MIELE & GIRASOLI


(Ascoltando Nara Leão)


Caio Fernando Abreu



A Nelson Brissac Peixoto



1

 

Come in quel racconto di Cortázar – si incontrarono al settimo o all'ottavo giorno di abbronzatura. Settimo o ottavo perché era magico e giusto che si incontrassero, Bilancia, Scorpione, in quel preciso momento in cui l'io riconosce l'altro. Si in­contrarono, ecco, in quel giorno in cui il bianco della pelle urba­na comincia a cedere spazio al dorato, il rosso si stempera pro­gressivamente in bronzo, e denti e occhi, verdi dal tanto fissare l'orizzonte infinito del mare, scintillano come quelli di un felino che spia tra i cespugli. Tra i cespugli, si guardarono. In quel mo­mento in cui la pelle impregnata di sale comincia a chiedere sete chiare, cotoni puri, lini candidi, e la contemplazione del pro­prio corpo nudo rivela spazi ombrosi sotto i peli là dove il sole non riesce a penetrare. Brillano nell'oscurità, questi spazi, lumi­nescenti, desiderando altri spazi simili su quelle pelli che stanno ugualmente mutando. E intorno al settimo, ottavo giorno di abbronzatura, far scivolare la propria mano su queste superfici di oro bruno provoca quel piacere solitario, quasi perverso, se non fosse così innocuo, di considerare quella carne splendida.

Si guardarono tra le palme – carnivori, ma sazi, quindi sereni – per la prima volta. Come animali nascosti in mezzo ai cespugli ombrosi nei quali all'improvviso si convertì l'azzurro cielo rotondo, di satin, il verde mare, pietra semipreziosa, quando si guardarono. Lei a galla oltre la fascia in cui si infrangono le onde, dove la loro schiuma non è più d'intralcio a chi voglia contemplare i propri piedi confusi con la sabbia bianca del fondo del mare. Con gli occhi chiusi, distesa di schiena sull'acqua, costume nero, capelli sparsi intorno, mani aperte, gambe divaricate, come se stesse scopando con il sole. Solo la bocca chiusa rivelava una certa durezza, quella boc­ca che si spalancò spaventata quando lui arrivò nuotando dalla spiaggia, la testa affondata sott'acqua – e involontariamen­te urtò contro di lei.

Successe così: lei stava galleggiando senza ritegno, viag­giando ancor più lontano di quelle navi che verso sera incro­ciavano l'orizzonte, dirette verso luoghi sconosciuti. Quando arrivò lui, una bracciata dopo l'altra, un po' sgraziato, un po' selvaggio, d'un tratto, con il braccio proteso più in avanti, una mano toccò involontariamente, e per questo in modo un po' brusco, la coscia di lei. La ragazza si contrasse, spugna ferita, proiettò il busto e apri gli occhi un po' iniettati di sale, di mare, di luce. Anche la mano di lui si contrasse, e i due rimasero a guardarsi, completamente fradici, dritto negli occhi, il sole infuocato di quasi mezzogiorno, l'estate a mille. Spavento di pantera, leopardo, come ben sapete, in quello sguardo che, al di là di ciascuno dei due, abbracciava un mare immenso. Finché lui non disse:

– Scusi.

E lei rispose:

– S'immagini.

Come se non sì fossero affatto spaventati. Ipocriti, socievo­li, due persone che trascorrono quindici giorni di vacanza su una spiaggia qualsiasi delle Hawaii o di Itaparica, sì stavano sorridendo benevoli, sotto i capelli inzuppati, fingendo che tutto fosse a posto. E lo era, certo. Lui si allontanò nuotando. Lei continuò a galleggiare. Indifferenti. Spingendosi al largo a nuo­to, verso quei velieri che non erano reali ma parte dì un pae­saggio disegnato e anche un po' kitsch, proprio come quello che sto descrivendo ora – lui si guardò indietro e la vide così come lei se ne stava prima, solo che ora, dopo averla già vista, la visione era artificiale: occhi chiusi, braccia e gambe divaricate, totalmente rapita come se stesse scopando con il sole. E mentre lui si allontanava nuotando, un po' sgraziato, un po' sel­vaggio, una bracciata dopo l'altra, la testa affondata sott'acqua, anche lei aprì un occhio. E lo spiò. Lui si stava allontanando da lei a nuoto, un sasso in mezzo alla strada 1 , si ritrovò a pensare, perché era una donna con un certo bagaglio di letture, lei. Ma un sasso, rifletté, che lancerebbe lontano con la punta della scarpa, se non si trovasse con i piedi nudi affondati nell'ac­qua. Lei agitò i piedi nudi affondati dentro l'acqua tiepida.

Luogo comune, sogno tropicale: non è eccitante vivere?



2

Si incontrarono di nuovo la sera stessa. Ma stavolta fu diverso. Lui indugiò un po' più a lungo del solito di fronte allo specchio, tramando sul corpo appena uscito dal bagno una camicia bianca e pantaloni azzurrini, entrambi ben larghi. Ma non stava assolutamente pensando a lei, né a nessun altro mentre sì guardava, lo garantisco. Quindi andò a cena al risto­rante dell'hotel, quei piatti dì insalata decorati con banana & ananas, pappagalli e tucani appollaiati su un trespolo al di so­pra dei soufflé, come in un film di serie B, forse addirittura di serie C, e se d'un tratto fosse apparsa Carmen Miranda a insce­nare un rapido numero sulla scalinata, non si sarebbe stupito nessuno. Lei non ci mise molto. Urbana fedele al nero, buttò la seta di una camicetta sul vecchio jeans mezzo consunto, e si dette un certo tono di aspettativa – in quel momento, francamente, neppure lei avrebbe saputo dire di che – quando ag­giunse un minuscolo filo di perle, quasi invisibile. E si lanciò di lato i lunghi capelli con un rapido gesto femminile, tanto fem­minile che è uno dì quei gesti per cui vanno matti i travestiti.

Quindi scesero. Si fa per dire, perché di scale non ce n'erano, proprio no, adesso non esageriamo. Erano come dei bun­galow disposti uno accanto all'altro, e per arrivare al ristoran­te si passava da una specie di corridoio-veranda ingombro dì chincaglierie artigianali, con reti appese tra le colonne ad ar­co. Se proprio lo volete sapere, c'erano anche cesti di vimini, pesci impagliati appesi alle pareti dipinte di bianco, oltre a grandi vasi di ceramica – che inevitabilmente ricordavano la fata Morgana e Ali Babà – strategicamente disseminati lungo il percorso. E morettonì in pantaloni bianchi e petto nudo che suonavano la chitarra sdraiati nelle amache, sì, neanche quelli mancavano. E ragazze brune con i capelli sciolti, i fiorellini stampati sui vestiti, che si muovevano con tale naturalezza tra le ceramiche che tutto quanto sembrava autentico. Un am­biente rustico: tutti bruni, ardenti, ancheggianti, ecologici, alle dipendenze dell'hotel. Avanzarono camminando per que­sto corridoio, lui vestito di bianco, lei di nero, fino a entrare in quello che chiamavano, con una certa pompa che però convinceva solo in parte, Il Grande Salone.

Non si incontrarono subito. Lei si sedette a un tavolo sulla sinistra, con la Professoressa Di Scuola Media In Fase Di Re­cupero Dall'Amara Separazione, la Segretaria Del Manager Che Sbava Per Farsi Uno Di Quei Figoni Stratosferici e la Vec­chia Zia Zitellona Che Ne Ha Piene Le Scatole Di Fare La Ba­lia Ai Nipotini. Lui si mise a un tavolo sull'estrema destra – ideologie a parte – accanto alla Coppia In Piena Seconda Lu­na Di Miele Faticosamente Conquistata e al Giocatore Di Ba­sket In Cerca Di Un'Esistenza Più Naturale. Conversando, tra il soufflé di gamberetti e il punch dì champagne – perché era un hotel a cinque stelle, quello – lei citò con un certo successo Ruth Escobar, Regina Duarte, un articolo della rivista Nova e si avventurò con Susan Sontag, ma li nessuno la seguì. Nel frat­tempo lui stringeva tra le mani il secondo pacchetto di Marlbo­ro c con una certa pigrizia prendeva le parti di Paulo Francis, ma convenne che i ministeri, sia della cultura che dello sport o istruzione, non erano più quelli di un tempo. E oltretutto sen­tiva nostalgia, quello sì, delle automobili Aero Willys.

Si trovarono faccia a faccia all'ora del dolce, noce di cocco a scaglie e mousse di banana. Questa volta fu lei a urtarlo. Lui allora la guardò con gli occhi un po' spossati di chi sta sopportando una serata estremamente noiosa e incrocia una persona già vista tempo prima. Capelli raccolti sulla nuca, cami­cetta di seta nera, jeans logori, una ragazza con gli occhi di chi sta sopportando, come meglio può, una serata estremamente noiosa. Solo in quel momento lui ricordò vagamente di averla già vista da qualche parte. E lei riconobbe in quell'uomo dai capelli scuri, il naso un po' spelato sulla punta, proprio il tipo che l'aveva urtata in mare, solo che adesso era vestito, e i suoi capelli erano asciutti. Lei sorrise, perché era quello il suo mo­do di fare, così, un po' provocatorio, e disse:

– Adesso siamo pari.

Un po' lento, come di solito sono gli uomini, che siano in vacanza o meno, lui bofonchiò:

– Eh?

E quando lei chiese permesso e lui si scostò un poco, fu al­lora che, vedendola di spalle, che apparivano fin troppo eret­te e alquanto tese, lui riconobbe la ragazza-della-boa e disse:

– Come va?

E lei rispose:

– A meraviglia.

Poi si servirono, mangiarono, e si annoiarono per il resto della sera, che non era molto lunga – a meno di non voler sprofondare in paludi di daiquiri per poi chiamare con il tele­fono, senza alcun problema, uno di quei ragazzi dai pantalo­ni bianchi, senza la chitarra, ovvio, o una di quelle ragazze dal vestito a fiori stampati. E inventarsi così una storia qualsiasi che sarebbe poi finita con un assegno in meno nel libretto e, chissà, in una specie di piacere sudaticcio e, si spera, molto – o anche solo un po' – selvaggio. Ma non era quello che volevano. Quella sera, in quel momento, in questa storia: decisamente no. Si osservarono con fare distratto, da lontano, pre­sero un caffè, fumarono una sigaretta, salutarono i rispettivi commensali, si sdraiarono un po' sulla veranda al suono di è-dolce-morire-sul-mare o la-mia-zattera-se-ne-va-per-il-mare.

E poi, delicatamente, se ne andarono a dormire.

Da soli.



3



Prima di addormentarsi, lui fumò tre Marlboro. Lei prese mezza compressa di Dienpax. Lui sfogliò una biografia di Dashiell Hammett, proprio fottuto, poveretto, pensò, e Lilian Hellman sarà poi così vipera? e spense la luce, si girò dall'altra parte, tentò di farsi venire il cazzo duro tra le lenzuola che emanavano, pensò, un odore di alghe, ma le alghe non hanno odore, concluse, be', di una sostanza verde qualsiasi, allora, e poi si mise a dormire tirandosi una sega senza oggetto, pura mania. Lei aprì Margaret Atwood, ma com'era lenta tutta quella storia di signore in rosso, poi Doris Lessing, ma che schifezza la storia di quella vecchia che abitava in un basement, allora spense la luce e senza volerlo pensò a Carlos, ma ormai non le arrivava niente, nemmeno un rimasuglio di emozione. E così si mise a dormire, rannicchiata nella propria pelle bru­ciata dal sole. Così meraviglioso & riposante, pensarono am­bedue poco prima di addormentarsi.

Il mattino seguente, stendendo il celo da mare, felpata ban­conota gigante da un dollaro, lei scrutò in tutte le direzioni da sotto i ray-ban da gatta — non che stesse cercando qualcuno — finché lo individuò, senza volerlo, a pochi metri da lei. Un uo­mo, ebbene sì, con un po' di pancetta, niente di grave, ma di spalle larghe, gambe robuste, mani sui fianchi. Arditamente solitario. Lui la stava guardando, pura coincidenza. Lei sorri­se, pavloviana. Lui alzò la mano. Anche lei alzò la mano. Fer­me così a mezz'aria, le loro mani sembravano dire qualche cosa come ehi, anche tu qui. Una cosa qualsiasi, senza molto senso. Meticolosa, fissata con i prodotti naturali, lei si passò l'urucum sulla pelle, quindi si distese spalle al sole. Lui, invece, senza crema né olio solare, sì sdraiò di pancia sulla nuda sab­bia (con tutti quei parassiti, le micosi, sant'Iddio), perché così sono gli uomini, pensò, tanto rudi. E le venne un fremito.

Fu in questo fremito che capì.

Lui capì quando, sdraiato a pancia in giù, sotto il filo sin­tetico degli slip neri, il suo cazzo si fece più duro. Scosse lie­vemente le natiche, attento a che nessuno notasse, in un mo­vimento di entra e esci, sapete com'è, di un qualcosa di umi­do. E nel frattempo si guardavano. Lei, da dietro i ray-ban da gatta; lui, da dietro le sopracciglia aggrottate e le palpebre contratte per il sole sempre più forte.

Obliquamente, ciascuno alla sua maniera, cominciavano a capire.

Passò un negro enorme a vendere bibite. Lui prese una lat­tina di birra, un po' burino, pensò lei. Lei si prese un succo di limone, molto chic, pensò lui, anche in un bicchiere di plasti­ca. Poi lei quasi si addormentò sotto un sole sempre più caldo, alcuni ricordi si mischiavano alle fantasie, e stava addirit­tura per resistere al sonno quando vide la Segretaria Del Ma­nager avvicinarsi con uno Scioccante Tanga Tigrato, così preferì sprofondare del tutto in quell'intontimento sudato che ri­portava alla memoria il nome di un uomo, alcune delusioni, stupori, flashback, lei con una gonna a pieghe color blu, una professoressa dal naso enorme che diceva tu andrai lontano, bambina mia. E lei lontano ci sarebbe andata, sì - in Madaga­scar o a Bali, dove avrebbe scritto un libro radicale su La Sag­gezza Che Le Donne Occidentali Hanno Conquistato Dopo La Grande Delusione Da Tutto Uomini Compresi.

Improvvisamente, perché era successo qualcosa nel suo campo visivo, aprì gli occhi. Ricoperta di sudore, imbambola­ta come una ragazzina con una gonna a pieghe color blu, libri aperti contro i piccoli seni. Tra due cosce virili, pelose, muscolose, vide dapprima la cresta del mare e un surfista che cavalcava le onde, ma la scena era come racchiusa in quella cornice che, solo dopo un certo tempo, portandosi la mano alla testa, si accorse che erano due cosce di uomo. Lui la guardò: eh?

Fermo accanto a lei, la mano sinistra sul fianco, la destra sugli occhi per proteggersi dal sole, lui la guardava. Quella don­na non tanto giovane, stesa di schiena su un salviettone bian­co, il viso rivolto verso il sole. Era la seconda volta che la vedeva così, col viso rivolto verso il sole. Quando si accorse che lei lo stava guardando, fletté le cosce appoggiandosi a poco a poco con tutto il suo peso sui piedi arcuati fino a trovarsi quasi al livello di lei, stesa sulla sabbia. Senza grande stile, un po' troppo scontato, ma in fondo era tutto molto estivo, non aven­do altri argomenti c senza sapere bene perché, lui le chiese:

–Come va?

E lei rispose:

– Benissimo. E tu?



4



Conversarono, all'ottavo o al nono giorno. Fecero un ba­gno insieme, prima. Poi lei ebbe sete, lui le offrì un altro suc­co di limone, e si prese un'altra birra. Sdraiati sulla sabbia, uno accanto all'altra, chiacchierarono. Se proprio volete ve lo rac­conto, ma non è niente di originale, ve l'assicuro. Lei era un qualcosa del tipo Psicologa Che Sognava Di Scrivere Un Li­bro; lui, un qualcosa del tipo Alto Funzionario Di Banca Con La Voglia Di Mollare Tutto Per Andare A Vivere Su Una Barca Come Amir Klink. Lei, che quasi non fumava, accettò una sigaretta. E disse che le piaceva Fellini. Lui concordò: un casino. Con sua sorpresa, lui accennò a Fassbinder. Ma lei andò oltre, e replicò con Win Wenders. Lui allora si intimorì un poco, indietreggiò e cercò di bloccarla con Bergman. Lei dis­se ah, ma poi andò ancora più avanti radicalizzando con Philip Glass. Lui disse non ho visto il concerto, e cominciò a di-scorrere di minimalismo: uno a zero per lui. Lei ne approfit­tò per fare un'ampia e alquanto tosta digressione su un qualcosa del tipo Identità Dell'Estetica Minimalista Con Il Feeling Della Bossa Nova. Lui ascoltò, sbalordito: uno a zero per lei.

In pareggio, si ritrovarono su João Gilberto, che ambedue ascoltavano solitari nei loro piccoli ma molto ben arredati ap­partamenti urbani, quando cullavano l'idea di aprire il gas, buttarsi dalla finestra o tagliarsi le vene, e non avevano nessu­no con cui svegliarsi la mattina. Si ritrovarono a tal punto che, a mezzogiorno inoltrato, lei accettò addirittura una birra. Leg­germente storditi, ma tanto felici, rimasero a cantare O pato, mentre tutti quegli Atleti Disposti A Tutto Per Un Corpo Sempre Più Perfetto, Gay Fuggiti Dalla Paranoia Urbana Dell'Aids, Signore Attempate Eppure Ancora Scopabili e via di seguito, si ritiravano in vista del pranzo. Il sole bruciava e bru­ciava. Allora lui vide una barchetta che scivolava sul soave az­zurro del mare 2 , e la mostrò a lei che pure la fissò, e i due la indicarono col dito, e risero, e il sole non sembrava più così ardente — era l'ottavo o il nono giorno di abbronzatura. Quel giorno in cui il colore bruno domina già sulla pelle e, senza shock, sì possono togliere i ray-ban, come lei fece, per fissare lui o qualcun altro dritto negli occhi. Che erano tutt'un sorri­so. Era tutto così tropicale, e loro in vacanza e morivano dalle risate, dicendo allora ci si vede, senza fretta, salutandosi sulla porta dei bungalow, quello dì lei era il numero 19, lui se lo stampò bene in mente. E ciascuno andò a farsi il suo bagno di acqua dolce.

Lo scoprirono la notte, ballando al suono di Love is a Ma­ny Splendored Thing. All'inizio un po' staccati, poi sempre più vicini man mano che il maestro dell'orchestrina tendeva un'imboscata dopo l'altra con i Beatles, Caetano e Roberto Carlos. Insieme cantarono Eleanor Rigby, erano tutti e due so­pra i trenta, e lei si ritrovò all'improvviso tutta un brivido al voglio-cavalcare-per-tutta-la-notte, e appoggiò la testa sulla spalla di lui. Lui rinforzò la presa intorno ai suoi fianchi. E re­starono così, a ballare mezzo storditi, sedendosi ogni tanto per parlare di Pessoa, Maísa o Clarice. Scoprendo, individuan­do, assediando a poco a poco.

Lui cercava di dimenticare una donna di nome Rita. Man mano che il whisky diminuiva nella bottiglia, Rita si confon­deva lentamente con un'altra che si chiamava Helena, e lui ri­peteva come-ho-amato-quella-donna-mai-più-mai-più, mentre lei sentiva una certa antipatia, ma non disse nulla, cresciu­ta e matura ripeteva vedrai-che-passerà-questione-di-tempo-non-preoccuparti. Lui provò una certa sorpresa quando lei pronunciò il nome dell'uomo di prima, e di altri ancora, Ale­xandre, Lauro, Marcos, Ricardo – ah, i Ricardo: dei buoni a nulla – e anche lui sentì una certa antipatia, niente di grave, era normale, tempi moderni, mero confronto di delusioni amorose. Parlarono allora delle passioni, dei tradimenti, dei vuoti e di tutte quelle cose che accadono nel nostro cuore, e di tutto e di niente. Tornarono a ballare. A lui sembrava tanto bello appoggiare il viso nella curva del suo collo. A lei sem­brava un poco forte esibirsi così con un uomo in fondo scono­sciuto appoggiato in quel modo al suo collo, ma accostava sempre più il bacino al bacino di lui – il ventre, il ventre, ripe­teva, provando mentalmente alcuni passi di danza, e-uno-e-due-e-tre, un uomo tanto abbandonato e lindo lindo che profumava non sapeva ancora se di Paco Rabanne o di Eau Sau­vage, o sarà forse Phebo? profumo di uomo vero, decoroso, e vaffanculo il resto: che in fin dei conti erano in vacanza. E liberi. Se non che quel virus maledetto esige prudenza. Lei lasciò che la sua mano scendesse fin sotto i suoi fianchi. E a un colpo più energico del batterista, in un volteggio che accom­pagnarono insieme, lei gli disse:

– Lascia che mi prenda cura di te.

E lui rispose:

– Certo.



5



E così attraversarono i giorni, che non erano poi più tanti. Quattro, cinque, neanche una settimana. Camminavano scalzi sulla sabbia, la notte, in riva al mare – lo giuro. Lentamente, le mani si toccavano: la tua è così affusolata, la tua così forte. Lui non voleva entrare in un'altra storia, perché faceva male. Lei non voleva entrare in un'altra storia, perché faceva male. Si era conformata al suo destino di Donna Totalmente Libera Eppure Profondamente Incompresa Che Ac­cettava L'Inevitabile Solitudine. Lui era assolutamente sicuro della sua scelta di Uomo Indipendente Che Non Ha Più Bisogno Di Tutte Quelle Stronzate Dell'Amore. Camminavano così, ricordando insieme i versi di canzoni della bossa nova. lei imitava Nara Leão: se-qualcuno-chiederà-di-me. Lui Dick Farney: nelle-mattine-tu-sei-la-vita-che-canta. Non sapevano niente di punk, dark, neon, cult, noir. Erano così antichi mentre camminavano mano nella mano su quella sabbia luminosa, soffice da calpestare quando i piedi vi affondavano dolcemente. Carne di aragosta, crema, neve. E stato bello incontrarti, un angolino, una chitarra 3 .

Si baciavano poi, con un certo ardore eccessivo, sulla por­ta del bungalow di lei. O di lui, quando beveva troppo e non riusciva a reggersi, ma era una cosa tollerabile, anche se suc­cedeva un po' troppo spesso. Sulla bocca, si baciarono solo tre volte, o al massimo quattro. La luna era così piena, e loro così timidi. Con la lingua, una volta sola. Un po' impacciati – lui aveva un ponte fisso sul lato superiore sinistro; lei, un perno che le teneva saldo un premolare sul lato inferiore destro. Lui la trovava così degna & superiore, lei lo trovava così ele­gante & rispettoso. E pensavano: è solo una piccola storia estiva che non porta da nessuna parte, un passatempo. Se i suoi amici fossero stati lì, gli avrebbero detto ma scopatela su­bito, sarai mica un coglione. Se ci fossero state le sue amiche, avrebbero giocato con lei alle streghe di Eastwick , disquisen­do sui profumi, le misure, investigando i saldi sul libretto degli assegni. Ma non c'era nessun altro, nella realtà: lui la salu­tava o lei lo salutava. Tutto qui. Poi a dormire. Allora avreb­bero sognato l'uno dell'altra nell'oscurità dei loro bungalow a cinque stelle e antenna parabolica.

Lei si stende supina sul letto – pensava lui – le sole mutan­dine addosso. Ha dei piccoli seni che io premerei tra le mani, come chi afferra due mele di quelle verdi verdi. Mi allungo so­pra di lei, sprofondo la testa sulla sua spalla. Lei mi passa la mano destra dietro la schiena, mi lambisce l'orecchio con la lingua, fa scivolare la mano lungo la mia schiena, graffia sen­za far male, ha le unghie corte, scende fino al mio sedere, al­lora inizia a sfilarmi gli slip, sento il mio petto premuto con­tro i suoi piccoli seni, mentre lei continua a sfilarmi gli slip, lentamente, e io comincio anche a sentire la pressione del mio pene contro il suo ventre, allora lei dice amore-amore e quan­do gli slip arrivano alle caviglie, con un calcio li lancio in mez­zo alla stanza e rimango completamente nudo contro di lei che è quasi nuda, perché io intanto le sto sfilando le mutandi­ne, lentamente, mentre dico: tu sei mia madre, sorella, sposa, amica, femmina, amante – quanto ti amo.

Lui viene sopra di me – pensava lei – mentre lo attendo distesa sul letto. Sprofonda su di me come un neonato che vo­glia poppare dal mio seno che allora drizzo, offrendogli la punta indurita. Mi passa la mano sulla schiena, che inarco un poco, perché mi possa afferrare ai fianchi mentre sprofondo ancora di più nel suo corpo, gli sfilo lentamente gli slip fino a che con un calcio non li lanci in mezzo alla stanza; intanto la sua mano sui miei fianchi mi avrà sfilato le mutandine per poi lanciarle in mezzo alla stanza. Ci stringiamo allora l'uno con­tro l'altra, completamente nudi, mentre lui penetra in me, soa­vemente, e mi dice sei la donna che ho sempre cercato nella vita, e io gli dico sei l'uomo che ho sempre cercato nella vita, e ci affoghiamo l'una nell'altro, e ci bagniamo scambiandoci salive e umori mentre dico: tu sei mio padre, fratello, marito, amico, maschio, principe azzurro – quanto ti amo.



6



Al termine dei quindici giorni erano completamente abbronzati. Fecero un bagno: tra una bracciata e l'altra, lei disse che le mancava l'Avenida Paulista, la confusione, i clacson, l'orologio digitale. Durante il pranzo a base di gamberi, lui disse che gli mancava quel ristorante, il Rodeio, il filetto ser­vito a fette, l'insalata dì crescione, il martini dry. Corsero in­sieme sulla spiaggia senza dire niente. Ma ogni cosa in qual­siasi movimento diceva che peccato, baby, l'estate è finita, cartolina illustrata, clic, e via. Fumarono sigarette un po' rinsec­chite sulla sabbia, guardando l'orizzonte, parlando forzatamente del Libro Che Lei Avrebbe Scritto e della Barca In Cui Lui Avrebbe Vissuto, perché insomma non erano animali, e avevano reciproco rispetto per i loro in-tel-let-ti. Più di tren­t'anni, di cui dieci di psicanalisi, nessun legame, una certa si­curezza, libertà allo stato puro. E tutto quel simulacro di Ha­waii intorno a loro: maturi, pronti. In attesa.

Lui le offrì un'altra Marlboro, lei accettò. Poi le spalmò dell'olio solare sulla schiena, lei lo lasciò fare. E disse che bello averti incontrato in mezzo a tanta gente così mediocre, e lui sorrise inorgoglito. E rispose non avrei mai pensato di in­contrare una donna come te in un posto come questo (mica siamo in un bordello, pensò lei diffidente), e sorrise lusinga­ta. Lui allungò una gamba, e il suo piede si trovò ben vicino al piede di lei. Che era bianco, arcuato per i molti anni di dan­za. Il piede di lui era bruno, con le nocche sporgenti, unghie non curate, piede da manager. Quasi casualmente, il piede di lui si posò su quello di lei. Che lasciò fare – era l'ultimo gior­no, il tempo stringeva. Il giorno seguente, tutto finito: the end – senza happy? Lei si sentì leggermente intontita da tutto quel sole, lui le chiese se voleva dell'acqua. Lei sospettò che la con­siderasse una tipa un po' pallosa perché in fin dei conti, in tutti quei giorni, non ci aveva neanche provato. Lui sospettò che lo considerasse un tipo totalmente bacchettone perché, in tutti quei giorni, non ci aveva neanche provato.

Si guardarono con tale sospetto e comprensione, a mezzo-giorno ormai inoltrato sulla spiaggia rovente. Gli occhi di lui lacrimavano per l'intensa luce. Lei gli prestò ray-ban da gat­ta, poi cominciò a ridere quando lui se li mise e si lasciò andare in una posa da checca. Non sarà mica che, le venne il sospetto. E girò lo sguardo verso un gruppo dì ragazze che gio­cavano a pallavolo, e lo fece in modo tanto deciso che a lui venne il sospetto, non sarà mica che. Tempi moderni, chissà. Il sole continuava a scendere, si scolarono tre lattine di birra ciascuno, ricordarono le parole di è-passato-un-anno-e-mezzo-da-quando-è-crollato-il-nostro-amore, lei pensò con disgusto alla Fiat verde che avanzava lungo il viadotto del Minhocão, otto di mattina, lui pensò con disgusto ai tre telefoni sulla sua scrivania, e tutti e due pensarono con un tale disgusto a tutte quelle cose che si dovettero fare un'altra birra, mentre il sole continuava a scendere. Non c'era più nessuno sulla spiag­gia quando videro il sole, una palla rossa, tuffarsi nel mare in direzione del Giappone. Quando nasce il giorno là, scende la notte qua, disse lui. Combinarono vagamente un sushi nel quartiere giapponese. Ma era l'ultimo giorno, estate piena, e in fondo non sentivano il minimo desiderio l'uno per l'altra.

Un vero peccato.



7



Cenarono a base di aragosta, la sera. Lei tutta in bianco, capelli sciolti, dorati dal sole, un po' bruciati dal sale. Lui tutto in nero, camicia aperta sul petto, un sottile strato di pelle tut­ta nuova sulla punta del naso non piccolo. Poi ballarono, bal­lavano sempre. Non si dissero quasi niente. Spirava una tiepi­da brezza marina, così, ecco, che agitava il fogliame delle palme da cocco. Sono una donna tanto sola, disse lei all'improv­viso. Sono un uomo tanto solo, disse lui all'improvviso. Fu nel momento in cui l'orchestrina attaccò Lygia di Tom Jobim che dissero insieme: João dovrebbe incidere questa un giorno, o l'ha già fatto? non ricordo: e-quando-poi-m'innamorai-non-fu-più-che-un'illusione. Si strinsero tanto l'uno all'altra, senza intenzioni nascoste, in una specie di rapimento estatico, che non si accorsero che la pista si stava svuotando, e che d'un tratto si erano fatte le tre, quasi le quattro del mattino. L'autobus per l'aeroporto partiva alle otto per lei, alle nove per lui, e loro continuavano nel mezzo della pista, senza riuscire a smettere di ballare musiche come Moonlight Serenade o As Time Goes By, con la complicità dei musicisti. Colonizzati, bacchet­toni e carenti, sperduti in mezzo a una fantasia sub-hawaiana che stava ormai per finire. Lei era soltanto una ragazza che voleva scrivere un libro, lui solo un ragazzo che voleva anda­re a vivere in una barca, ma si stavano nutrendo l'uno dell'altra per. Per che cosa? Non sembravano averne la minima idea.

Quando lei era distesa sul letto, da sola, era così bello sen­tire il profumo dell'altro ancora presente nelle sue mani. E quando lui era disteso sul letto, da solo, era così bello sentire il profumo dell'altra ancora presente nelle sue mani. Il corpo di lei si adattava così bene a quello di lui quando ballavano. A lui piaceva quando lei gli spalmava l'olio sulla schiena. A lei piaceva quando, dopo un suo lungo silenzio, lui le prendeva il mento tra le dita chiedendole cosa c'è, piccola? A lui piaceva quando lei gli diceva sai, con nessun uomo ho mai conversato con tanto piacere come con te. A lei piaceva quando lui le diceva divertito mi sembra di conoscerti da una vita. E anche quando le diceva rilàssati, mi sembri così tesa, dài, vieni qua, e l'abbracciava e le faceva appoggiare la testa contro la sua spalla, per guardare poi lontano, verso l'orizzonte del mare, finché tutto passava, e tutto passava veramente. A lui piaceva tanto quando lei gli passava la mano sulla nuca, fra i capelli un po' increspati, e gli diceva sciocco, non sci altro che un ragazzino sciocco.

Come ogni notte, lui la lasciò sulla porta del bungalow numero 19, quasi alle cinque del mattino, per l'ultima volta. Ma diversamente dalle altre notti, lei lo invitò a entrare. Lui entrò. Così spartano, là dentro, sarà pure stato un cinque stelle, né più né meno del suo. Non sapeva cosa fare, allora rimase in piedi accanto alla porta mentre lei apriva la finestra per far en­trare quella tiepida brezza marina. All'improvviso apparve molto sicura di sé. Premette una pulsante, e da un registratore cominciò a uscire la voce di Nara Leão che cantava These Foolish Things queste-cose-mi-parlano-di-te. Dondolando al suono della chitarra, lei gli andò incontro e lo invitò a ballare, per un poco ancora. Lui accettò, ma solo un pochino. Lui chiuse gli occhi. Lei chiuse gli occhi. Girarono e girarono intorno, con gli occhi chiusi. Per molto tempo, girarono senza sosta.

Lui disse:

– Non ti dimenticherò.

Lei disse:

– Neanch'io.

Poi la allontanò un poco, per guardarla meglio. Lei scosse i capelli, e lo guardò a fondo negli occhi. Come in una specie di ebbrezza. Che più che specie, era l'effetto di tutta quella vodka con ananas. Smisero di ballare. Nara Leão continuava a cantare. Il chiarore della luna entrava dalla finestra. E anche quella brezza tiepida, che l'indomani non avrebbero più sen­tita. Lui allora la guardò meglio: una donna un po' troppo ma­gra, un po' nervosa, piena di idee, non molto giovane – ma tanto dolce. Con le mani appoggiate sulle sue spalle, mentre scostava un poco i capelli, nello stesso istante lei lo guardò meglio: un uomo non molto alto, dall'aria confusa, un po' di pancia, non molto giovane – ma tanto dolce.

Ma che bella trappola, pensarono. E rimasero a guardarsi così, era già quasi mattino.

Lei non sopportò di guardare a lungo. Si girò di schiena, si affacciò alla finestra, come in un film: Doris Day, casta eppu­re ardita. Lui le si accostò da dietro: Cary Grant, ciclopico ep­pure mansueto. La toccò lievemente sulla spalla nuda bruno-dorata sotto il vestito scollato, e disse:

– Sai, ho riflettuto a lungo. Penso proprio che.

Lei si voltò di scatto. E disse:

– Anch'io. Penso proprio che.

Rimasero a guardarsi. Completamente abbronzati, gli occhi lucidi. Sarà la brezza? Piena estate scatenata là fuori. Vicinissimo a lei, lui le chiese:

– Che cosa? Lei disse:

– Sì.

L'afferrò per i fianchi e la strinse ancora di più a sé.

E disse:

– Sembri miele.

Lei disse:

– E tu, un girasole.

Poi tesero le mani l'uno verso l'altra.

Nel gesto preciso di chi vuol cogliere un frutto ormai maturo.



Note:
1 – Verso di una poesia di Carlos Drummond de Andrade.
2 – Citazione da O barquinho, di Joγo Gilberto.
3 - Citazione da Corcovado, di Tom Jobim.






( Tratto dalla raccolta di racconti I draghi non conoscono il paradiso , Quarup editrice, Pescara, 2008. Traduzione di Bruno Persico.)




Caio Fernando Abreu



Su Caio Fernando Abreu


di Bruno Persico

Ci sono tre immagini tra le tante che conservo di Caio Fernando Abreu e che a mio avviso fissano le tre grandi fasi nella vita dello scrittore brasiliano, nato nel 1948 nel profondo sud del Brasile al confine con l’Argentina, dove le strade si perdono negli sconfinamenti della pampa e dove l’immaginario simbolico dell’autore colloca il mitico “Passo da Guanxuma”.

La prima fotografia è un mezzo busto che ci presenta un Caio Fernando quasi trentenne, all’inizio del suo cammino artistico, i capelli folti che nascondono le orecchie, lo sguardo alto e laterale di chi è consapevole della propria sfida. Accanto alla sua, una fotografia in eguale formato di Julio Monteiro Martins, che in quegli anni -siamo nel 1977- era molto amico di Abreu e condivideva gli stessi obiettivi letterari: “descrivere l’uomo nella sua totalità, in quanto fenomeno sociale, tuttavia arricchito dei suoi condizionamenti psicologici ed esistenziali. Il problema dell’uomo che ha fame. Ma anche dell’uomo di fronte alla morte. Siamo come burattini che sono riusciti a recidere i fili, e per questo esercitiamo un’autocritica 24 ore su 24” (Julio Cesar). “Siamo autori che erano adolescenti nel 19641 e che solo ora si manifestano dal punto di vista letterario. Perché tutte lo porte ci furono chiuse e la realtà è diventata un qualcosa di troppo orribile. Abbiamo dovuto quindi infrangere le barriere scrivendo e presentando diverse forme della stessa visione di una realtà castrata. Siamo una generazione altamente manipolata, ma che riesce tuttavia ad avere una visione critica delle cose” (Caio Fernando)2. L’intervista di Cecília Prada ai due giovani scrittori si intitola “I topi pelosi”, un’immagine con cui Julio Cesar allude a quella cavia che riesce a sopravvivere in condizioni avverse, come lo scrittore che per non soccombere alla repressione e alla censura è costretto a ricorrere ad ogni mezzo possibile, prima fra tutti la letteratura, appunto.

Le opere di Abreu in questo periodo, dal 1970 al 1977, sono storie di esseri isolati e marginali che abbracciano la follia come unico mezzo per affermare la propria individualità e distanziarsi dalla massa degli alienati3, racconti surrealistici in cui l’individuo che si scopre diverso si scontra con il resto della colletività e viene da questa soppresso4, storie di orrore che sono critiche al regime nella contrapposizione tra un mondo esterno dominato dal limite e dal divieto e un mondo interno pure frammentato e isolato5, o un vero e proprio Bildungsroman di un adolescente educato in un contesto conservatore di una famiglia del patriarcato rurale del Rio Grande do Sul6. I suoi personaggi hanno le ali tarpate, sono vittime di un sistema e di una realtà che li schiaccia sotto il suo peso, sono esseri malati ai quali è preclusa ogni via d’uscita.

La seconda è una fotografia “postuma” in un articolo di Marcelo Secron Bessa del 1998 che celebra i 50 anni dello scrittore scomparso due anni prima. E’ l’immagine di un Caio Fernando ormai maturo, una decina di anni più tardi; l’inquadratura presa dall’alto ne mette in risalto l’assertività, i neri occhiali da sole da divo del cinema ne celano lo sguardo, le grandi orecchie sono ora pienamente visibili e la stempiatura isola un ciuffo di capelli in mezzo al capo. La T-shirt bianca a maniche rimboccate ostenta la nitida scritta: Se la passione non può ch’esser provvisoria, che sia folle e bella la nostra storia, parole chiave ben in risalto. “Caio Fernando Abreu ha influenzato la nuova generazione di scrittori gay”, compare in neretto sotto la fotografia dell’articolo intitolato “Caio, uno strano straniero7. I 50 anni dello scrittore segnano una rilettura della sua opera”. All’ostracismo della critica, forse per la sua maniera cruda e dolorosa di parlare dell’uomo e del mondo contemporaneo, accentuata dalla scelta di temi giudicati “pesanti”, sta subentrando un accresciuto interesse per l’opera e la figura di Abreu, testimoniato anche dalle numerose pubblicazioni postume di suoi testi inediti e di opere ispirate o legate alla sua figura8, o dagli studi di cui è reso oggetto sia in Brasile che altrove.

E’ senza dubbio l’Abreu del dopo dittatura a entusiasmare maggiormente gli animi dei lettori, partendo dal libro che ne ha consacrato la popolarità, (anche se più per la versione teatrale di alcuni suoi racconti), Morangos Mofados (Fragole ammuffite), del 1982. Come ogni opera di Abreu, è un libro con una precisa struttura: i racconti della prima parte sono popolati da personaggi sconfitti e prigionieri di spazi chiusi e di un passato di illusioni e di speranze puntualmente infrante dalle frustrazioni di una realtà impazzita alla quale si può reagire solo con la fuga. Ad essi si contrappongono i personaggi della seconda parte, i quali trovano il modo di affermare la propria identità, che è in primo luogo identità sessuale. Il tema dell’omosessualità si insinua tra le righe, molto spesso presentato in modo allusivo, mai urlato con forza militante, eppure considerato come un elemento proprio dei personaggi e parte della loro natura contro tutte le proibizioni. E così continuerà ad essere nella produzione seguente di Abreu: in Triângulo das Águas (Triangolo delle acque)9, del 1983, nel cui racconto Pela noite (Di notte) la coppia di uomini vive il suo momento di conoscenza e affermazione passando attraverso paure e frustrazioni, sullo sfondo di una San Paolo notturna e frenetica. O nei racconti di Os dragões não conhecem o paraíso (I draghi non conoscono il paradiso), del 1988, nel quale la preoccupazione dell’auto-affermazione si alterna ad una critica dei falsi valori di una società dominata dal consumismo e da una visione borghese della vita10. Nel 1991 Abreu ritorna al romanzo con Onde andará Dulce Veiga?11, un viaggio in una San Paolo underground tra gruppi rock, travestiti, omosessuali, avvolta in un’atmosfera dark e claustrofobica alla ricerca di una cantante scomparsa e di una ragione di vita. In un ritmo frenetico, nei colori graffianti sull’orlo di un kitch dai toni almodovariani si compone una sorta di pastiche postmoderno che presenta le contraddizioni delle metropoli brasiliane.

L’ultima fotografia di Caio Fernando accompagna un’altra intervista del settimanale ISTOÉ dal titolo “Senza vergogna di avere l’AIDS. Speranza e ironia sono le armi che aiutano a sopravvivere Caio Fernando Abreu, sieropositivo, che a sua volta aiuta gli altri a parlar chiaro della malattia”. Siamo nel 1995, Abreu è malato da oltre un anno, i segni della malattia sono evidenti sul viso emaciato, nello sguardo stanco e in quella giacca sgualcita che gli penzola addosso. Pochi mesi prima, nel settembre del 1994, in una delle cronache che regolarmente scriveva sul quotidiano O Estado de São Paulo, sfidando ogni tabù e quanti li alimentano, Abreu confessa di essere portatore dell’HIV12. Rispondendo alla domanda di Paulo César Teixeira su come possa aver contratto il virus, Abreu risponde: “Sono una persona molto cliché: negli anni 50 andavo in moto e ballavo il rock-and-roll; negli anni 60 mi hanno arrestato accusandomi di essere comunista; poi sono stato un hippy e ho provato tutte le droghe. Sono passato anche per la fase punk e per quella dance. Non c’è nessun tipo di esperienza cliché della mia generazione che io non abbia vissuto. Quindi, per me, essere sieropositivo rappresenta semplicemente il volto della mia morte. E’ in sintonia con la vita che ho avuto e col tipo di persona che sono”. Il fantasma dell’AIDS si era già insinuato in alcune sue storie prima ancora di invadere anche la sua vita, come in “Linda, una storia orribile” (in Rivista Sagarana on-line n° 3), ad esempio, e addirittura nel racconto Pela passagem de uma grande dor (Al passaggio di un forte dolore) della raccolta Morangos Mofados, del 1982, l’opera che meglio di qualsiasi altra catturò lo spirito di un’intera generazione cresciuta nei tormentati anni 60 e 70. Un’ulteriore conferma di quanto in lui vita e letteratura fossero da sempre intimamente connesse. La malattia, il progressivo indebolimento e la percezione di essere prossimo alla fine determinano in Caio Fernando un’ansia frenetica di scrittura, di riorganizzazione della propria opera, e di riconciliazione con il passato: ritorna nella sua terra di origine, a Porto Alegre (che nelle lettere agli amici egli chiamerà divertito Gay Port), rimette mano ad alcuni suoi libri, pubblica racconti inediti, partecipa ad incontri e a mostre letterarie, azzarda progetti fantastici e si dedica alla cura del giardino di casa, proiettando nella fragilità delle piante e dei fiori la propria fragilità. Conservando fino all’ultimo l’ironia e la dignità che lo avevano contraddistinto.

Scrive Luciano Alabarse13nello speciale su Zero Hora in occasione della sua morte, il 26 febbraio 1996: “Caio era un angelo, di quelli di Win Wenders, dal temperamento forte e la lingua affilata, in assoluta sintonia con il tempo che gli toccò di vivere. Uno scrittore raro, la cui opera è fondamentale per la letteratura brasiliana degli ultimi anni, autore di alcuni dei libri più coraggiosi e meglio scritti che sono giunti fino a noi. Fu un rigoroso artigiano della parola, implacabile con tutto ciò che produceva. E, allo stesso tempo, di una sconfinata generosità (...)”.


1 Anno in cui si insedia la dittatura in Brasile.

2 In “Os ratos peludos”, ISTO É, 27/7/1977.

3 Inventário do Irremediável, 1970

4 O ovo apunhalado, 1975

5 Pedras de Calcutá, 1977

6 Limite Branco, 1971

7 Allusione al titolo del libro postumo “Estranhos estrangeiros”, 1996.

8 Tra queste la raccolta di racconti Caio de amores, pochi mesi dopo la sua scomparsa; il carteggio tra Abreu e Luciano Alabarse, registra teatrale di Porto Alegre, di prossima pubblicazione, e le opere teatrali complete, oltre ai numerosi adattamenti teatrali e filmici dei suoi racconti.

9 Nella mente dello scrittore doveva essere il primo libro di una quadrilogia ispirata agli elementi naturali e ai segni zodiacali di ogni elemento. Ciascun racconto di Triângulo das Águas si ispira non solo ad uno dei segni di acqua, ma ad un’opera musicale o letteraria: il “Concerto di Colonia”, di Keith Jarreth, il poema “Il marinaio” di Fernando Pessoa, e la musica “Anni di solitudine” di Astor Piazzolla. Una simile operazione di “multimedialità” è un tratto che contraddistingue la tecnica creativa dell’autore.

10 Parte dei racconti di Morangos Mofados e Os dragões não conhecem o paraíso sono pubblicati in Italia nella raccolta Molto lontano da Marienbad, Ediz. Zanzibar, Milano, 1995.

11 Dov’è finita Dulce Veiga?, Ediz. Zanzibar, Milano, 1993.

12 “Ho sempre amato il mistero, ma preferisco la verità. E ritenendola di gran lunga superiore al primo, ti scrivo ora così, in modo chiaro. Non ho nessun motivo per nascondere. Né provo alcun senso di colpa o di paura.” (Ultima carta para além dos muros, in O Estado de São Paulo, 18.9.1994)

13 vedi nota 8.


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