L'UNDICI SETTEMBRE

- Brano tratto dal romanzo Il passato davanti a noi -

 

Bruno Arpaia



(…) Chi c'era, a Napoli, se la ricorda bene quella fine di agosto del Settantatré. Dice: le cozze. Macché. Vabbè che il mare non era veramente mare, che da Torre a Bacoli ci galleggiavano stronzi, batteri e topi morti, però, per prendere il colera, mica c'era bisogno di mangiare l'impepata o gli spaghetti a vongole: bastava abitare al Pallonetto o nei Quartieri. Dentro quei vicoli, era già come fare un salto di cent'anni indietro, quando le fogne ancora non le avevano inventate. Nei bassi al centro storico, nelle topaie di Montecalvario, Alberto c'era stato l'anno prima, accompagnando il padre a fare dei rilievi nelle proprietà dei monaci dell'Opera Pia della Mercede. Col metro in mano, attonito. seguendo don Andrea che misurava stanze e corridoi per calcolare il canone d'affitto, aveva visto gente che viveva in grotte nobilitate a case, stipate di bambini e zoccole, buie, umide. In una aveva chiesto dove fosse il bagno e la signora aveva aperto l'armadio di cucina mostrando una tazza da cesso incastonata tra gli scaffali dei piatti e dei bicchieri.
"Teniamo solo il water" aveva detto con gli occhi fissi a terra. Suo padre, appena fuori, era sbottato: "Affitto un cazzo... A loro, i monaci li dovrebbero pagare..."
Non era meglio nelle zone interne o in periferia. Le case, uguali e in più ci si mettevano pure i Regi Lagni: antiche fogne, ma fogne a cielo aperto, come fiumi. Quello del suo paese, il Lagno che serpeggiava per il quartiere di San Severino si riversava poi in un lago puzzolente dove sguazzavano felici i bacilli e le zanzare. La Vasca, lo chiamavano, e Alberto. come tutti, c'era andato da piccolo a giocare. ad acchiappare le lucertole e le rane... Per forza, che il vibrione pasceva e si ingrassava, e poi restava chiotto chiotto lì in agguato. Dopo, hai voglia a organizzare, male, le vaccinazioni: era già tardi. Il presidente Leone, quando sbarcò a Napoli. non trovò di meglio che fare il gesto delle corna per scaramanzia. Servì a poco, perché il vibrione se ne fotteva di tutti i suoi scongiuri: trecento contagiati e ventiquattro morti. Ma intanto si manifestava davanti agli ospedali, si andava in corteo alla Prefettura, si discuteva in piazza come nell'antica Grecia. La sera, sulle scale della chiesa, davanti al bar, nei giardinetti senza fiori di fronte al portone del Comune, in centinaia si tirava tardi a protestare. a ragionare sulle colpe e sugli errori, a criticare il sindaco e il ministro, a discettare sui perché c i percome. In piedi su una panca, Tonino Stalin sembrava il più incazzato.
"La colpa è del capitalismo" urlava. "Sono sempre i più poveri a prendersi il colera..."
"Bisognerebbe portargli il vibrione a casa loro, al sindaco, ai ministri agli industriali…" si sbracciava il Cinese affianco a lui.
Era un ragazzo che Alberto e Angelo appena conoscevano. Il nome vero sarebbe stato Livio, ma tutti lo chiamavano il Cinese perché era bassino, tracagnotto, peloso, col viso già da vecchio, i folti baffi che spiovevano sulla faccia schiacciata e gli occhi quasi a mandorla mimetizzati diedro le lenti spesse. Tazzina e Cucchiaino, fra loro, un poco lo sfottevano perché parlava che sembrava un libro aperto, però gliele cantava chiare pure lui, ai rari consiglieri comunali che si avventuravano tra quegli scalmanati.
Mancava ancora un mese per la scuola, perciò quelle giornate Alberto le sciupava sempre uguali: a casa, rispondeva a grugniti a donna Elvira, poi si chiudeva ore in camera a zappare sulla sua chitarra le canzoni più tristi che sapeva, da Francesco Guccini a Leonard Cohen, finché la sera, dopo cena, tornava in mezzo ai giardinetti insieme ad Angelo a punzecchiare Sciù-Sciù che interveniva a spiovere, a fischiare Sansone, l'assessore, che li voleva fare andare a casa perché gli assembramenti favorivano il contagio, a svicolare da Stalin e da Livio che li avevano adocchiati, sgattaiolando veloci dentro il bar per l'ultima partita all'italiana. Alla finfine Alberto, quelle serate in piazza, parlava poco o niente, però ascoltava molto, si costruiva a spizzichi e bocconi un suo sentiero fra le ragioni e i torti, e intanto macinava rabbia, si indignava. Roba da Sant'Uffizio: si andava sulla luna, ma li toccava ancora morire di colera...
Credeva che quello fosse il massimo, il peggio della rabbia, il non plus ultra dell'indignazione. Invece fu l'undici settembre, con le notizie del telegiornale. Erano a cena, sua madre raccontava della zia Titina che si era storta un braccio, Alberto alzava a stento la testa dal piatto di fusilli per lanciare ogni tanto un'occhiata di sguincio alla televisione: altri due morti per l'epidemia, Rumor, il presidente del Consiglio, che farfugliava rassicurazioni, il golpe in Cile... Fu allora che vide i militari pattugliare le strade deserte di Santiago, i carri armati appostati nelle piazze, i caccia che bombardavano in picchiata La Moneda, la colonna di fumo, le fiamme che salivano nel cielo grigio dell'inverno australe. Dicevano che Allende era rimasto nel palazzo con un mitra in mano, non si sapeva ancora se era vivo o se era stato ucciso, ma intanto i militari avevano iniziato ad ammassare gente nello stadio. Alberto era rimasto con i fusilli sospesi a mezza strada fra la bocca e il piatto: quelle immagini lontane, sfocate, in bianco e nero, lo stavano toccando come un dito. Non lo sapeva ancora, ma quell'incendio, quei morti a diecimila chilometri da lui, stavano lentamente piegando la sua vita come un martello che batteva sopra un ferro caldo.
Il resto, si seppe a poco a poco nei giorni che seguirono, quando i giornali e le televisioni raccontarono di Allende suicida nel suo studio, dei morti per le strade, dei campi di concentramento negli stadi, delle persone sequestrate all'alba, dei rifugiati dentro le ambasciate. Se ne fotteva, adesso, Alberto, del colera. Quasi si vergognava a dirlo, però il vibrione e i morti, nella sua testa, si erano ridotti a poca cosa. La sera scendeva ancora in piazza, ma se ne stava seduto fuori al bar, un po' in disparte, prestando stancamente orecchio a Stalin che gettava fuoco e fiamme contro il sindaco, a Livio che lo spalleggiava, all'assessore che li mandava al diavolo e gli augurava di prendersi il vibrione.
"Che fai, non vieni?" gli chiedeva Angelo. "Forza, che sta arrivando il sindaco."
"Più tardi" rispondeva lui.
Niente da fare. Il Cile, il Cile, sempre e soltanto il Cile: come una vite che trapanava in testa, un'ossessione. Forse perché era la prima volta nella vita che aveva visto l'inizio e la fine di qualcosa, forse perché a nessuno piace restare all'improvviso a corto di speranze e di illusioni. A sedici anni, poi, ti sembra tutto irreparabile, ti immagini che il treno della Storia non faccia mai fermate e vada preso al volo: ora l'aveva perso, insieme a tutti i massacrati di Santiago. Provava rabbia, sì, ma anche una tristezza, uno sconforto, un senso di impotenza che gli si era stampato sulla faccia e lo faceva assomigliare a uno appena scampato dalla morte che si stupisce di essere rimasto ancora vivo. Di notte, dormiva a stento, appena due o tre ore, e si svegliava stanco, digrignando i denti, stremato dai nazisti in uniforme nera che lo perseguitavano negli incubi, inseguendolo con i cani lupo nelle case diroccate in cui si nascondeva. Di giorno, appena si faceva l'ora, scendeva alla stazione della Vesuviana per comprare Lotta continua e il manifesto, poi ritornava a casa a leggere e a aspettare le ultime notizie del telegiornale. Il capo dei generali traditori si chiamava Augusto Pinochet Ugarte e prometteva di estirpare il cancro del marxismo dal paese. Allende si era ucciso oppure lo avevano ammazzato? La Cia e le multinazionali ci avevano messo pesantemente lo zampino. Uno di Lotta continua, un certo Hutter, era stato rinchiuso per tre giorni nello stadio di Santiago e adesso raccontava la fame e le torture di dieci, ventimila prigionieri. Come cazzo faceva, Alberto, a non pensarci? Era giustizia, quella?
Allende aveva vinto le elezioni, aveva rispettato la Costituzione, ma ai militari gliene fregava un cazzo. Sempre così, era vero, aveva ragione Antonio Stalin: la colpa era del capitalismo, da Napoli a Santiago il mondo si divideva in "noi" e "loro". Alberto ancora non capiva bene chi era che faceva parte di quel "noi", invece non aveva dubbi su chi era stato ad ammazzare Allende, a mettere le bombe di piazza Fontana, a far cadere l'anarchico Pinelli da una finestra della Questura di Milano, a provocare quei casi di colera: "loro".
Neppure la notizia che le scuole sarebbero rimaste chiuse ancora un mese per l'epidemia servì a restituirgli il buonumore. Aveva rabbia, dentro. Qualcosa la doveva fare. Perciò, quando arrivò quella telefonata di suo cugino Fulvio, disse di sì d'istinto, senza pensarci su, senza nemmeno chiedere il permesso ai suoi: ma sì, ma certo che ci andava. Domani, sì, d'accordo. Mi vieni a prendere tu alla stazione?
Il giorno dopo, in treno, non stava nella pelle. Si alzava, si sedeva, si rialzava di nuovo e camminava avanti e indietro per il corridoio con una sigaretta in bocca e gli occhi che brillavano. Non ci poteva credere: andare a Roma, lui, ad aiutare Fulvio a preparare i materiali per il concerto di sostegno al Cile... Puttana Eva, il meglio che gli poteva capitare, anche se in fondo, da qualche parte, dentro, lo rosicava una preoccupazione: non è che si esponeva troppo? Non è che poi finiva schedato dalla polizia? Ma no, stronzate. E infatti, tremarelle, batticuore, ubbìe, gli passò tutto appena vide Fulvio che lo aspettava alla fine del binario: la barba lunga, un pantalone tutto stazzonato, ma gli occhi, quegli occhi calmi e umidi, quasi da attore, lo rassicurarono. Ecco, si disse Alberto, in fondo non doveva fare altro che comportarsi uguale uguale a lui, perché le cose, a volte, basta pigliarle per il verso giusto e tutto si sistema. La casa, per esempio, dove sbarcò scendendo dalla Cinquecento: antica, bella, grande, in una laterale di via Merulana, però vigliacca se era messa male. Il pavimento traballava tutto appena camminavi più veloce sulle piastrelle sconnesse e sgangherate, gli infissi non chiudevano e stavano invocando la carità di una mano di vernice, sui tavoli e sui muri si era ingrommata una patina di polvere e di unto, in ogni angolo si accumulavano pile di giornali, bicchieri, scarpe, camicie abbandonate. Un caos, un disastro. Eppure Fulvio, Antonello e Rita, vivendo lì, nemmeno lo vedevano. E sì, era così che bisognava fare, come loro: prenderla per il verso giusto, provare a non badare ai piatti un po' incrostati, alle macchie di olio sul divano, alle lenzuola tutte appiccicose, e a concentrarsi invece solo sulla stanza in fondo, piena di luce che la invadeva attraverso le grandi vetrate smerigliate, la stanza dove al centro avevano piazzato la stampante offset. Una signora offset, mica un fottuto, volgare ciclostile: col motorino al posto della manovella, le matrici di zinco e non di carta, manopole e pulsanti che la mattina dopo Antonello ci mise più di un'ora per insegnargli a usare. Soltanto allora Alberto poté sedersi al posto di comando di quell'astronave, anche se Fulvio di tanto in tanto gli buttava un occhio per evitare possibili disastri. Gli altri, cinque o sei facce completamente nuove, chi saliva e scendeva per far la spesa o per andare alla zincografia, chi si accaniva sui tasti di due vecchie Olivetti, e Alberto, intanto, in piedi dentro il rombo che il sole disegnava sul vecchio cotto delle mattonelle, respirando il pulviscolo che volteggiava in mezzo a quella luce, Alberto li a inchiostrare, a caricare la carta nel cassetto, a fissare con cura le matrici, a sistemare in bell'ordine sui tavoli le pagine finite di stampare.
Era un opuscolo dal titolo incolore, Materiali sul Cile, con l'intervista al segretario del Mir, Miguel Enriquez, il manifesto dei Comandos Comunales di Santiago, un saggio di Régis Debray su Allende e poi una spataffiata di quaranta cartelle fitte fitte su "Le radici del colpo di stato e la lezione dell'esperienza cilena per la lotta rivoluzionaria". Ma lui mica le lesse, quelle pagine. Per quattro giorni e quasi quattro notti ebbe soltanto il tempo di badare alla sua macchina, di mettere a registro le matrici o di impilare centinaia di copie negli angoli di casa, mangiando quando capitava e andando in bagno nei momenti morti fra una stampata e l'altra. La notte dormiva tre o quattr'ore, ma pure quelle, preso com'era da un'esaltazione che lo caricava a molla, le trascorreva a rigirarsi in mezzo alle lenzuola, ossessionato dal lavoro che ancora gli restava, dal tempo che stringeva, sognando inchiostri, rulli, pagine pari e dispari, matrici.
Fuori, appena oltre i finestroni e i vetri smerigliati, doveva esserci un settembre di quelli che soltanto Roma sapeva regalare, la luce d'oro vecchio del tramonto che avvolgeva le cime dei platani e i palazzi in un reticolo di ombre e di colori nitidi, l'aria frizzante a spasso sotto un cielo qua e là screziato da nuvole panciute, il ponentino che scorrazzava tutto soddisfatto per le strade accarezzando i fregi dei balconi delle case, ma lui ne assaporò soltanto pochi scampoli, di scappeffuggi, la sera del concerto, mentre stipavano due macchine di opuscoli e si scapicollavano verso il Palasport.
"Sbrighiamoci che è tardi" disse Fulvio.
"Ma che corriamo a fare? Compagni, siamo noi il futuro."
Un tipo simpatico, Antonello, un avvocato del Soccorso rosso. Peccato che ogni tanto parlava come se la Storia gli andasse dietro con il taccuino per consegnare le sue sentenze ai posteri. Roba da matti: compagni, siamo noi il futuro. E non scherzava. Che fare? O rimanevi muto o gli ridevi in faccia. Alberto se ne stette zitto, accanto al finestrino a respirare il vento, a contemplare i marmi bianchi, gli alberi, i lampioni che scorrevano ai lati della Cristoforo Colombo, i grappoli di gente che usciva dal metrò e si avviava verso il Palasport, il sole quasi rosso che si lasciava cadere pigramente verso il mare. Poi basta. Manco arrivati, gli toccò subito dare una mano a scaricare il tavolo e a piazzarlo in fondo in fondo all'atrio, a stenderci con cura la bandiera rossa, a fare quattro o cinque viaggi coi fascicoli tenuti sotto il mento, già zuppo di sudore, a sistemarli per bene sul banchetto, mentre da dentro sentiva già, confuse, le voci nel microfono, Compagni, siamo in tanti, viva la resistenza del popolo cileno... Bellissimo, da brividi. C'era qualcosa, però, che non quadrava.
"Qui in fondo non ci vede nemmeno Occhio di lince" disse tutto incazzato. "Non potevamo metterci più in mezzo?"
"No, non si può. E qui che ci hanno sistemato quelli del servizio d'ordine" gli spiegò Fulvio con gli occhi più da mucca che sapeva fare. "Ora noi andiamo dentro, poi ti daremo il cambio. D'accordo?"
Alberto non trovò nemmeno il tempo di dire sì, va bene, di chiedere "Fra quanto?", che gli altri erano già arrivati nella bolgia che si intuiva più in là, dietro le porte. Soltanto Fulvio, prima di scomparire, si voltò e gli disse: "Mi raccomando, li devi vendere almeno a quattrocento lire... In gamba, eh?"
Una parola. Dal suo paese sperduto in culo al mondo nientedimeno che al Palasport di Roma. Solo. Con cinquecento opuscoli da vendere, la polizia là fuori, gli elmi e gli scudi che scintillavano alla luce giallastra dei lampioni, mentre da dentro gli arrivavano impastate le note di Venditti, gli Area, De Gregori, Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole, e lui nell'atrio a friggere e a fumare, perso fra gli striscioni appesi ai muri, quando tornava Fulvio?, Gaber, Dalla, Sorrenti, Vorrei incontrarti fuori ai cancelli di una fabbrica, e poi gli slogan, forti, ritmati, migliaia di persone che gridavano Lo stato borghese si abbatte e non si cambia, cazzo faceva Fulvio?, Il popolo del Cile prenderà il mitra in mano, e tu compagno Allende non sarai morto invano, prima che dei cileni salissero sul palco con i tamburi, le quenas, le chitarre, il poncho andino, De pie, cantad, que vamos a triunfar, fino al refrain, scandito da diecimila voci, El pueblo unido jamás será vencido, un brivido che risaliva quatto quatto, su, su, lungo la schiena, Compagni, vogliamo ricordare il cantante e poeta Victor Jara, assassinato nello stadio di Santiago, El pueblo unido jamás será vencido, Fulvio dov'è?, mica mi lascia solo?, quattrocento, compagno, però mi manca il resto, già quasi mezzanotte e la stanchezza appesa nelle gambe, e poi gli ultimi slogan, la gente che sciamava, trascinando le barbe e gli occhialini, i jeans e le camicie militari, le compagne coi seni generosi che facevano qui e là sotto i vestiti, stronzo di Fulvio, dove cazzo è andato?, finché Io scorse in mezzo a un capannello che parlava e tutti che pendevano dalle sue parole. Col braccio, gli fece un cenno da naufrago smarrito, e lui, quando lo vide, annuì appena: un poco di pazienza, ora arrivava.
"Allora, quanti ne hai venduti?"
"Diciotto" gli rispose Alberto, a denti stretti, con il sorriso che assomigliava a una candela appena appena spenta. Mica finiva lì, però, mica gliela poteva far passare liscia: abbandonarlo là così, come uno straccio... Doveva radunare tutta la sua rabbia, fare la faccia offesa e chiedergli: "Bello il concerto, eh? Invece io..."
Allora Fulvio gli fece gli occhi dolci e gli passò la mano fra i capelli, come con un bambino, ma Alberto tirò via la testa infastidito.
"E avevo pure finito da fumare..."
"Scusa, davvero. Sono dovuto andare dietro al palco, a una riunione... C'erano gli altri gruppi che volevano piazzare gli striscioni proprio davanti ai nostri..."
"Allora sbaracchiamo? Così magari ce ne andiamo a letto."
Pacioso, sorridente, Antonello si era avvicinato al tavolino strascinando i sandali, col sigaro fra i denti e una ragazza bionda sottobraccio, mentre con l'altra mano non la finiva mai di accarezzarsi e lisciarsi la pelata.
"Andiamo?" ripeté. Aveva fretta, lui, di ritornare a casa. "Vieni, Annalisa."
Era così che si chiamava la compagna bionda. Antonello la prese sottobraccio, raccolse dieci o venti opuscoli e si avviò con lei verso le macchine: più visto, mentre loro si rifacevano un culo a caricare bandiere, tavolo e fascicoli, mentre era tutto un fitto andirivieni davanti ai poliziotti sempre più assonnati. Riapparve solo quando furono pronti, già quasi nelle macchine, con Annalisa che lo fissava e sorrideva in estasi quando parlava e quando stava zitto, quando, tutto impettito, seduto dietro stretto stretto a lei, guardando con l'aria da poeta le luci della Cristoforo Colombo che uccidevano le stelle, non seppe fare altro che ripetere la sua frase celebre: "L'avevo detto, io, che eravamo noi il futuro..."
Alberto, anche stavolta, zitto; anzi, quasi ingrugnito. Ma adesso era perché gli dava ai nervi la faccia da oca di Annalisa che si strusciava addosso ad Antonello, perché lo imbarazzava l'idea che dopo, a casa, quei due se la sarebbero spassata. Meglio non dargli retta, a quei pensieri; meglio seguire gli altri, quelli che si aggiravano più timidi nei vicoletti dentro la sua testa via via che gli sbolliva la rabbia per essere rimasto abbandonato e in gola gli risalivano più nette le emozioni, la folla, la musica, gli slogan... Futuro o no, gliel'aveva data anche lui una mano al Cile, con tanti altri, insieme, e ancora non gli sembrava vero; ancora, a ripensarci, aveva i brividi. Per questo, a casa, appena s'infilò tra le lenzuola appiccicose, si addormentò di colpo, soddisfatto, spalancando le porte alla stanchezza come non gli accadeva ormai da molto tempo, e scivolò da un sogno all'altro fino a mezzogiorno, senza mai digrignare i denti, senza incappare mai nei cani lupo e nei nazisti dei suoi peggiori incubi.
Due giorni dopo, quando tornò al paese, lo vedemmo sbucare sulla piazza con i capelli tutti scarmigliati e gli occhi di un colore vetro sporco come se avesse appena messo il piede giù dal letto, già come un reduce di nessuna guerra. Camminava a fatica sull'ultimo tratto di salita, con la borsa a tracolla, la camicia dell'aviazione sbilenca su una spalla e i lacci delle scarpe da ginnastica slacciati, guardando in direzione di Giacchetta seduto a un tavolo del bar di Serafino. Nel cielo brillante di settembre una brezza dal nord spostava lentamente qualche sparso batuffolo di nuvole, mentre giù in basso perfino le ombre si disegnavano nitide sui bàsoli smangiati della piazza. Fu allora che Stalin si staccò dalla porta del Circolo Operaio e gli andò incontro. Lo puntò dritto, senza girargli intorno come un avvoltoio, e lo raggiunse in mezzo ai giardinetti.
"Ciao, Malinconico."
Parlarono nemmeno tre minuti, poi Alberto si aggiustò la borsa sulla spalla e si avviò ingobbito verso casa. Si fermò un attimo, per salutare Stalin con il braccio alzato.
"Ci vediamo domani" sentimmo che gli urlava.
Subito dopo riprese a camminare con la testa incassata nelle spalle, assorto come se si fosse perso in un labirinto che non era fatto di strade e di sentieri, ma di intricati scampoli di tempo, di
brusche schegge del suo stesso futuro.



(Tratto dal romanzo Il passato davanti a noi, Guanda editrice, Parma 2006.)



Bruno Arpaia è nato nel 1957 a Ottaviano, in provincia di Napoli, e vive in Liguria. Giornalista, consulente editoriale e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana, ha pubblicato i romanzi I forestieri, Il futuro in punta di piedi, Tempo perso (Premio Hammet Italia 1997) e L'angelo della storia (Premio Selezione Campiello 2001, Premio Alassio Centolibri - Un autore per l'Europa 2001).




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