AL SIMULACRO DELLE IMAGERIE

 

 

Un racconto di Caio Fernando Abreu

 

 

Il cielo così azzurro là fuori, e quel certo malessere lì dentro.
Là fuori: quasi novembre, un insistente vento di primavera che trasportava lontano gli ultimi spiriti maligni dell'inverno, una fragranza di fiori in giardini remoti, un profumo di manghi maturi, di fragole sperdute tra il monossido di carbonio delle automobili che intasavano le grandi vie. Lì dentro: una fila che non si muoveva, l'aria condizionata che non funzionava, donne grasse che urtavano gli altri clienti negli stretti corridoi senza chiedere scusa, i loro carrelli rigurgitanti di merce, mortiferi, come tanti lavandini, bambini cibernetici che lanciavano urla con i loro pupazzetti intergalattici, cassiere lente, maleducate, di cattivo umore. E il sudore e la nausea e l'afflizione di tutti i supermercati del mondo nelle mattine del sabato.

Lei osservò i propri acquisti: biscotti di acqua e sale, acqua minerale gasata, riso integrale e, in un impulso di stravaganza, un vasetto di marmellata di pesche argentine. Duraznos, ripeté estasiata. Amava le sonorità. E non una mano libera per farsi aria. La donna dalla pelle che tradiva un lifting aveva accatastato sul banco i suoi viveri, due carrelli traboccanti di colesterolo e sugar blues. Emise un sospiro. E guardò in alto, da dove la stava spiando una telecamera, come se fosse una ladra potenziale. Guardò anche gli scaffali accanto al corridoio polacco nel quale stava allineata, e vide montagne di pacchetti di plastica con frutti di jujuba rosa, verdi e gialli, patatine al bacon, cipolla, prosciutto e formaggio. E scatole di latta, pile di scatole di latta.

Sospirò di nuovo, sospirava molto, e ritornò a guardare verso l'esterno, oltre le teste. Il cielo continuava a essere di un azzurro intenso, cosa rara in quella odiosa città. Ma lì dentro lei riuscì solo a sfilare un piede dal sandalo hawaiano -era sabato, e che vadano tutti al diavolo, lei era fatta così- per appoggiare le dita dalle unghie cortissime, non smaltate, sull'altro piede. Ed eccola, simile a una gru, nel mezzo di una laguna di acqua dolce: la lunga gonna indiana di tessuto stampato dai molti colori che gli arrivava alle caviglie, la camicetta di seta bianca a maniche corte che le pendeva sopra, il denaro contato nascosto nel taschino sopra il seno sinistro. Il piede le si era intorpidito, e lei lo fece roteare per riattivare la circolazione. E se qualcuno l'avesse vista in quell'istante, senza vedere il piede gonfio nascosto dalla gonna lunga, avrebbe pensato che avesse una gamba sola, poverina, così scompigliata, con quei vestiti un po' hippy così sciupati, e per giunta senza una gamba. Reggendosi su di una gamba sola, equilibrista, senza l'aiuto di grucce o bastoni, ripeteva ma che vadano tutti al diavolo!, guardando con aria di sfida chi le stava intorno. Ma poi passò ad un Affanculo! biascicato a bassa voce, eppure con odio sufficiente, punto esclamativo, maiuscola e tutto il resto. Si sentì quindi più serena, sebbene esausta, audace e senza tossine, la ragazza-gru.

Fu in quell'istante che lo vide nella fila accanto, mentre stava passando oltre la cassiera. Non era più grasso, nel viso almeno, e neppure più calvo di allora. Ma il corpo magro mostrava una strana pancia che aveva un che di artificiale. E aloni di sudore sotto le ascelle, che macchiavano il tessuto sintetico della camicia bianca a maniche lunghe. Senza eleganza, senza vederla, tentava di infilare gli acquisti nelle borse di plastica, mentre lei, allungando un po' il collo, investigò curiosa: vodka, whisky, campari, pile di sacchetti di salatini, maionese, margarina, salsiccia cruda e sanguigna avvolta in pezzi di giornale, un altro carrello colmo fino all'orlo di lattine di birra, formaggi, paté (forse una festa?), altre scatole di latta, un'infinità di scatole di latta, verdure miste, pasta al pomodoro, tonno. Le borse si rompevano, e le scatole di latta si riversavano sul pavimento, lui si chinava a raccoglierle mentre tentava di firmare l'assegno, e nessuno lo aiutava.

Lo aveva conosciuto molto tempo prima, quando non si era ancora tramutato in quell'urbanoide che le stava ora di fronte nel supermercato, ma era appena un quasi-giovane tornato di recente da anni di esilio politico in Cile, Algeria, dopo un corso post-laurea alla Sorbonne su un argomento che lei non riusciva mai a ricordare con esattezza. Ricordava solo che parlava tutto il tempo di un certo simulacro di una non ben precisata imagérie, le gambe accavallate sul sofà rivestito di un tessuto di cotone stampato di malva e lillà, nella sala dell'appartamento di lei, le cosce strette con forza per proteggere i genitali, come se lei fosse sempre stata sul punto di violentarlo di lì a poco. Parlava e parlava senza sosta di Lacan e Althusser e Derrida e Baudrillard, soprattutto di Jean Baudrillard, mentre lei versava dell'altro vino bianco secco ghiacciato con un grano di pistacchio, contemplava le rose rosse poste al centro del tavolo e si commuoveva nella ammirazione di lui, così giovane, così straniero nel proprio paese, così terrorizzato dal possibile tocco di un altro essere umano su quella pelle bianca priva di amore venuta dall'esilio.

"Tu sì che sai vivere", era solito dirle. Lei sorrideva con modestia, più sarcastica che lusingata. Poco sapeva di quanto lei, tra una traduzione dal tedesco e l'altra, lavorasse come una negra passando stracci imbevuti di alcool sulle pareti, aspirapolveri sui tappeti, raccogliendo tende per la lavanderia, cambiando lenzuola tutto il santo giorno, lavando stoviglie con le sue mani arrossate, che lei guardava malinconica quando lui diceva queste cose, insaponando nel lavabiancheria vestiti quasi sempre bianchi e quasi sempre di seta, dato che non aveva né avrebbe mai avuto una lavatrice; tagliando carote, rapanelli e barbabietole per insalate, rimestando in pentole di argilla con cucchiai di legno, odiava i forni a microonde, per sempre e sempre esausta di tutto quanto. La sua maggiore consolazione era il mangianastri con Astrud Gilberto e Chet Baker, il sapore buddista della loro musica in sottofondo.

Pulita, ordinata, una lavoratrice, quella donna, giorno dopo giorno. E spossata dalla stanchezza e da un amore senza speranza per un uomo che non la vedeva e non l'avrebbe mai vista per quella che era realmente, né l'avrebbe mai toccata. L'ammirava per non sentirsi nel bisogno di toccarla, e le conferiva una superiorità che lei non possedeva, per non sottostare alla necessità di baciarla. Con fare dissimulato, da finto tonto, raccoglieva nomi, numeri di telefono, indirizzi di persone e luoghi probabilmente utili un giorno in Quella Difficile Impresa Di Salire In Alto Nella Vita, vampirizzava ogni singolo amico di lei, soprattutto quanti avevano una qualche specie di potere, editori, politici, giornalisti, proprietari di gallerie d'arte, cineasti, garanti, produttori. Seduttore, insidioso, irresistibile - andiamo a cena insieme una di queste sere, insinuava ambiguo a chiunque incontrava.

Durò tre anni. E mai un orgasmo. Mai si era disteso nudo sul letto con lei nuda accanto. Al massimo si era spinto a sussurrare frasi dolci del tipo resta ferma un attimo così, per favore, contro i vetri di questa finestra, che la luce del crepuscolo ti sta illuminando i capelli e io voglio conservare per sempre nella memoria questa immagine così bella di te. No, lei non era un'idiota. Ma come chi non rinuncia ad angeli, fate, cicogne con bebé, isole greche e happy-end da cenerentola, lei gli voleva credere. Fino a quella notte in cui, un bel giorno, non ne poté più. E gli lanciò addosso bicchieri di whisky, per giorni e giorni gli telefonò ubriaca ogni mattina, lasciò messaggi terribili nella segreteria telefonica minacciando un suicidio, un omicidio, un processo, una vendetta, dandogli del ladro, e se rivoglio le mie cassette di Astrud e Chet è solo perché le rivoglio e basta, frocio impotente che non sei altro, gli urlava selvaggia e irrazionale, con tutte le altre cose che il suo analista, anch'egli esausto di tutta questa storia, le aveva detto non proprio a riguardo di lui, ma di tutti gli uomini di questo mondo: un omosessuale represso diventa acido, figlia mia, se a 35 anni non si è ancora deciso a darlo via. E lui di anni ne aveva 37 quando si erano conosciuti.

Adesso quanti ne avrà? 43 o 44, una bilancia, di quelli che non sanno l'ora in cui sono nati. E quella sua pancia, quella sua Aria Di Chi E' Arrivato Nella Vita, quella camicia sintetica, gli aloni di sudore, i pantaloni a zampa di elefante con la piega, le borsette di plastica del supermercato, quelle meno costose, tre o quattro in ogni mano, mentre stava uscendo curvo e quasi obeso dal supermercato. Dietro di lei, nella coda, qualcuno la urtò con il carrello. La cassiera stava aspettando con un'espressione infastidita in viso e un accento del Paraíba, allora teeeesooooro, assegno, carta di credito o contante? Contante, rispose. E lanciò sul banco il biglietto arrotolato, come se fosse un serpente vivo, pagò le poche compere e uscì di lì: Ausgang.

Là fuori il vento batté sulla sua gonna lunga, facendola svolazzare. Sono senza mutande, si ricordò. E pensò a Carmen Miranda. Ma lasciò che continuasse a svolazzare. Tirò un profondo respiro. Fragole, manghi maturi, monossido di carbonio, polline, gelsomini sui balconi della periferia. Il vento le scompigliò i capelli biondi sul viso. Lei scosse la testa per rimuoverli e uscì a passi lenti in cerca di una strada senza auto, di una strada con alberi, una strada silenziosa in cui poter camminare in tutta calma e solitudine verso casa. Senza pensare a niente, senza nessuna amarezza, nessuna vaga nostalgia, repulsione, rancore o malinconia. Niente al di dentro e al di fuori, se non quel quasi novembre, quel sabato, quel vento, quel cielo azzurro. Quel non-dolore, in fondo.

 

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Traduzione di Bruno Persico