IMMIGRAZIONE ED ESCLUSIONE

 

Bianchi di un altro colore

 

 

Francesco Ciafaloni

 

La natura della cittadinanza è diventato il problema principale della politica o uno dei problemi principali in buona parte del mondo. Certo lo è in Europa e negli Stati Uniti. Parallelamente cresce  l’importanza della scelta tra apertura e chiusura delle frontiere alle merci e agli uomini (ed anche ai capitali: ma quelli non sembra sia riuscito a fermarli nessuno fino ad ora) e della scelta tra esportare produzioni o importare lavoratori.

Si dice xenofobia, razzismo, insicurezza, scontro di civiltà ma si sta parlando di diritti e di reddito; di disuguaglianze enormi e crescenti di diritti e di reddito. La cittadinanza negli stati nazionali è stata una forma, controversa e limitata, di universalismo, almeno nei paesi che hanno una legge di naturalizzazione (l’Italia non ce l’ha ancora)  o che applicano lo ius soli. Ed anche le religioni monoteiste sono state una forma, limitata ai credenti, di universalismo, con le ovvie incompatibilità, gerarchie, guerre.

Oggi classi sociali, religioni, cittadinanze, si mescolano perché le sovranità degli stati diventano più complicate, non solo nell’Unione Europea, e i credenti delle varie religioni si mescolano. Questa complicazione e la separazione degli ambiti del diritto, della forza, dell’economia possono essere una via verso una estensione dei diritti. Una valutazione positiva del cosiddetto interculturalismo, cioè della formazione di un sistema culturale in trasformazione, con nuovi intrecci e una base comune di diritti, ha portato a pensare che, con molto lavoro, si potesse arrivare a una società aperta e regolata, in cui potessero coesistere un sistema universalistico di diritti e doveri e una ampia sfera di libertà: libertà religiosa, di costumi, di affettività, di comportamenti personali. Ma oggi sembra crescere, qualche volta trionfare, la tendenza opposta: quella alla chiusura, alla espulsione o alla soppressione dei diversi, all’uso sregolato della forza. Ci soffermeremo pertanto su tre libri, esempi di studi non di occasione sulla discriminazione nei confronti dei diversi, e sulla loro incontenibile spinta, nei tempi lunghi, dei secoli e dei decenni, in due paesi emblematici per la loro capacità e volontà di accogliere e integrare lo straniero: Stati Uniti e Francia.

Il primo, Whiteness of a different color, è la storia della discriminazione nei confronti degli europei negli Stati Uniti, dalla fine del Settecento ad oggi. È un libro a tesi, un libro cioè che, dall’interno del trionfo economico e culturale degli “etnici” degli americani tra virgolette, gli italiani, gli irlandesi, gli ebrei (di cui anche l’autore fa parte), i polacchi, i russi, i greci, i tedeschi, guarda all’indietro agli infiniti contorcimenti con cui il legislatore e i giudici hanno cercato di escludere dalla cittadinanza e dalle garanzie della legge persone che in nessun modo potevano essere escluse in nome di una precedente condizione di schiavitù, cioè dell’essere o essere stati merce. Di volta in volta l’appartenenza a un gruppo incapace di autogoverno, di democrazia è stata definita in base alla razza, al colore, alla cultura. In nome della cultura sono stati giustificati dalla stampa, ma qualche volta anche dai giudici, rifiuti di ingresso ed uccisioni, linciaggi singoli e di gruppo (un gruppo di sei italiani linciati perché ovviamente colpevoli per appartenenza etnica di uccisioni in scontri di quartiere, come quello del pronto soccorso di Napoli sono ovviamente colpevoli per presenza in ospedale degli scontri di piazza del giorno prima). Il linguaggio della esclusione può cambiare moltissimo a seconda delle teorie scientifiche prevalenti nel periodo – e perciò a fine Ottocento la razza la fa da padrona – ma chi si vuole escludere, cioè gli ultimi arrivati, i poveri, i manovali, quelli con costumi un po’ diversi, è sempre chiarissimo.

Come spesso i libri a tesi non si tratta di una ricostruzione storica veramente soddisfacente. Persone che hanno distrutto il concetto di razza o l’idea della intrinseca differenza del pensiero selvaggio, come Franz Boas e Ruth Benedict, finiscono nel calderone perché usano il termine “caucasico”. E gli Stati Uniti sono un po’ ingiustamente vilipesi, su scala planetaria e secolare, dal momento che il grado di inclusione di noi cafoni meridionali nel Regno delle due Sicilie o in quello di Napoli non era molto buono e i sei italiani ammazzati sono meno di quelli di Aigue Mortes ( per non parlare dei sei milioni di morti delle leggi razziali nostre, europee). Però la ricognizione è spesso sorprendente per il lettore non specialista – fin dove si può stiracchiare l’affermazione che “tutti gli uomini sono creati uguali” – e impone qualche riflessione sulla vastità dei limiti della interpretazione.

Il secondo volume I latinos alla conquista degli Usa di Mike Davis ha un titolo italiano assai meno espressivo del contenuto di quanto non sia l’originale (Magical urbanism) che, col suo riferimento al realismo magico e alla totale compresenza nelle città e nella vita economica e alla quasi totale alterità nei costumi, deve essere sembrato difficile e poco invitante, mentre la conquista fa pensare – quien sabe? – al Che, al Sud che conquista il Nord.

Temo che il libro non parli di questo ma della ripresa, della continuazione di una esclusione. Oggi gli etnici sono diventati importanti, fanno i registi, scrivono i libri e fanno Sesame street in televisione, ma gli ultimi arrivati, i latini che non sanno l’inglese, sono ancora e sempre fuori, o almeno in bilico tra differenza e integrazione, anche se Bush ha imparato qualche frase di spagnolo per farsi votare. Ma l’analisi dei flussi dice che il voto latino non ha determinato un bel nulla.

Il libro di Gerard Noiriel, Le creuset francais, rintraccia invece la storia della esclusione, della sottolineatura della differenza, nel paese dell’Ottantanove. È un libro più vecchio ma molto interessante, e lo citiamo perché è un ottimo retroterra per capire il passaggio a destra delle vecchia regioni industriali e di una parte delle periferie operaie della Francia. Il problema che si pone non può essere risolto sottolineando la positività della differenza in polemica con quelli che si ritengono minacciati. Si può tentare una soluzione per cominciare riconoscendo la presenza crescente degli immigrati, il loro indispensabile contributo ai servizi e alla produzione e quindi dando le risorse necessarie per consentirgli di vivere nella pienezza dei diritti e con tutte le libertà dei cittadini.

Questo vuol dire soldi per le case e per le scuole, una legge di naturalizzazione, una legge sulle libertà religiose, nata come proposta col governo Prodi e morta senza lasciare memoria di sé. Altrimenti siamo nella selva delle intese e Dio ci salvi. E poi bisogna trovare le risorse e una speranza per i giovanotti mal messi e spaventati che vogliono liberarsi dalla loro paura sterminando lo straniero.

 

 

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(Tratto dal quotidiano Il manifesto, maggio 2002)