un traguardo in sé, che ognuno lotta per la sua pace, secondo i suoi interessi e i suoi valori, legittimando così le guerre come forma di conflitto permanente, fino a che una delle parti trionfi. I governanti modellano e riproducono l’insicurezza, perché gli altri problemi cruciali dell’umanità – la fame, la miseria, la degradazione ambientale tra loro – siano dimenticate e le popolazioni accettino delle legislazioni repressive che concentrano più potere nelle mani dei servizi di sicurezza e nella polizia.

Non c’è una differenza sostanziale tra il terrore a New York e quello a Kabul. Chi a ha condannato il primo, deve per forza condannare il secondo. Ma in questi momenti il mondo rivela crudelmente le sue strutture di potere, al di sopra dei diritti, della lotta per la pace e soprattutto delle necessità delle popolazioni più fragili – da un lato e dall’altro.

Il tema della pace rimane il tema centrale dell’umanità, 40 giorni dopo i crudeli attentati dell’11 Settembre e tre settimane dall’inizio dei disumani bombardamenti all’Afganistan. Un vuoto che rispecchia il peggio della civiltà contemporanea e che richiede nuove leadership, all’altezza dei dilemmi che l’umanità, pregiudicata dalla cattiva qualità dell’attuale generazione di governanti, affronta nel nuovo secolo. Se nessuno bada alla pace, chi si farà responsabile per il futuro dell’umanità? La costruzione di un altro mondo possibile, che superi le dicotomie nelle quali vuole rinchiudersi l’umanità, verrà da quelli che cercano un mondo in cui entrino tutti i mondi e non da quelli che vogliono affermarsi riducendo il mondo a una bipolarità di fanatismi, un mondo escludente e intollerante.

 

 

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Emir Sader è uno scienziato politico brasiliano.

 

 

 

 

 

 

UN ASTEROIDE DI DIO È CADUTO SULL’OCCIDENTE

 

Arnaldo Jabor

 

 

 

 

 

Osama si muove nel deserto con la postura di un Maometto, di un Cristo redivivo. Bush e i suoi generali reagiscono con gli scatti nervosi degli strateghi razionali.

Osama e suoi complici non si preoccupano più di tanto. Hanno il volto soave e freddo dei pazzi, senza dubbio. Bush e l’America si muovono dentro la Storia. Osama è al di fuori di essa e, proprio per questo, ha commesso l’attentato che ha maggiormente cambiato la Storia moderna. Eravamo prigionieri della logica della ragione mercantilista continua e Osama ha rotto con questa “continuità”. Solo un individuo al di fuori di qualunque parametro politico prevedibile potrebbe cambiare il percorso di questo treno. Osama non è costretto da nessun valore occidentale; nemmeno dalla paura della morte. Lui non è fermato da nessun impegno morale o umanitario. Noi siamo il Male. Lui è il Bene. Anche noi ci pensiamo come il “bene”, ma non abbiamo così tanta sicurezza. Noi abbiamo avuto riforme religiose. Loro no. Mille anni non sono passati. Per violenti che siano, gli americani devono dare risposte all’opinione pubblica. Osama non deve niente a nessuno. Tutto ciò che farà sarà approvato dai suoi pazzi fanatici. Se lui facesse esplodere una bomba atomica in Broadway, sarebbe celebrato come un santo e un eroe. Non c’è umanesimo. Solo Dio e basta. È questo che ci desta sdegno: come mai quest’uomo dentro una grotta preistorica osa contrastare la nostra “trionfale” civiltà? Ebbene, sembra questo il nostro nuovo destino.

Con tale immensa libertà a-storica, lui ha creato il primo “avvenimento” del XXI secolo. Questo “avvenimento” non è sottomesso alla catena permanente dei presenti, con un’unica marcia verso il futuro. Questo “avvenimento” puro è stato un crimine perfetto, giusto per negare qualunque impegno con la giustizia.

Noi sempre cerchiamo di addomesticare il destino, gli imprevisti, l’insicurezza della vita. Osama può tutto, può pianificare ciò che vuole: lettere con antrace, bottigliette di gas sulle strade, suicidi-bombe, sostanze chimiche nel metro. Senza ritmo, senza volto, senza fretta. L’idea del “potere bellico” è stata cancellata. Non occorre questo “potere”. Basta l’insidiosa vendetta che si mangia fredda, basta usare il rovescio di tutte le conquiste che abbiamo avuto, basta l’assurdo, l’impensabile. La sua frase-chiave: “Abbiamo migliaia di giovani che vogliono morire. Voi avete migliaia di giovani che vogliono vivere”. Questa è la versione più sinistra della celebre frase del generale di Francisco Franco: “Giù l’intelligenza. Evviva la morte!”. Osama è un decostruttore, come un Derrida di turbante e barba. L’America contrattacca per imporre la continuità del discorso. Osama è già pronto. Non ci sono “progetti” nell’Oriente, non c’è il “divenire”; c’è invece il maktub, ciò che da sempre è stato scritto. Tutto ciò che accade è la conferma della verità illustrata dal Corano, di quello che per forza doveva essere. L’Islam non ha dubbi. Islam vuol dire “sottomissione a Dio”. Nell’agire, i fanatici Lo obbediscono e i loro atti vengono purificati dalla mano stessa del Creatore. Osama è un Maometto. Per lui, la verità è già stata raggiunta. Osama può essere in procinto di svegliare il peggio di noi, la paranoia razzista, ideologica, il neo-maccartismo. Osama ci espone al ridicolo. Qualcuno ha detto: la più grande potenza del mondo sta lottando contro Gli Antenati del cartone animato.

Una cosa è sicura: l’idea di “vincere” non esiste più, non ci saranno vittorie per noi. Dovremo includere la morte nel nostro quotidiano. Non potremo più dimenticarla. In questo senso, saremo più “orientali”, fatalisti, più gregari. Questa forse è una bella cosa.

Osama ha fatto scoppiare il nostro mondo logocentrico. Il nostro progetto è stato interrotto dall’ “intempestivo”, ciò che sta al di fuori del tempo. Solo un “Flinstone” potrebbe farlo: dal mezzo di un deserto, del vuoto, del nulla. Solo la tradizione orientale contro la “rappresentazione”, soltanto la negazione di qualsiasi simbolo, in una linea diretta con il “reale” (si legge Allah, Dio, Morte) potrebbe aver creato quell’allegoria sinistra a New York, con una forza invincibile ed eterna, questa piaga che cambierà il mondo per sempre. Osama ci ha gettato sopra un destino, come un asteroide su New York (avrà assistito a Armagedon o a Deep Impact?). Anche i crimini contro Hiroshima avevano una sordida spiegazione guerriera: la rozzezza di Truman, la vendetta per Pearl Harbour, l’esibizionismo nucleare contro l’Unione Sovietica, aprendo così la Guerra Fredda. Questo asteroide arabo no; è stato Dio che ha inviato i suoi raggi.

Osama ha fratturato la globalizzazione del mondo. Ha interrotto un euforico processo di omologazione. Osama ha rotto i nostri valori universali mostrando che l’unica cosa universale nel capitalismo è il capitale. Osama ha commesso solo una scivolata di sottomissione nei confronti dell’Occidente, quando ha detto alla TV araba che la causa dell’attentato erano la Palestina e l’Iraq. Menzogne. I fanatici si sono mossi da una pazzia molto più grande; si tratta di un’invidia trascendente millenaria, di un risentimento che non sarebbe stato placato dalle modifiche politiche nel conflitto Israele-Palestina. Qualche giorno fa l'intellettuale Edward Said ha detto in un’intervista: l’Oriente ha bisogno di una riforma secolare e l’Occidente di una riforma spirituale. Osama, sotto il pretesto di odiare le oligarchie saudite, ha fatto esattamente il loro gioco: sposta le riforme secolari che l’Islam dovrebbe fare verso la pazzia religiosa, per la gioia delle oligarchie del petrolio.

Durante la Guerra Fredda, l’America ha sempre creato imbarazzi per i governi secolari e riformisti che volevano insediarsi in Oriente. Nasser è un esempio. L’America ha sempre dato appoggio ai fondamentalisti che secondo loro potrebbero indebolire i comunisti e i “terzo-mondisti”. Le conseguenze si vedono ora. Resta all’America d’ora in poi solo l’accettazione di una fatalità che è arrivata per restare a lungo. Maktub, America!

 

 

 

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Arnaldo Jabor è un famoso regista di cinema brasiliano, esponente del Cinema Novo.