SERA PRIMA DELL’APERTURA (1)

A. Z.




Nel mio appartamento faceva freddo. Le stufe non funzionavano, la finestra del soggiorno era storta e non si chiudeva bene, e il freddo delle sere di novembre si faceva sentire. Già da ottobre non mi toglievo il cappotto neppure in casa, e sembrava arrivata l’ora di scaldarsi con un po’ di movimento. Saltai sopra la stufetta, che non era arrivata al primo autunno, e passai la cucina. I piatti sporchi da giorni nel lavabo, e sullo stretto tavolino un paio di piatti e bicchieri, che alla luce opaca della lampadina nuda sembravano polverosi e intatti - e io mi sentivo come se mi osservassi in un appartamento estraneo e vuoto.

Frugai tra le bottiglie in un angolo del pavimento e trovai mezza bottiglia di vino rosso. Mi versai un bicchiere e restai a fissare le assi sudicie dell’impiantito, quindi accesi due fornelli e li osservai espandere il loro calore benefico. Vuotai il bicchiere e lo riempii nuovamente. Era giovedì e i soldi per la settimana erano già spesi. Le serate precedenti le avevo passate tutte al Babylon, un vecchio cinema grande e tetro. Il riscaldamento vi funzionava altrettanto male, ma con due film e una bottiglia di vino le serate passavano molto più velocemente. In genere cercavo di entrare in sala senza che le maschere mi strappassero il biglietto – si trattava di semplici pezzetti di carta gialla, rossa o verde, che con un po’ di fortuna si potevano riutilizzare in altra occasione. Frugai nelle tasche del mio cappotto e trovai due biglieti rossi, scoloriti e ruvidi per tutto il tempo che me li portavo dietro. Il giorno prima avevo finito quelli gialli e verdi, il secondo film era lunghissimo e non ne ricordavo più il finale, apparentemente avevo dormito l’ultimo terzo della proiezione. Tornai in soggiorno e diedi un’occhiata alla sveglia. Erano le otto e mezza ed ero ancora in tempo per lo spettacolo delle nove. Il problema era il vino. Seppur la fortuna avesse voluto che i biglietti di oggi fossero rossi, era piuttosto improbabile che riuscissi a resistere per due ore nel cinema non riscaldato. Guardai ancora l’orologio. Il tempo bastava giusto per una capatina da Sebastian, nella speranza che avesse un po’ di vino e mi accompagnasse al cinema. L’appartamento di Sebastian era di strada per il cinema, e se non lo avessi trovato in casa c’era ancora Annett, un po’ più avanti. Se non altro il movimento mi avrebbe riscaldato un po’.

In cucina ingurgitai il vino residuo, poi spensi il gas e la luce. Mi assicurai di aver preso le chiavi e mi chiusi la porta alle spalle. Appena accesi la luce sul pianerottolo mi ricordai di aver dimenticato accesa quella del soggiorno. Esitai un attimo, ma poi scesi le scale, attraversai il cortile e uscii sulla strada deserta. Da tutta l’estate, con l’apertura della frontiera ungherese verso l’Austria, era in corso una fuga costante verso occidente, e le assenze cominciavano a farsi sentire. Circa un anno prima era andata via Leonore. L’ultima volta l’avevo incontrata a una festa d’addio di qualcuno che né io né lei conoscevamo bene. La festa si teneva in un grande appartamento abbandonato nella parte bassa della Schönhauser. La luce delle scale non funzionava. Attraverso il portone aperto si poteva riconoscere in una gabbia di fil di ferro un vecchio ascensore, che doveva essere fuori servizio da anni. Il tetto della cabina era sepolto sotto montagne polverose di immondizia. A tentoni raggiunsi il secondo piano. La porta era socchiusa, ma l’appartamento era talmente affollato che riuscii a stento ad intrufolarmi dentro. Un calore umidiccio e il fumo mi sferzarono contro. Le finestre erano appannate dal vapore e le persone intorno avevano il cappotto addosso e un bicchiere in mano. Il vecchio impiantito era scivoloso per gli alcolici versati e ingobbito. Mi intrufolai nella sala principale guardandomi intorno. Non conoscevo nessuno. Sulla sinistra c’era uno spazio vuoto in prossimità della parete, e supponendovi il tavolino delle bevande mi feci spazio in quella direzione. In effetti il tavolino era costituito da due assi di legno appoggiate su due pile di casse di birra. Mentre tutto intorno si librava il rumore delle conversazioni, io mi versai del vino bianco rumeno, quindi scoprii Leonora. Era appoggiata alla parete non lontano dall’improvvisata tavola delle bevande e sembrava molto sola. Leonora non amava l’alcol e in questo era quasi un’eccezione tra le mie conoscenze. Non sembrava conoscere più persone di me. Mi mossi in sua direzione.

“Leonora!”

Lei sollevò la testa e guardò miope e distratta verso l’alto.

“Ciao! Hai visto Sascha?” Scossi la testa. Il suo small-talk consisteva principalmente in sfoghi e imprecazioni, e veniva preannunciato da una domanda intorno a terzi in quel momento assenti – una strategia inconsapevole per allontanare l’attenzione da sé. Io preferivo bere svergognatamente per scaldarmi.

“Voleva venire anche lui?” mi informai. La sua risposta consistette in una generica imprecazione contro tutta la società andata in malora. Il suo sguardo abbracciò i presenti accorsi. Non riuscivo a ricordare una festa in cui Leonora non era apparsa scontrosa e di cattivo umore. D’altra parte le sue puntuali presenze in simili occasioni stavano a dimostrare l’esatto contrario.

“Torno subito. Puoi tenermi un attimo il bicchiere?” Mi mossi in direzione del bagno. La porta non era chiusa a chiave, e quando la aprii il trio si voltò per un attimo in mia direzione. Un ragazzo biondo era seduto nella vasca da bagno, e due ragazze si occupavano di lui su due piani diversi. I loro occhi erano acquosi. Chiusi nuovamente la porta e mi rimisi in marcia verso la sala. Nel momento in cui passavo per la cucina quasi vuota, qualcuno prese fuoco. Ci fu un’alta fiammata, la parte sinistra del viso venne illuminata per breve tempo dalla barba e dai lunghi capelli che divampavano. Uno dei presenti si avvicinò a lui. Passai oltre quella scena che mi appariva come una moviola bizzarramente rallentata. Raggiunta Leonora, presi nuovamente il mio bicchiere.

“In cucina a qualcuno gli si è appena incendiata la parte sinistra della testa” rilevai. L’affermazione non apportò alcun cambiamento al suo bel viso imbronciato.

“Questi imbecilli” disse guardandosi intorno.

”Invece a me questo posto non dispiace” dissi io, sparendo in direzione delle bottiglie. Quando tornai, Leonora stava scambiando un paio di parole con qualcuno. Offriva un’impressione fredda e competente, dovuta probabilmente alla sua sobrietà. Il suo interlocutore portava il cappotto sulle spalle, i capelli cominciavano a diradarsi, avrà avuto una cinquantina d’anni. Dopo un po’ l’uomo rivolse nuovamente la sua attenzione ad altri convenuti.

“Forse me ne andrò all’ovest” disse Leonora.

“Buona fortuna” dissi io, buttando giù un sorso.

Quella sera non restammo molto più a lungo. Quando fummo in strada, alla luce arancio-sporca dei lampioni, l’incrocio pareva morto, come sotto una cupola.



Traduzione di Antonello Piana.

 






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