L’ASSENZA DEL SILENZIO E DELL’OBLIO


William Gibson




Il tempo si muove in una direzione, la memoria in un’altra, e noi siamo impegnati a costruire artefatti per contrapporci all’inarrestabile flusso dell’oblio. In realtà, ci contrapponiamo al flusso del silenzio. Erigiamo pietre: le pietre parlano, anche dopo tutti questi secoli. Contro la pressione del silenzio, dell’oblio, contro l’assenza di memoria, schieriamo vari tipi di principi di informazione. I primi elementi di informazione, forse, erano pezzetti di argilla color ocra, il bisonte riprodotto nella risoluzione minima necessaria. La stilizzazione dei graffiti delle caverne non ha perso minimamente la sua efficacia, neanche dopo tutti questi millenni; di quale schermo del mondo odierno potremo dire la stessa cosa nel giro di un decennio? E quei bisonti saranno riconoscibili, inalterati, su qualsiasi piattaforma, qualsiasi mezzo d’informazione dovessimo possedere.

Riecheggianti contro il silenzio, emersi dall’oscurità primigenia grazie a un impulso che ciascuno di noi ha provato, da bambino, disegnando. Riecheggianti in questa cosa che abbiamo sempre prodotto, questo immenso e incredibile meccanismo che conserva l’informazione nei suoi interstizi, una memoria globale, comunitaria, una nostra protesi a cui abbiamo iniziato a lavorare ancor prima di lavorare sul legno, sulla pietra, sull’acciaio o sui materiali genetici. Non ho il minimo dubbio che durante la mia vita questo meccanismo sia cresciuto in modo più strisciante, più potente, pressoché onnicomprensivo. Lo so perché quando ero un bambino il flusso dell’oblio e l’eventualità del silenzio erano ostacolati con minore precisione. Lo so perché la morte era allora una presenza meno costante. Perché non c’era nessun pulsante per il replay. Perché i soldati che morivano nelle Fiandre morivano in bianco e nero e non correvano come correvano gli esseri viventi. Perché il solaio del mondo era ancora in disordine. Perché nelle valli della Virginia della mia infanzia c’erano ancora vecchi che ricordavano un’epoca in cui la musica registrata non esisteva. È raro che ci colpisca quanto è incredibile sentire cantare un morto quando ascoltiamo Elvis che canta Heartbreak Hotel.Ma nel contesto della più lunga vita della specie, questo è qualcosa che si è reso possibile solo qualche momento fa.

Oggi il nostro «ora» è diventato al tempo stesso inesorabilmente breve e virtualmente eterno, e tutto come conseguenza del pulsante del replay. Mentre la capacità di ricordare diventa sempre più condivisa, la storia è considerata in maniera ancor più evidente come un concetto teorico, una costruzione soggetta a revisione. Se come specie ci siamo occupati di arginare lo scorrere del tempo con la creazione e l’aggiornamento di meccanismi mnemonici esterni, cosa succederà quando tutti questi meccanismi, per quanto mi pare di intuire insito nella loro natura, finiranno per fondersi? L’omega di tutta l’esistenza umana potrebbe essere un singolo momento di durata effettivamente senza fine, un infinito Ora. Potremmo avere ben poche scelte in materia, visto che le modalità di memoria accessoria che abbiamo creato durante il nostro percorso evolutivo si sono rese autonome, evolvendosi in una propria direzione.

I cambiamenti più profondi che provengono dall’innovazione tecnologica sono spesso del tutto involontari. Non promulghiamo leggi su come pervenire a quell’Ora digitale, a quel Qui digitale. Non prendiamo quella direzione dopo una necessaria riflessione. Ci muoviamo semplicemente in quella direzione. Il cambiamento sociale è tecnologicamente determinato. Spesso non promulghiamo leggi sulle nuove tecnologie in divenire. Emergono e basta. Attraverso i mercati. E i mercati scoprono da soli come utilizzare le cose. Con un incremento esponenziale della potenza dei computer, e una discesa parimenti esponenziale del loro costo, il nostro oggi cambierà. La terra incognita dismetterà i suoi misteri come mai aveva fatto prima, e in quell’Ora digitale si presenteranno a noi nuovi progenitori. Immagino che, in quell’Ora, l’arte sarà vista sempre più come atto non di creazione ma di curatela.

Il mio collega Bruce Sterling ha detto che il secolo che si allontana alle nostre spalle è stato un secolo di «ismi». Erano basati, pensa lui, sul malinteso fondamentale e fatale che la filosofia ha la meglio sulla progettazione. Non è così. Lui afferma che in un mondo completamente in grado di controllare le sue basi materiali, l’ideologia non è niente più che un velo sottile. La tecnologia in senso ampio: l’abilità di trasformare le risorse, la velocità con cui nuove possibilità possono essere aperte e realizzate, le svariate e diversificate forme di comando e controllo... la tecnologia, e non l’ideologia, sarà l’eredità che ci lascia il secolo precedente. Guidati da un sempre più rapido incremento della potenza di computer e connessioni, e dal contemporaneo sviluppo dei sistemi di sorveglianza e delle tecnologie di localizzazione, stiamo avvicinandoci a uno stato teorico di assoluta trasparenza dell’informazione, in cui lo scrutinio «orwelliano» non è più un’attività gerarchica, dall’alto in basso, ma un’attività resa nuovamente democratica. Come individui perdiamo sempre più livelli di privacy, così come, alla fine dei conti, succede ad aziende e stati. Questo è probabilmente intrinseco alla natura stessa della tecnologia dell’informazione.

Se George Orwell avesse saputo di Bletchley Park, e del lavoro pionieristico che vi svolse Alan Turing e altri decifratori di codici del tempo di guerra, e avesse avuto qualche sentore di dove potevano portare, forse avrebbe immaginato il suo Ministero della Verità dotato di schede perforate e condotti pneumatici, per meglio setacciare le ultime vestigia di libertà di una popolazione ridotta allo stremo. E potremmo anche cercare di immaginare la Stasi della Germania Est dotata di computer in modo che il loro sistema non avrebbe finito per essere sommerso dal peso invincibile delle schede cartacee. Ma in qualche modo non funziona, è inequivocabile che il sistema della Germania Est appartenga al paradigma di comunicazione precedente, quello che Orwell aveva compreso con tanta esattezza .

Che i nostri fratelli ancora più grandi, per il bene della sicurezza nazionale, setaccino mari di dati, ancor più ampi e sempre più trasparenti, può darci fastidio, ma questo è qualcosa con cui aziende e persone hanno già avuto a che fare, e con cui avranno sempre più a che fare. La raccolta e la gestione dell’informazione, a qualsiasi livello, sarà autorizzata in maniera esponenziale dalla natura stessa del sistema, così il sistema sarà globale, transnazionale e, in una versione intrinseca del tutto inedita, non gerarchico. La trasparenza è assenza del silenzio e dell’oblio. Diventa difficile per chiunque, proprio per chiunque, come non lo è mai stato in passato, tenere un segreto.

È qualcosa che vorrei sottoporre all’attenzione di ogni uomo di stato, leader politico e dirigente d’azienda: il futuro, alla fine, vi porterà allo scoperto. Non riuscirete a mantenere i vostri segreti. Il futuro, maneggiando strumenti di trasparenza inimmaginabili, l’avrà vinta su di voi. Alla fine, quello che avrete fatto sarà sotto gli occhi di tutti .

Un mondo di trasparenza dell’informazione sarà per forza anche un mondo dalla delirante molteplicità di punti di vista, attraversato da una semina di false informazioni, dalla disinformazione, da teorie della cospirazione e da un elevato tasso di pazzia. Potremmo anche essere capaci di vedere più chiaramente cosa sta accadendo, ma questo non significa che ci troveremo anche prontamente d’accordo. Orwell fece il lavoro che si era proposto di fare, lo fece con efficacia, in modo eccellente, si dedicò alla creazione meticolosa della nostra più nota visione distopica.

Le distopie hanno a che fare con la realtà tanto quanto ne hanno le utopie. Nessuno di noi ci ha mai vissuto... eccetto, nel caso delle distopie, a causa delle inevitabili e naturali vicende della vita, in qualche posto estremamente sfortunato. Il che non significa che in qualche modo Orwell si sia sbagliato, ma piuttosto che ha avuto ragione. 1984 rimane uno dei tragitti più rapidi e condensati al cuore dei diversi aspetti reali del... 1948, l’anno in cui fu scritto. Se volete conoscere un’epoca, studiate i suoi incubi più lucidi. Nello specchio delle nostre paure più oscure, vedremo svelarsi molte cose. Ma non scambiate quegli specchi per mappe del futuro, o anche solo del presente.




(Brano tratto dal sito di La Repubblica, maggio 2008. Traduzione di Daniele Brolli. )

William Gibson è uno scrittore e autore di fantascienza statunitense naturalizzato canadese, considerato il padre del filone cyberpunk. Nasce il 17 marzo 1948 a Conway, nel Sud Carolina (USA). Suo padre era un benestante imprenditore che aveva fatto successo installando impianti igienici ad Oak Ridge, l'installazione militare dove fu creata la prima bomba atomica. Il giovane William studiò in un collegio di Tucson, Arizona, dove venne a contatto con la mentalità hippy, rimanendone affascinato. Espulso dal collegio per aver fatto uso di marijuana, rientra a casa (la famiglia si era trasferita in Virginia), entrando in contrasto coi familiari, che disapprovavano il suo stile di vita. All'età di diciannove anni si trasferisce in Canada, per evitare l'arruolamento per il Vietnam. Nel 1977 si laurea in Letteratura Inglese a Vancouver, prima di partire per l'Europa, dove vive viaggiando per un anno, grazie ad una piccola rendita data dalle proprietà che gli avevano dato i suoi genitori che gli consentiva, come disse lui stesso, "di fare la fame confortevolmente". Rientra a Vancouver, dove vive ancor oggi, per consentire alla moglie di completare gli studi universitari.

Le opere: Nel 1977 viene pubblicato Fragments of a Hologram Rose (Frammenti di una rosa olografica, compreso nella raccolta La notte che bruciammo Chrome). In questo racconto compaiono i primi elementi che saranno poi ricorrenti in tutta la produzione dell'autore: lo strapotere delle grandi multinazionali in una società dall'economia incerta, bande di disperati che combattono per le strade. L'unica fuga possibile è quella nel mondo della realtà virtuale, in mondi digitali simulati.

Nel 1981 esce Johnny Mnemonic (Johnny Mnemonico, anche questo in La notte che bruciammo Chrome), racconto dal quale è stato tratto l'omonimo film del 1995, che solo in parte riporta la vicenda del racconto. In quest'opera compaiono alcuni elementi che sono tipici del Cyberpunk, in particolare di Gibson. Il corpo umano comincia a comprendere tecnologie meccaniche/cibernetiche, che diventano un'effettiva estensione delle capacità dell'essere umano. Non è un caso che a Vancouver lavorasse in quegli anni Marshall McLuhan, che nelle sue opere (particolarmente in Galassia Gutenberg), aveva iniziato ad esplorare questo aspetto del rapporto tra uomo e tecnologia. In questo racconto compare per la prima volta la figura di Molly, destinata ad essere approfondita nei romanzi successivi, noti come la Trilogia dello Sprawl.

Burning Chrome, altro racconto del 1982 (che dà il titolo all'antologia La notte che Bruciammo Chrome), vede comparire i cowboy dell'interfaccia. Per la prima volta gli hacker entrano da protagonisti nei racconti di Gibson.

Tra il 1984 e il 1988, vedono la luce le tre opere che daranno successo a William Gibson. Si tratta della già citata Trilogia dello Sprawl, composta da Neuromante (Neuromancer), Giù nel ciberspazio (Count Zero), Mona Lisa Cyberpunk (Mona Lisa Overdrive). La lunga trama si svolge nell'arco di quindici anni, con miriadi di personaggi che intrecciano le proprie vicende tra di loro e con il proprio ambiente. Nei tre romanzi è infatti l'ambiente (urbano, notturno e degradato) l'indiscusso protagonista, mentre i personaggi scompaiono e ricompaiono con nomi diversi e in situazioni non sempre facili da ricostruire. Era stato Bruce Sterling, altro maestro di questa corrente letteraria, a definire i rapporti tra l'uomo e l'ambiente in cui vive nella società contemporanea, sostenendo:

"Il nostro posto nell'universo è fondamentalmente accidentale... In questo contesto, l'idea che la natura umana si in qualche modo destinata a prevalere contro la Grande Macchina è semplicemente stupida... Il convincimento antiumanista del Cyberpunk non è semplice ostentazione letteraria per oltraggiare i borghesi. È un fatto oggettivo che riguarda la cultura del tardo XX secolo. Il Cyberpunk non ha inventato nessuno scenario; lo ha solo riflesso" (estratto dalla rivista Isaac Asimov S.F.M. del giugno 1994).

Quindi una descrizione della realtà programmaticamente fredda e distaccata, nella quale gli initeressi delle grandi multinazionali sono quelli che maggiormente incidono sulla vita di tutti. Grandi zaibatzu che diventano personaggi veri e propri, con loro fini da perseguire, secondo le fredde logiche del mercato. I protagonisti umani descritti da Gibson si trovano sempre in condizioni di marginalità, spesso dissociati dalla realtà, e sempre intenti a combattersi a vicenda per le poche briciole che rimangono. Tra questi due estremi compaiono personaggi che pur essendo umani, sono definiti per i propri interessi economici (la famiglia Tessier-Ashpool e Virek). Tutti questi, siano essi multinazionali o personaggi in carne e ossa, compaiono sempre in una doppia versione: quella della realtà e quella della realtà virtuale, del Ciberspazio.

Nel 1988 esce anche il romanzo La macchina della realtà (The Different Engine), scritto con Bruce Sterling. La storia è ambientata nell'Inghilterra vittoriana di metà Ottocento. Il rapporto con la tecnologia rimane centrale, ma i temi trattati e l'ambiente descritto hanno portato molti a vedere in questo romanzo la fine del movimento Cyberpunk (e anche l'inizio del sottogenere Steampunk).

Ma nel 1993 viene pubblicato Luce virtuale (Virtual Light) che riprende l'ambientazione della precedente trilogia. In questa opera Gibson, per così dire, abbassa i toni della narrazione, lasciando da parte gli eccessi di violenza e di abuso di stupefacenti descritti nelle opere precedenti.

Gli stessi elementi ritornano anche in Aidoru (Idoru) del 1996 e nel suo seguito, il poco noto American Acropolis (All Tomorrow's Parties), in cui la trama diventa quasi inconsistente e vengono abbandonate anche le visionarie descrizioni dei viaggi nel ciberspazio, e la Rete descritta è sorprendentemente simile a quella che conosciamo. In questo modo Gibson si sposta verso le tematiche umanistiche di Sterling, con le sue riflessioni tra fisicità e virtualità.

Continuando un ipotetico viaggio a ritroso nel tempo, troviamo il romanzo L'accademia dei sogni (Pattern recognition) del 2003. Ambientato nel tempo del romanzo, è stato più volte definito una lucida visione degli incubi contemporanei.




.
         Precedente             Copertina